La tradizione monastica per rileggere Dante
A 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, una nuova prospettiva di approccio alla lettura della Divina Commedia. Ad offrirla è il libro di Giulio d’Onofrio “Per questa selva oscura”, edito da Città Nuova. Una ricerca durata circa dieci anni conduce lo studioso a dimostrare il forte influsso esercitato dalla cultura alto-medievale, patristica e monastica, nell’opera del Divino Poeta.
di Paolo Ondarza *
Città del Vaticano. Un’invocazione nascosta in un antico commento al Pentateuco redatto dal monaco alto-medievale, Bruno di Segni, che fu vescovo della città di Asti ed entrò in contatto con personaggi chiave della cultura dell’XI secolo avrebbe ispirato l’incipit della Divina Commedia. “Ma ora io rendo grazie a Dio onnipotente, che fino a qui mi ha guidato sulla via dritta, come credo, per questa selva oscura assai fitta”, scrive il religioso al termine della faticosa stesura del commento al libro dell’Esodo. Impossibile non riconoscere in queste poche righe una forte analogia con l’incipit della Divina Commedia. Un’assonanza che poche righe più giù ritorna ancora in Bruno di Segni quando definisce la selva “aspra” e “amara”.
La scoperta destinata ad accendere il dibattito culturale è il frutto del lungo ed articolato studio condotto da Giulio d’Onofrio, docente di storia della filosofia medievale all’Università di Salerno, nel libro “Per questa selva oscura”, appena pubblicato da Città Nuova.
“É la testimonianza - spiega l’autore a Vatican News - che Dante utilizza e conosce le fonti che costituivano la base della tradizione monastica”. Una simile premessa, “apre alla possibilità di leggere Dante non come classicamente si fa, ovvero come un aristotelico, dipendente per lo più da Tommaso d’Aquino e Alberto Magno. Senza negare l’influenza di questi autori del XIII secolo, si può quindi affermare che la cultura alto-medievale, patristica e monastica, abbia fortemente influenzato la concezione dantesca in relazione ad un tema molto forte nella Divina Commedia come la purificazione dell’uomo dal male e l’attuazione delle virtù, intesa come realizzazione del progetto che Dio ha pensato quando ha creato l’uomo”.
In estrema sintesi si comprende meglio la missione di Dante: “portare la verità del Vangelo agli uomini che l’hanno dimenticata e mostrare che per tutti c’è la possibilità di essere felici”. La mentalità monastica infatti era tutta “finalizzata alla realizzazione dell’uomo perfetto che attua in sé, ciò che Dio vuole per lui fin dai tempi della creazione”. Questa visione della vita ricalca quella della filosofia antica secondo cui l’uomo è felice quando realizza la propria perfezione dell’anima, entelechia, le capacità e le virtù che ha in sé”.
La conoscenza da parte di Dante di queste idee apre a nuove interpretazioni della sua opera: “É una concezione di tipo platonizzante - prosegue d’Onofrio - che implica la presenza di archetipi, di idee eterne nella mente di Dio. In questo modo possiamo leggere in modo nuovo famosi testi come il sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare: da sempre studiato come ispirato all’amore cortese e all’ideale della donna angelo, se riletto alla luce delle fonti monastiche si comprende che l’ideale di bellezza incarnato da Beatrice è quello dei filosofi greci antichi: perfezione dell’idealità dell’essere umano che realizza in modo perfetto la volontà divina. Beatrice in questo sonetto è infatti anticipazione delle virtù di Maria descritte da Dante nell’ultimo canto del Paradiso”.
“Nella terza cantica inoltre - prosegue d’Onofrio - Il luogo dove sono i santi è la mente di Dio. Dante viene accolto nella mente di Dio per poter raccontare agli uomini come purificarsi dagli errori e raggiungere la beatitudine. É nella mente di Dio che le creature diventano come Dio, perché desiderano ciò che Dio desidera.
Lo studio di D’Onofrio è una testimonianza della fecondità e della ricchezza, ancora da penetrare a fondo, dell’opera di Dante Alighieri, il cui messaggio, a quasi settecento anni dalla morte, è “immensamente attuale”. “Le prospettive aperte da questo studio - aggiunge l’autore - non sono state finora considerate abbastanza. Se ad esempio leggiamo la parola virtute la traduciamo automaticamente come “virtù, perfezionamento etico”, ma nel linguaggio alto medievale essa indica la potenzialità, l’attuarsi di ciò che è nelle capacità dell’uomo e che con una conversione al bene si può attuare”.
“Allo stesso modo va compresa la parola salute: Dante si innamora di Beatrice quando gli concede il saluto. Lei, è mediatrice tra umano e divino, venuta da cielo in terra a miracol mostrare, salutando si fa portatrice di salvezza”.
Per intendere pienamente il pensiero di Dante quindi occorre penetrare ciò che lui ha studiato e comprendere il contesto nel quale si è formato e dal quale ha preso le mosse per compiere l’alta missione, teoretica ed etica, di elevazione e rieducazione dell’umanità, dispersa in una selva oscura.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 04 gennaio 2021
NOTA:
DANTE E BEATRICE (BELLA DEGLI ABATI, LA MADRE)
Dopo i maestri del sospetto (Marx Nietzsche e Freud), come è possibile (Kant) continuare a pensare all’altezza del #Dantedi2021 che il Sommo Poeta tradisca spiritualmente la sua sposa Gemma Donati e i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor Beatrice? Sogno o son desto?