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IL BUON MESSAGGIO (Eu-angelo, ev-angelo, non ... vangelo, il gelo dell’inferno!). In principio era la Parola del Dio Amore ("Deus Charitas") - non il "logo" di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)!!!

PIRANDELLO E LA BUONA-NOVELLA. DALL’ITALIA, DALLA SICILIA, DA AGRIGENTO, DA BONN, DA ROMA, DA MILANO, DA NAPOLI, DA SAN GIOVANNI IN FIORE, E DA GERUSALEMME: UN "URLO" MAGISTRALE PER BENEDETTO XV ... E BENEDETTO XVI - a c. di Federico La Sala

LA NOTTE DI NATALE. Basta con la vecchia, zoppa e cieca, famiglia cattolico-romana, camuffata da "sacra famiglia"!!!
giovedì 13 settembre 2012 di Emiliano Morrone
[...] Venuta la notte di Natale, appena il signor Pietro Ambrini con la figlia e i nipotini e tutta la servitù si recarono in chiesa per la messa di mezzanotte, il signor Daniele Catellani entrò tutto fremente d’una gioia quasi pazzesca nella stanza del presepe: tolse via in fretta e furia i re Magi e i cammelli, le pecorelle e i somarelli, i pastorelli del cacio raviggiolo e dei panieri d’uova e delle fiscelle di ricotta - personaggi e offerte al buon Gesù, che il suo demonio non aveva (...)

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> PIRANDELLO E LA BUONA-NOVELLA. -- "Teatro vecchio togliti gli occhiali". Figlio del Caos contro la “gente perbene”. Dalle contestazioni violente alla celebrazione mondiale.

domenica 25 giugno 2017

Teatro vecchio togliti gli occhiali

A 150 anni dalla nascita, il discorso pronunciato nel ’34 all’inaugurazione della nuova sede dellaStampa

di Luigi Pirandello (La Stampa, 25.06.2017)

Sarà forse nota anche a voi l’avventura di quel povero campagnuolo, il quale, avendo sentito dire al suo parroco che non poteva leggere perché aveva lasciato a casa gli occhiali, alzò l’ingegno e concepì la peregrina idea che il saper leggere dipendesse dall’aver un pajo d’occhiali; per cui se ne venne in città ed entrato in una bottega d’occhialajo domandò:
— Occhiali per leggere!
-  Ma poiché nessun pajo d’occhiali riusciva a far leggere il pover’uomo, l’occhialajo alla fine spazientito, dopo aver buttato giù mezza bottega, sbuffò:
— Ma insomma, sapete leggere?
-  Al che, meravigliato, il campagnuolo:
— Oh, bella! E se sapessi leggere, sarei venuto da voi?
-  Orbene, di questa ingenua maraviglia del pover’uomo di campagna dovrebbero avere il coraggio e la franchezza tutti coloro che, non avendo né un proprio pensiero né un proprio sentimento da esprimere, credono che per comporre una commedia, un dramma o magari una tragedia, basti semplicemente mettersi a scrivere a modo d’un altro.
-  Alla domanda: - Ma, insomma, avete qualche cosa di proprio vostro da dirci? - dovrebbero avere il coraggio e la franchezza di rispondere: - Oh, bella! E se avessimo qualcosa di proprio nostro da dire, comporremmo forse così, a modo d’un altro?
-  Ma comprendo che questo sarebbe veramente un chieder troppo.

Basterebbe forse che questi tali non s’indispettissero tanto allorché qualcuno fa loro notare pacatamente che nessuno vieta, è vero, l’esercizio di fare e rifare un teatro già fatto, ma che questo esercizio significa che non si hanno occhi propri, bensì un pajo d’occhiali tolti in prestito altrui.

