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Europa

TURCHIA. LA SVOLTA. Dopo Ataturk, primo islamico a capo dello Stato. Abdullah Gul eletto presidente. I leader europei plaudono. Giudizio di Prodi molto positivo - a cura di pfls

Le prime dichiarazioni del nuovo presidente: "Difenderò la costituzione, inclusa la laicità".
martedì 28 agosto 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, ha espresso le sue "più vive congratulazioni" a Abdullah Gul per la sua elezione alla presidenza della Repubblica turca. Secondo Barroso con la formazione a breve in Turchia anche del nuovo governo "con un chiaro mandato popolare" si apre "una opportunità per un impeto nuovo e immediato al processo di adesione all’Ue, attraverso il progresso in vari settori chiave" [...]

Primo (...)

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> TURCHIA. -- Generazione Taksim. La protesta di Istambul ha unito la società civile come l’opposizione non era mai riuscita a fare

mercoledì 5 giugno 2013

Generazione Taksim, più forti della politica

La protesta di Istambul ha unito la società civile come l’opposizione non era mai riuscita a fare

di Lorenzo Mazzoni (il Fatto, 05.06.2013)

Istanbul Anche ieri a piazza Taksim è tutto molto tranquillo, c’è un clima sereno e di festa. Si discute, si chiacchiera, vengono distribuiti volantini. A Gezi Parki, cuore pulsante della rivolta, le persone stanno sedute sul prato, c’è chi fa ginnastica, chi suona. Ci sono i venditori ambulanti di mascherine antigas e di occhialini per proteggersi da eventuali nuovi attacchi della polizia, ci sono i venditori di acqua, quelli che vendono le bandiere con l’effige nazionale, o con il volto di Atatürk, il padre della patria. Sui gradini dell’Akm, il teatro che da anni la municipalità promette di restaurare e che è ancora in disuso, è stato allestito una specie di supermarket all’aperto dove viene raccolto il cibo poi distribuito gratuitamente.

I VOLONTARI del comitato Taksim Platformu raccolgono rifiuti, con fare certosino cercano di prendere anche le centinaia di mozziconi di sigaretta incastrati fra i sampietrini della piazza. Taksim è chiusa da barricate rudimentali costruite con travi di legno e tubi di ferro presi dal cantiere abbandonato dopo l’inizio della protesta. Qualcuno raccoglie i sassi e li mette in sacchetti della spazzatura per non dare pretesto ai violenti di poter fomentare il disordine, anche se, il disordine, in questi giorni, è stata una prerogativa dei poliziotti che anche ieri sera hanno fatto il solito carosello di cariche e lacrimogeni a Gümüssuyu. La polizia ha avuto l’ordine di attaccare i manifestanti in caso di provocazione, ma dato che i ragazzi di Taksim Platformu si stanno dimostrando pacifici, sono stati infiltrati dei provocatori, presenti soprattutto a Besiktas, per fomentare la risposta poliziesca e dare addito alla violenza indiscriminata.

Ma chi sono queste migliaia di persone che continuano a occupare la piazza? Nonostante siano presenti tutte le sigle dell’opposizione, dai maoisti dell’Hkp, al Partito dei Lavoratori, ai vari partiti comunisti, socialisti, dalle associazioni degli studenti, ai sindacati, dagli islamici anticapitalisti, al Bdp, che rappresenta il Pkk curdo in Parlamento, la protesta non si può definire politicizzata, o non solo.

È una protesta trasversale, perché a Gezi Parki ci sono soprattutto i cittadini, la società civile, che è cambiata molto rapidamente. Il capo del partito kemalista, Chp, Kemal Kiliçdaroglu, ha dichiarato: “Questa è una generazione nuova ed è diversa dalla nostra. I loro metodi sono diversi e noi dobbiamo provare a capirli. Dobbiamo cambiare le nostre politiche per avvicinarci alle loro aspettative. Le autorità dichiarano che la gente in strada viene organizzata dal nostro partito. No, non è vero. Lo dicono solo perché non riescono a capire”. Eloquenti anche le parole del ministro della Pubblica Istruzione, Nabi Avci: “Abbiamo fatto qualcosa di incredibile, qualcosa che i partiti di opposizione non erano mai riusciti a fare. Li abbiamo uniti tutti”.

La gente continua a riversarsi, come ogni sera, verso Taksim. I leader del movimento hanno annunciato ufficialmente che la protesta, da ieri, è diventata una festa, e fra cori e canti i manifestanti regalano fiori ai poliziotti. Oggi una delegazione di Taksim Platformu incontrerà il vice-presidente del consiglio, Bülent Arinç. Tra le richieste, oltre a fermare i lavori di rimozione del parco, ci sono le dimissioni del prefetto, il processo ai poliziotti per le violenze e la liberazione immediata per gli arrestati.


