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A Mikhail Gorbaciov e a Karol J. Wojtyla ... per la pace e il dialogo, quello vero!!!

"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede - a cura di Federico La Sala.

«Io non sono in grado di affermare se i colloqui riferiti rappresentano una condanna della sua opera; ciononostante possono indurre anche noi a una riflessione».
venerdì 11 maggio 2012 di Maria Paola Falchinelli
[...] Alla presenza di un ex-prete ungherese, suo collega giornalista a Parigi e suo confidente, sicuro dell’imminenza della morte - come avevano affermato i medici - avrebbe dichiarato: «Ho sbagliato. Senza dubbio è stato necessario liberare masse di persone dalla repressione, ma i nostri metodi hanno avuto, come conseguenza, l’oppressione e il terrificante massacro di altri oppressi». Proseguiva, rivolto all’amico ungherese: «Tu sai che la mia malattia mi porterà presto alla morte e mi (...)

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> "AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E --- "Nel primo cerchio" di Solženicyn. il grande affresco della Russia staliniana in traduzione integrale (di Anna Zafesova).

giovedì 6 dicembre 2018

Solženicyn non è più “spennato”: il grande affresco della Russia staliniana in traduzione integrale

Arriva in traduzione integrale il manuale di psicologia di tutti i dittatori. “Nel primo cerchio” era stato purgato dall’autore stesso per sfuggire alla censura sovietica

di Anna Zafesova (La Stampa, 06.12.2018)

Dalla prima traduzione di Nel primo cerchio, nel 1968, in poi in Italia veniva pubblicata la versione «spennata», come la definisce lo stesso Solženicyn, che lo scrittore cercò di adattare alla censura sovietica. Non ci riuscì, ma fu proprio questa stesura a venire pubblicata in Occidente e a meritare allo scrittore il Nobel. A venire sacrificati furono, ovviamente, i capitoli su Stalin, e altri passaggi cruciali ma troppo taglienti, per un totale di nove capitoli, oltre alla molla stessa del plot, resa più innocente.

Un romanzo concepito nel 1945-1953, durante la prigionia nel Gulag, scritto nel 1955-58, modificato nel 1964, ricostruito nel 1968, e che la casa editrice Voland propone al lettore italiano mezzo secolo dopo nella versione integrale, in tutta la sua grandezza da cattedrale, alla quale lo paragonò Heinrich Böll, con arcate, volte, travi a sorreggersi in un insieme imponente e leggiadro allo stesso tempo, tenuto insieme in una tensione perfetta da migliaia di mattonelle. Della cattedrale possiede il respiro della navata - il panorama multidimensionale della Russia staliniana, dalle campagne desolate ai salotti della borghesia rossa, e dalle segrete del Gulag alla dacia del leader - e la vertiginosa guglia dei capitoli su Stalin, ma anche la moltitudine di angoli reconditi, cappelle, affreschi, statue che emergono dall’oscurità, composti da singole storie, scene, personaggi, in un quadro che ricorda nella ricchezza e terribile nitidezza un gigantesco Giudizio universale a tutta parete.

Tutti finiscono dannati, in una Russia paragonata all’inferno fin dal titolo. Buona parte dell’azione si svolge nella šaraška, il primo girone «di lusso» del Gulag, la prigione privilegiata alle porte di Mosca dove ingegneri e matematici detenuti inventano apparecchiature che aiuteranno i loro carcerieri a fare altri prigionieri. Ci sono tutti i temi più cari a Solženicyn: la rivoluzione, la religione, la donna, il popolo contadino, la monarchia, la lingua russa, l’Europa, il marxismo. Ma non è un romanzo didattico e ideologico, è un racconto polifonico, mirabilmente reso nella traduzione di Denise Silvestri, con decine di storie (i personaggi sono tutti realmente esistiti) che si diramano dalla trama principale.

L’azione è invece pressata in meno di tre giorni, con però decine di flashback che vanno indietro di decenni, e lontano migliaia di chilometri, con improvvisi cambiamenti di ritmo, voragini filosofiche che si alternano a intermezzi quasi comici, in un incastro che sa di perfezione matematica, ma anche di musica. Il fucile appeso alla parete nel primo atto spara nel terzo, come raccomandava Cechov, l’infinito puzzle di dettagli, sfumature, oggetti, suoni, odori e frasi si compone senza lasciare fessure, in uno dei panorami più ampi e realistici della Russia del Novecento.

Un giorno, forse, si leggerà «soltanto» come un grande romanzo. Ma oggi, un secolo dopo la nascita dello scrittore e cinquant’anni dopo la prima pubblicazione «spennata», è ancora impossibile distinguere questo imponente affresco dal suo soggetto: lo stalinismo. L’enigma di un Paese enorme totalmente soggiogato dal suo sovrano, dove la verità e lo sguardo disincantato sulla realtà sono punibili con la prigione, e solo nella prigione diventano possibili.
-  Tutti mentono a tutti - i mariti alle mogli, i genitori ai figli, i superiori ai sottoposti, i giornali ai lettori, i ministri a Stalin e Stalin a sé stesso, con le «fake news» di cui Solženicyn descrive il funzionamento in intuizioni che sembrano tratte da studi di comportamentismo moderno.
-  Un sistema dove tutti sono carnefici, e tutti prigionieri, a cominciare dal Capo Supremo, che vive da recluso nella sua dacia, di notte, nell’autunno di un patriarca che non ha conosciuto una primavera gloriosa, un vecchio rancoroso, paranoico, vanitoso e permaloso, l’antirivoluzionario per definizione: più che ispirato dall’utopia marxista, è il suo becchino, un Grande Inquisitore dostojevskiano che sogna una gerarchia patriarcale.