È stato detto e ripetuto che la facoltà imitativa o decorativa nella natura dell’ingegno latino in generale è superiore alla inventiva o creativa, e che tutta quanta la storia del nostro teatro, e in genere, della nostra letteratura, non è altro in fondo che un perpetuo avvicendarsi di maniere imitate; e che, insomma, cercando in essa si trovano certo moltissimi occhiali e pochissimi occhi, i quali tuttavia non sdegnarono spesso, anzi ebbero in pregio di munirsi d’antiche lenti classiche per vedere a modo di Plauto o di Terenzio o di Seneca, che a loro volta avevano veduto a modo dei tragici greci e di Menandro e della commedia di mezzo ateniese.
-  Ma questi - diciamo cosi - ausili visivi erano almeno fabbricati in casa nostra dalla Retorica che tenne sempre da noi bottega d’occhiali; e questi occhiali passarono da un naso all’altro per generazioni e generazioni di nasi, finché all’improvviso, con l’insorgere del romanticismo, non si levò il grido: - Signori, proviamoci un po’ a guardare con gli occhi nostri! - Si tentò; ma, ahimè, si riuscì a vedere ben poco. E cominciò allora l’importazione degli occhiali stranieri.

Storia vecchia. E non ne avrei fatto parola, se veramente un po’ da per tutto non si fosse arrivati a tal punto che, per entrare nel favore del pubblico, non giovi tanto avere un pajo d’occhi proprii, quanto esser forniti d’un pajo di occhiali altrui, i quali faccian vedere uomini e vita d’una certa maniera e di un dato colore, cioè come vuole la moda o come il gusto corrente del pubblico comanda. E guaj a chi sdegni o ricusi comunque d’inforcarseli, a chi s’ostini a voler guardare uomini e vita a suo modo: il suo vedere, se semplice, sarà detto nudo; se sincero, volgare; se intimo e acuto, oscuro e paradossale; e la naturale espressione di questo mondo nuovo apparrà sempre piena di grandissimi difetti.

Riparlerò di questi difetti. Il più grosso e il più notato, è stato sempre - in ogni tempo - quello dello « scriver male». È una pena riconoscerlo, ma tutte le visioni originali della vita sono sempre espresse male. Cosi almeno furono sempre giudicate al loro primo apparire, segnatamente da quella peste della società che è la così detta gente colta e perbene. [...]

Signori, per il colto Quattrocento Dante scriveva male, la Divina Commedia era scritta male, e non soltanto perché non composta in latino ma in volgare, ma proprio scritta male anche in quello stesso volgare; e Machiavelli? Scrive Il Principe e deve con vergogna scusarsi e confessare di non esser colto abbastanza di lettere per scriverlo meglio. E ai fanatici del fioritissimo Tasso non sembrava forse scritto male anche L’Orlando furioso dell’Ariosto? E scritta non solo male, ma pessimamente apparve La Scienza Nuova del Vico, a cui avvenne il caso ben curioso di mettersi a scrivere in tutt’altro modo, da parere un altro, quando volle piacere a tutti coloro che erano soliti leggere con gli occhiali di quella Retorica, che egli stesso poi abitualmente professava.

Per concIudere questo discorso d’cchi e d’occhiali, il bello tuttavia è che quelli che han gli occhiali (e tutta Ia gente coIta li ha o almeno si presuppone che debba averli, e tanto più, quanto più finga di non avvedersene) predicano che in arte bisogna assolutamente aver occhi proprii; e intanto danno addosso a chi, bene o male, se ne serve; perché - intendiamoci! - occhi proprii sì, ma debbono essere e vedere in tutto e per tutto come gli occhi loro, che viceversa sono occhiali, tanto che se cascano, felice notte. [...]


Figlio del Caos contro la “gente perbene”

Lo scrittore a Torino, tra le prime teatrali e una stroncatura preventiva

di Maurizio Assalto (La Stampa, 25.06.2017)

Quando il 12 maggio 1934, inaugurando la nuova sede torinese della Stampa, in via Roma angolo via Bertola, Luigi Pirandello pronunciò il suo discorso sul teatro nuovo e il teatro vecchio, mancavano soltanto sei mesi alla consacrazione del premio Nobel. Il «figlio del Caos» - come si definiva emblematicamente, dal nome della contrada di Girgenti in cui aveva visto la luce il 28 giugno 1867 - era all’apice della fama, una celebrità internazionale contesa dai teatri di tutto il mondo e corteggiata dal cinema. Eppure la sua prosa era intrisa di pungente ironia contro «quella peste della società che è la così detta gente colta e perbene», la stolida «onesta borghesia» che fino a pochi anni prima lo aveva contestato sonoramente.