La strategia di Erdogan per mettere fuori gioco l’esercito

Il premier ha screditato le forze armate, garanti della laicità

di Roberta Zunini (il Fatto, 05.06.2013)

Come fecero gli egiziani durante le prime fasi della rivoluzione contro Mubarak, anche i giovani turchi di “OccupyGezi park” si stanno domandando attraverso tweet incrociati e messaggi postati su Facebook perché l’esercito abbia assistito in silenzio alle brutalità dei poliziotti. E i vertici delle forze armate non abbiano emesso nemmeno un comunicato su quanto accaduto. “Dove sono i militari? ” chiede con un breve tweet Bulent. “Perchè l’esercito non interviene in difesa del suo popolo”, ritwittava ieri alle 16:26 @SimonekeNaomo. “Lasci perdere le bombe e finalmente appoggi il popolo”, aggiunge sarcastico e provocatorio @Freiravmpazer. Sì certo, le bombe. Numerosi generali, ufficiali e sottufficiali, si trovano in carcere da mesi e mesi in attesa di vedere istruiti i processi di primo grado o d’appello - il cosiddetto “affaire Ergenekon” - in cui dovranno rispondere dell’accusa di stragismo ed eversione nei confronti della Repubblica. Di cui sarebbero i garanti dalla sua fondazione quando Kemal Ataturk, il padre fondatore della Turchia moderna, diede all’esercito il compito di difendere la Repubblica e la sua laicità.

L“AFFAIRE ERGENEKON”, scoppiato durante la prima legislatura del premier Erdogan, è tuttora in corso. Nel senso che ogni settimana qualcuno finisce in carcere per avervi preso parte. Ma secondo i giornalisti indipendenti, pochi e quasi tutti in carcere con l’accusa, questa volta, di “vilipendio della Nazione” - in realtà per aver criticato Erdogan e il suo vasto entourage che influenza tutte le categorie sociali - ritengono che i militari, gli agenti dell’intelligence, gli intellettuali e imprenditori sotto accusa, sarebbero degli oppositori del premier che sta portando la Turchia nel solco delle dittature soft islamiche.

Come quello egiziano, anche se per ragioni storiche ben diverse, l’esercito della Repubblica turca avrebbe dovuto e dovrebbe inoltre garantire l’indipendenza dei poteri dello Stato. Non sempre è stato così però durante la storia della Turchia kemalista. “I militari hanno anche abusato a lungo del loro potere e molte tra le persone scese in strada in questi giorni per manifestare e che ora chiedono il loro intervento, fino a qualche settimana fa vedevano ancora di buon occhio le inchieste e le carcerazioni di alcuni di loro, anche se con accuse create ad arte dai magistrati corrotti dal premier”, dice al Fatto un giornalista che vuole rimanere anonimo. Il problema è che l’esercito è stato zittito da anni di lavorio incessante da parte del partito islamico moderato di Erdogan, che è riuscito a mettergli il collare.


Le democrazie islamiche e i ribelli di Istanbul

di Ian Buruma (la Repubblica, 05.06.2013)

Le dimostrazioni antigovernative in corso nelle città turche potrebbero essere interpretate come un’imponente protesta contro l’islam politico. Quella che era partita come una manifestazione contro la proposta, appoggiata dallo Stato, di radere al suolo un piccolo parco nel cuore di Istanbul per far posto a un centro commerciale di dubbio gusto, si è rapidamente trasformata in uno scontro di valori. La disputa sembra apparentemente riflettere due concezioni diverse e opposte della Turchia moderna: secolare e religiosa, democratica e autoritaria. Si sono fatti paragoni con “Occupy Wall Street”; si parla addirittura di una “primavera turca”. È evidente che molti turchi, soprattutto nelle grandi città, sono stanchi dello stile vieppiù autoritario del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, del pugno d’acciaio con cui controlla la stampa, delle restrizioni al consumo di alcol, del suo vezzo di erigere nuove, grandiose moschee e di arrestare i dissidenti politici.

E adesso della sua violenta risposta ai manifestanti. La gente teme che alle leggi secolari possa sostituirsi la shari’a, e che le conquiste dello Stato secolare di Kemal Atatürk vengano sacrificate all’islamismo. C’è poi la questione degli aleviti: una minoranza religiosa legata al sufismo e allo sciismo. Gli aleviti, che lo Stato secolare kemalista tutelava, nutrono una profonda diffidenza nei confronti di Erdogan il quale se li è ulteriormente inimicati decidendo di intitolare un nuovo ponte sul Bosforo a un sultano del XVI secolo che massacrò il loro popolo.