Solženicyn voleva dimostrare che Stalin non fosse una tragica «deviazione», ma il prodotto inevitabile e logico dell’ideologia comunista. Cinquant’anni dopo, oltre ai paralleli con la Russia contemporanea, il romanzo colpisce un bersaglio non circoscritto più nello spazio e nel tempo, un manuale di psicologia del dittatore, da Mao alla dinastia dei Kim, dai peronisti latinoamericani ai rais mediorientali, fino ai sovranisti e populisti europei e americani che, in quella triste farsa che, secondo Marx, è sempre la ripetizione della storia, inneggiano al popolo per trasformarlo in plebe.


Lenin volava alto come un’aquila, capiva la politica e le classi

Stalin non lo leggeva, ma capiva le persone in carne e ossa

di Aleksandr Solženicyn (La Stampa, 06.12.2018)

Incredibile, ma sembrava proprio che in un anno la rivoluzione si fosse realizzata pienamente. Aspettarselo sul serio era impossibile, eppure era accaduto! Quel pagliaccio di Trockij auspicava anche una rivoluzione mondiale, non voleva la pace di Brest-Litovsk, e pure Lenin ci credeva... oh, intellettuali sognatori! Bisognava essere degli asini per credere a una rivoluzione europea; erano vissuti tanto in Europa, eppure non avevano capito niente. Stalin c’era stato solo una volta, di passaggio, e aveva capito tutto. Bisognava farsi il segno della croce se era riuscita la nostra, di rivoluzione. E starsene buoni. A ragionare. Stalin si guardava intorno con sguardo disincantato e obiettivo. E rifletteva. Capiva chiaramente che una rivoluzione importante come quella poteva essere rovinata da simili parolai. Solo lui, Stalin, l’avrebbe indirizzata nel modo giusto. In tutta onestà, e in tutta coscienza, era lui l’unica autentica guida. Si paragonava in modo realistico a quegli smorfiosi, quei farfalloni, e vedeva chiaramente la propria superiorità nella vita, la loro fragilità, la propria stabilità. A distinguerlo da tutti loro era la capacità di capire le persone. Le capiva là dove si congiungevano alla terra, alla base, le capiva in quella parte senza la quale non potevano reggersi, non potevano stare in piedi, e quello che c’era più in alto, quello che fingevano di essere, quello che ostentavano, era una sovrastruttura, non contava nulla.

Lenin, in effetti, volava alto come un’aquila, sapeva stupire: in una notte aveva tirato fuori lo slogan «Terra ai contadini!» (poi da lì vedremo) e in un giorno aveva escogitato la pace di Brest-Litovsk (non solo per un russo, persino per un georgiano sarebbe stato un dolore cedere metà della Russia ai tedeschi, ma per lui non lo era!). Per non parlare poi della Nep, la politica più scaltra di tutte: Lenin non aveva vergogna di inventare simili manovre. La cosa più grande di tutte in Lenin, superstraordinaria, era che teneva saldo il potere reale solo nelle sue mani. Cambiavano gli slogan, cambiavano i temi di discussione, cambiavano gli alleati e gli avversari, ma il pieno potere restava esclusivamente nelle sue mani!

Era un uomo, però, sul quale non si poteva davvero contare, la sua politica economica gli avrebbe portato un sacco di guai, ci si sarebbe impantanato. Stalin sentiva perfettamente la fragilità di Lenin, la sua impazienza, cui si aggiungeva una pessima capacità di comprendere le persone, se non una totale incapacità. (Ne aveva avuto la prova personalmente: quale che fosse il lato di sé che Stalin desiderava mostrargli, Lenin solo quello vedeva.) Quell’uomo era inadatto al losco corpo a corpo della vera politica.

Stalin si sentiva più fermo e saldo di Lenin, proprio com’e vero che i 66° di latitudine di Turuchansk sono maggiori dei 54° di Šušenskoe. Che cosa aveva sperimentato quell’erudito teorico nella vita? Non aveva alle spalle un basso ceto, l’umiliazione, la miseria, la carestia: anche se non ricchissimo, restava pur sempre un possidente. Da esiliato non era tornato in patria nemmeno una volta, un esule esemplare! Una prigione vera non l’aveva mai vista, e nemmeno la vera Russia aveva visto: in quattordici anni di emigrazione si era limitato a bighellonare. Dei suoi scritti Stalin ne aveva letti non più della metà, era convinto di non poterne ricavare molto. (Be’, c’erano anche definizioni straordinarie. Per esempio: «Che cos’è una dittatura? Un governo illimitato non arginato dalle leggi». Stalin aveva scritto a margine: «Bene!»).

Se Lenin avesse potuto contare su una mente davvero razionale, fin da subito avrebbe voluto vicino Stalin più di tutti gli altri, e avrebbe detto: «Aiutami tu! Capisco la politica, le classi, ma le persone in carne e ossa non le capisco affatto!». Invece lui non aveva trovato niente di meglio che mandare Stalin a requisire il grano in un angolo sperduto della Russia. Stalin era l’uomo di cui avrebbe avuto più bisogno a Mosca, e lui lo mandava a Caricyn...


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