Anche se - come continuava il discorso - ormai era richiesta «un po’ dovunque una certa lente Pirandello a detta dei maligni diabolica, che fa veder doppio e triplo, e di sghimbescio, e insomma il mondo sottosopra», nelle orecchie dello scrittore dovevano ancora risuonare gli schiamazzi del pubblico che alla prima dei Sei personaggi, nel 1921 al Teatro Valle di Roma, lo aveva costretto alla fuga in carrozza con la figlia Lietta, fatto bersaglio di monetine, mentre alcuni giovani tra i quali Galeazzo Ciano e Orio Vergani (la cui sorella Vera recitava nei panni della Figliastra) avevano formato una nerboruta squadra in sua difesa (l’episodio fu rievocato da Lucio Ridenti sulla storica rivista Il dramma, da lui fondata e diretta fino al ’68).

Al teatro, Pirandello si era volto dal 1910, quando su sollecitazione di Nino Martoglio aveva composto Lumìe di Sicilia, subito realizzando che i proventi del palcoscenico superavano di gran lunga quelli della narrativa. A Torino, dove all’inizio del secolo l’editore Streglio gli aveva pubblicato le novelle di Quand’ero matto e di Bianche e nere, lo scrittore era di casa. Qui, il 27 novembre 1917, al Teatro Carignano, esordì in prima nazionale Il piacere dell’onestà, con la compagnia di Ruggero Ruggeri.
-  Nelle pagine torinesi dell’Avanti! Antonio Gramsci lo recensì con favore, ben cogliendone la portata eversiva: «Luigi Pirandello è un “ardito” del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sedimenti di pensiero». E ancora Torino, nel giro di un mese, nel 1929, ospitò la prima di due testi meno noti, O di uno o di nessuno e Lazzaro.

Ma nel frattempo, a partire dai Sei personaggi, il drammaturgo dinamitardo aveva fatto saltare anche l’invisibile «quarta parete» tra gli attori e il pubblico, e le elucubrazioni meta-drammaturgiche del palcoscenico avevano messo a dura prova le platee più tradizionaliste. E proprio la pièce conclusiva della trilogia del «teatro nel teatro», Questa sera si recita a soggetto, vide sotto la Mole la sua prima nazionale (dopo l’esordio a Königsberg), il 14 aprile 1930 al Teatro di Torino, con la compagnia appositamente costituita da Guido Salvini.

Nel bene e nel male, Pirandello incrocia più volte la strada per la capitale subalpina. Già vi era transitato nel 1901 (e se ne sarebbe ricordato tre anni dopo nel Fu Mattia Pascal, rievocando un tramonto sul Lungo Po), diretto a Coazze per un mese di villeggiatura. Nel paese della Val Sangone lo colpì il motto vergato sul campanile della chiesa, «Ognuno a suo modo», che nel 1924 gli ispirò il titolo della seconda commedia della trilogia, Ciascuno a suo modo.

Ma da Torino, e proprio per questa pièce, gli venne quell’anno un dispiacere, quando dalle colonne della Gazzetta del Popolo Domenico Lanza, fondatore e direttore in città del primo Teatro Stabile italiano, fine critico singolarmente chiuso alle novità del lavoro pirandelliano, stroncò lo spettacolo prima ancora dell’esordio, il 22 maggio al Teatro dei Filodrammatici di Milano.

Già due giorni prima, tuttavia, in una lettera al Corriere della Sera, l’autore si era vendicato con uno sberleffo del «feroce e riveritissimo nemico», informandolo di avere provveduto a inserire la sua stroncatura «nel primo degli intermezzi corali della commedia», in cui «sono introdotti anche i critici drammatici a dare il loro parere». Così «il signor Domenico Lanza, di qua a venti giorni, allorché la commedia sarà rappresentata a Torino, potrà risparmiarsi di scriverne ancora sulla Gazzetta del Popolo, constatando con soddisfazione come io abbia dal palcoscenico reso noto il suo anticipato giudizio anche a quella parte del pubblico che per caso non avesse letto il giornale».


Dalle contestazioni violente alla celebrazione mondiale

Nel 2000 Time ha scelto i Sei personaggi come migliore pièce del ’900. Oggi è con Shakespeare il più rappresentato in Italia

di Masolino D’Amico (La Stampa 25.6.2017)

Per salutare l’anno 2000 la rivista americana Time tracciò alcuni bilanci del secolo precedente, e come miglior pièce teatrale del ’900 scelse I sei personaggi in cerca d’autore. Con questa motivazione: «Realizza le principali preoccupazioni del secolo circa la vita e l’arte: la condizione esistenziale dell’uomo, la linea tra illusione e realtà». Ottant’anni prima, al debutto romano il capolavoro di Luigi Pirandello aveva provocato contrasti violenti, addirittura scazzottate in strada tra ammiratori e avversari, e aveva avuto tre sole repliche.