All’apparenza, al cuore della questione turca vi sarebbe la religione. L’islam politico è considerato dai suoi oppositori come intrinsecamente antidemocratico. Naturalmente, però, la faccenda non è così semplice. Lo Stato secolare kemalista non era infatti meno autoritario del regime islamista populista di Erdogan. Tutt’al più è vero il contrario. Ed è inoltre significativo il fatto che le prime proteste di piazza Taksim, a Istanbul, non siano sorte a causa di una moschea, ma di un centro commerciale. La paura della shari’a si accompagna alla rabbia suscitata dalla rapace volgarità dei costruttori e degli imprenditori sostenuti dal governo di Erdogan. La primavera turca sembra animata da sentimenti di sinistra.

Così, anziché soffermarsi sui problemi del moderno islam politico, che sono certo considerevoli, sarebbe forse più proficuo osservare i conflitti in atto in Turchia da una prospettiva diversa, e oggi decisamente fuori moda: quella legata alle classi sociali. I dimostranti, che si tratti di persone di ampie vedute o di gente di sinistra, appartengono di norma all’élite urbana, occidentalizzata, istruita e secolare. Erdogan, dal canto suo, rimane invece assai popolare nelle zone rurali e provinciali del Paese, tra i cittadini meno scolarizzati, più poveri, più conservatori e più religiosi.

A dispetto delle personali tendenze autoritarie di Erdogan, che sono certo evidenti, sarebbe fuorviante credere che le attuali proteste riflettano semplicemente il conflitto tra democrazia e autocrazia. Dopotutto, il successo di “Giustizia e Sviluppo”, il partito populista di Erdogan, così come il diffondersi sempre più capillare di consuetudini e simboli religiosi nella vita civile, non sono che il risultato della diffusione della democrazia nel Paese. Le tradizioni che lo Stato secolarista aveva abolito, come l’usanza delle donne di coprirsi il capo nei luoghi pubblici, sono riemerse perché è aumentata l’influenza esercitata dai turchi delle zone rurali. Le giovani donne religiose oggi frequentano gli atenei delle città. I voti dei turchi conservatori che vivono nelle province contano.

L’alleanza tra uomini d’affari e populisti religiosi non è certo un fenomeno esclusivamente turco. Molti dei nuovi imprenditori, così come le donne che si coprono il capo, provengono dai villaggi dell’Anatolia. Sono nuovi ricchi di provincia, e nutrono nei confronti della vecchia élite di Istanbul un risentimento paragonabile all’odio che un uomo d’affari del Texas o del Kansas prova nei confronti dell’élite liberal di New York e di Washington.

Affermare che la Turchia oggi è più democratica non equivale però a dire che è anche un Paese di più ampie vedute. Questo è uno dei paradossi evidenziati dalla primavera araba. Assicurare a tutti una voce all’interno del governo è considerato essenziale in ogni democrazia. Raramente però quelle voci sono tolleranti - soprattutto in tempi di rivoluzione.

Ciò a cui assistiamo in Paesi come l’Egitto (ma anche in Turchia, e persino in Siria), è quello che il grande filosofo britannico Isaiah Berlin definiva “l’incompatibilità tra beni equivalenti”. È un errore credere che tutte le cose buone arrivino sempre contemporaneamente. Talvolta cose altrettanto buone si scontrano le une con le altre.

Ed è questo che accade durante le dolorose transizioni politiche del Medio Oriente. La democrazia è una cosa buona, così come l’ampiezza di vedute e la tolleranza. Certo: idealmente dovrebbero coincidere. Oggi però nella maggior parte del Medio Oriente non è così. Più democrazia può significare, di fatto, minore ampiezza di vedute e minore tolleranza.

È facile, ad esempio, prendere le parti dei ribelli che in Siria si oppongono alla dittatura di Bashar al-Assad. Ma quando Bashar se ne sarà andato le classi più agiate di Damasco, gli uomini e le donne in grado di apprezzare la musica e i film occidentali, che in alcuni casi appartengono alle minoranze religiose dei cristiani e degli alawiti, faranno fatica a sopravvivere. Il baathismo era oppressivo, dittatoriale e spesso violento, ma tutelava le minoranze e le élite laiche.

