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In principio era l’amore (charitas - non caritas!!!): pensare l’ "edipo completo"(Freud)

INTERVISTA A JULIA KRISTEVA. Anche chi non crede in Dio, crede nell’amore e ciò mi pare oggi il più grande elemento di persistenza della nostra civiltà cristiana. Ma, detto questo, la studiosa ri-cade nelle braccia dell’autorità paterna (della versione cattolico-romana del cristianesimo ... ancora edipica) - a cura di Federico La Sala

martedì 10 luglio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] «Credo che esista un bisogno pre-religioso di credere e nell’esperienza psicanalitica può essere ricercato attorno alla cosiddetta identificazione primaria del figlio col padre. Non si tratta del padre edipico, quello dei divieti. Ma del padre dell’amore, dato che l’autorità paterna è un connubio fra il padre della legge e questo padre che ama. L’acquisizione del linguaggio richiede già questa fiducia di sé che ci viene data dal padre che ama. Leggendo la Seconda lettera ai Corinzi, (...)

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> INTERVISTA A JULIA KRISTEVA. Anche chi non crede in Dio, crede nell’amore -- Contro questo disastro, leggiamo Bataille e Dostoevskij. Una indicazione (di Julia Kristeva)..

sabato 27 febbraio 2021

Dostoevskij ci può aiutare contro questo disastro

La lectio magistralis dell’intellettuale di origine bulgara

di Julia Kristeva (la Repubblica, 18Febbraio 2021)

Sono convinta che il disastro umano imposto da questa crisi sanitaria ed economica non possa essere gestito con procedure mediche, economiche e politiche, per quanto efficaci. Perché? Perché è la fortezza interiore che dobbiamo salvare in questo stato di guerra in corso. Parlo di fortezza interiore intendendola nel senso in cui i lettori conoscono questa esperienza, e la lettura ci riporta alla fortezza interiore. Il libro, per alcuni la preghiera, per me la scrittura.

Parlo di fortezza interiore con il significato dato a questa espressione da un grande scrittore francese: Georges Bataille, che ne parla così nel libro "L’esperienza interiore": «L’esperienza interiore è l’approvazione della vita fin dentro la morte». Intesa così, dice, l’esperienza interiore è anche una contestazione permanente. Contestazione di cosa? Contestazione del ripiegamento su di sé, sui propri modelli, limiti e significati.

La scrittura, la lettura ci invitano a questa contestazione, a questa approvazione della vita fin dentro alla morte. Ma perché proprio Dostoevskij? Perché ve ne parlo? Perché penso che l’opera di Dostoevskij possa illuminarci, possa ottimizzare la nostra esperienza interiore nella situazione attuale.

Vi racconterò come io ho scoperto Dostoevskij, perché ho accettato di parlarne in un libro pubblicato in Italia da Donzelli con il titolo "Lo scrittore della mia vita". Perché posso dire che Dostoevskij è uno degli scrittori della mia vita.

Come sono arrivata a Dostoevskij? Per riassumere un po’ la storia, inizierò da un episodio che mi è accaduto di recente. Qualche anno fa, quando sono mancati i miei genitori. Cercando nella biblioteca di famiglia ho scoperto sull’ultimo scaffale in fondo, nell’ultima fila, contro il muro, i romanzi di Dostoevskij e, accanto, la traduzione in bulgaro del libro di Freud "Introduzione alla psicoanalisi". Due pilastri del mio percorso. Dostoevskij per la letteratura e Freud erano già nella biblioteca di famiglia. Ma mio padre consultava questi libri in segreto.

Erano vietati alle sue figlie, a me e mia sorella. Perché ce li vietava? Sognava di farci lasciare la nostra Bulgaria natale. Secondo lui dovevo sviluppare ciò che considerava il mio gusto innato per la chiarezza e la libertà, necessariamente in francese. Per questo ci aveva iscritte - io in particolare, mia sorella ha seguito un altro percorso nella musica - alla scuola materna francese. Ho scoperto molto presto la lingua di La Fontaine, Voltaire e Hugo.

Oltre a quella del grande fratello russo che ci era stata imposta naturalmente. Mio padre preferiva che restassi nel filone della lingua francese e della sua cultura di libertà, la cultura dell’Illuminismo. Soprattutto perché, ai tempi, Dostoevskij era ufficialmente tacciato come oscurantista religioso e nemico del popolo. Cercava di proteggermi da una possibile discriminazione a scuola in quanto lettrice di Dostoevskij.

Anche se, dietro le quinte staliniane dell’epoca, le opere di Dostoevskij erano ancora lette con grande trasporto e passione all’università e tra i ricercatori. Durante ciò che chiamiamo il disgelo, ossia l’inizio della destalinizzazione, viene pubblicata la seconda edizione del libro di Michail Bachtin, un post-formalista russo: "Problemi dell’opera di Dostoevskij", che diventa un fenomeno sociale e un sintomo politico. Il pensiero della dissidenza, della liberazione politica, economica e sociale, passava prima dalla teoria della letteratura, dalle arti, che dalla filosofia o dalla sociologia, sclerotizzate e ufficiali.

Quando sono arrivata a Parigi con cinque dollari in tasca in attesa della borsa di studio per il dottorato sul Nouveau Roman francese, avevo il libro di Bachtin in valigia. L’ho presentato al seminario di Roland Barthes. Fu l’inizio di ciò che sarà chiamato post-strutturalismo. In poche parole, il post-strutturalismo vedeva nella lingua non solo una struttura ma un movimento dialogico, un dialogo tra sé e gli altri. Il monologo, già a Bachtin e anche a me, non appariva come una monotonia narcisista ma come colloquio permanente tra l’altro e l’altro in sé. Anche in un monologo, si è in due a parlare. Si è divisi in due: la propria alterità, sé stessi, e qualcun altro a cui ci si rivolge, pur senza sapere chi è.

La lingua è dunque un inesauribile colloquio. Questa è la prima versione del rinnovamento che abbiamo portato e che si ritrova accentuato in Dostoevskij. La sua scrittura interroga costantemente sé stessa, interroga gli altri, l’epoca. Non soltanto sé stessa e gli altri, come ho detto, ma anche l’epoca e dunque il contesto sociale.

Mi chiedono perché amo Dostoevskij. Spesso dico che faccio fatica a rispondere a questa domanda. La parola "amare", che è molto ampia, non è adatta. Se leggerete Dostoevskij, spero che troviate ciò che io ho trovato: lasciarsi sommergere da una prosa esorbitante, ansimante, ferita. In una lettera al poeta Maikov, Dostoevskij dice: «Ovunque, e in ogni cosa, vivevo fino al limite estremo e ho trascorso la mia vita ad attraversarlo».

Vivere al limite estremo di sé e degli altri, essere sempre al limite del bene e del male, della credenza e dell’ateismo, del nichilismo e della fede profonda. Tutti questi estremi del pensiero e della sensibilità sono qualcosa che inghiotte, che divora. Il termine "amore" forse può essere utilizzato, ma nel senso di una passione che annulla e al contempo conduce al benessere. Con la sua scrittura Dostoevskij ci lascia una testimonianza di grande ricchezza, di grande penetrazione psichica dei limiti della nostra vita spirituale e sessuale che ha percepito e che ha descritto. È per questo motivo che fa parte della biblioteca che dobbiamo leggere, oggi e non solo.

Quando siamo in cerca di valori e di appigli poter entrare in questa penetrazione e poter espellere i demoni partendo da una scrittura così umana e che non distoglie lo sguardo dal potenziale morboso dell’essere umano, dalla viralità della psiche, mi fa dire... Leggiamo Dostoevskij.


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