Le cose andarono meglio con la ripresa di Milano; in ogni caso, la risonanza oltralpe fu quasi subito impressionante. A Londra, è vero, il Lord Censore lo vietò e lo si dovette allestire in un club privato. Ma l’edizione parigina di Georges Pitoeff fu osannata dalla critica e batté il record di incassi; quella di New York ebbe 134 repliche consecutive, e fu seguita da una versione in yiddish.
-  Da allora in poi Pirandello incontrò all’estero più attenzione che nel suo Paese, al punto che si trasferì per un lungo periodo in Germania e poi a Parigi. Alcuni suoi lavori debuttarono in terra straniera, e il cinema inglese e americano lo corteggiarono spesso, specie dopo l’avvento del sonoro, anche se con pochi risultati davvero soddisfacenti (se vi par poco un Come tu mi vuoi con Greta Garbo e Erich Von Stroheim). Nel 1934 il premio Nobel sancì una reputazione mondiale indiscussa.

Audacia innovativa

A parte l’audacia innovativa del suo teatro, audacia che non si compendia certo nella rottura della barriera tra spettatori e pubblico nei Sei personaggi, è probabile anche che Pirandello rendesse di più in traduzione, almeno agli orecchi del pubblico di allora. Che da noi era sintonizzato sulla magniloquenza dannunziana, ovvero sulla prosa d’arte, e non trovava ammirevole la secchezza di un autore così concreto nell’espressione come sfuggente nei concetti.

Oggi è il contrario, dagli anni 1960 in poi Pirandello è, con Shakespeare, il drammaturgo più eseguito in Italia. Prima di dedicarsi al teatro, dove giunse in età relativamente avanzata, aveva scritto parecchio, anche un bestseller, il romanzo Il fu Mattia Pascal, ristampato ininterrottamente da allora (1904): libro che la critica ufficiale prese sottogamba.
-  Inoltre l’uomo di Girgenti aveva prodotto, sempre senza ostentazioni di eleganza formale, decine e decine di racconti nella tradizione del suo predecessore Giovanni Verga (che fu tra i suoi primi estimatori), impressionanti per varietà di temi e personaggi di tutte le età e condizioni sociali, vivacissima commedia umana dalla quale avrebbe poi tratto spunti per il suo teatro. Al quale arrivò quando negli anni 1910 l’amico Nino Martoglio gli chiese qualcosa per una sala che dirigeva, e per il quale si scoprì subito un talento anche di attore - famose le sue letture alle compagnie - e di manager.

Mal sopportato dal Duce

Gli oltre quaranta testi che firmò spaziano in più generi, tra cui la farsa, anche gustosissima (L’uomo, la bestia e la virtù) e l’idillio paesano in dialetto (Liolà). Ma quelli che meglio lo caratterizzano trattano casi umani fondati sull’impossibilità di raggiungere una verità soddisfacente per tutti. Per Pirandello le persone non «sono», ma «recitano» una parte, e la società non consente loro di uscirne. Quando una comunità si coalizza per costringere una sconosciuta a rivelare chi sia - Così è (se vi pare) -, ella risponde: «Io sono colei che mi si crede».

Audace nella costruzione, con primi atti in cui spesso, diversamente dalla consuetudine, non solo non si chiarisce la situazione ma si confondono le acque, Pirandello si fece una fama di causidico, di cavillatore. Benedetto Croce non lo prese sul serio come pensatore, dal che secondo alcuni il suo clamoroso voltafaccia al Manifesto degli intellettuali e l’adesione al Fascio subito dopo il delitto Matteotti. Da quel gesto Pirandello si aspettava che il regime aiutasse finanziariamente le compagnie teatrali che fondò, ma non ottenne mai altro che promesse. Del resto la sua sconsolata visione di un mondo in cui non possono esservi certezze, dell’uomo come creatura in grado di vedere solo entro il raggio del «lanternino» che si porta appresso, non poteva piacere alla fiera e progressista propaganda del regime.


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