È forse questo un motivo per sostenere i dittatori? Solo perché tengono a bada l’islamismo? Non proprio. Poiché la violenza dell’islam politico è in gran parte il prodotto di questi regimi oppressivi. Più rimangono al potere, più le rivolte islamiste saranno violente.

Ma non è nemmeno un motivo per sostenere Erdogan e i suoi palazzinari a scapito dei dimostranti turchi. I manifestanti fanno bene ad opporsi alla sua sprezzante noncuranza dell’opinione pubblica e alla repressione che esercita sulla stampa. Ma sarebbe altrettanto sbagliato interpretare gli scontri come una lotta virtuosa contro il manifestarsi della religione. La maggiore visibilità dell’Islam è l’inevitabile conseguenza della diffusione della democrazia. Fare in modo che questa maggiore visibilità non vada a scapito della tolleranza rappresenta il compito più importante a cui i popoli del Medio Oriente devono fare fronte. Erdogan non è certo un liberale, ma la Turchia è ancora una democrazia. C’è da augurarsi che le proteste contro di lui la rendano anche più tollerante. (Traduzione di Marzia Porta)


-  “Noi, ragazze di piazza Taksim in giacca rossa per i nostri diritti”
-  Le donne protagoniste: “Vogliamo essere libere”

-  di Marco Ansaldo (la Repubblica, 05.06.2013)

ISTANBUL - «La ragazza con la giacca rossa? Quella che resiste in piedi agli idranti della polizia turca? Tutti la cercano. Nessuno sa dov’è». A Piazza Taksim il tamtam è in atto da giorni. Non solo qui, ma sui social network, sui blog, Facebook, Twitter, tutta la galassia della comunicazione usata dai giovani che, seduti in cerchio, digitano di continuo con i polpastrelli sui loro telefonini. Ma la donna simbolo della rivolta contro il governo islamico sembra scomparsa.

Anche Sinem Babul, la fotoreporter che l’ha immortalata nell’attimo in cui la giovane si opponeva al getto d’acqua delle forze dell’ordine, la cerca. «Non credo che sia stata portata via dalla polizia - dice nella redazione di T24, il giornale online autore in questi giorni non facili di un gran lavoro di informazione sul terreno - forse è tornata a casa e non vuole farsi vedere». Eppure, a Istanbul, le sue immagini sono un po’ ovunque. La foto di lei con la sua giacca grondante d’acqua e le scarpe da tennis rosse è diventata un’icona sui manifesti, sugli sticker, pure come un fumetto. Ci sono poster, addirittura, in cui la sua figura appare ingigantita rispetto a quella degli agenti dotati di caschi e scudi. Sotto, la scritta: “Più spari, più diventa grande”.

«Questa foto incarna l’essenza della protesta - commenta Esra, che studia matematica all’università - e cioè la violenza della polizia contro manifestanti pacifici, persone che cercano di proteggere sé stesse e i valori in cui credono».

Del resto, basta guardarsi intorno, qui, e vedere quante sono le ragazze di Piazza Taksim, giovani turche belle e determinate nella difesa dei propri diritti. Indossano magliette delle marche di moda, come le loro coetanee a Parigi o Berlino. Ma dal loro colletto penzola con disinvoltura la garza con la mascherina antigas, mentre sulle spalle portano la bandiera rossa con la mezzaluna e la stella.

C’è Hasine che, come una moderna Erinni, non nega di aver lanciato, «per esasperazione» ammette, qualche pietra contro un blindato. E Secil, con una piccola fascia bianca attorno al capo, che guata con occhi feroci una foto del premier Tayyip Erdogan: «Lui dice che noi siamo dei “vandali”. Non ha proprio capito, anzi forse uscirà da questa crisi senza aver imparato nulla. Il governo non può intromettersi nella vita privata delle persone, impedendogli, come sta cercando di fare, di bere, fumare, persino di baciarsi in pubblico. Ma stiamo scherzando?».

Tutte rigorosamente non velate («ci mancherebbe pure - ironizzano, tornando subito serie - quello è un simbolo dell’Islam politico, noi siamo musulmane laiche»), ai polsi braccialetti e perline, con le loro sciarpe leggere al collo vengono da Nisantasi, Sisli, Levent, i quartieri della Istanbul bene. Lavorano come impiegate, nelle scuole, o sono iscritte all’università. Adorano i film di Nuri Bilge Ceylan, il pluripremiato regista turco, ascoltano il rock-pop dei Mor ve Otesi (i Viola e oltre), e si abbeverano ai libri di Orhan Pamuk, il premio Nobel nazionale. Rappresentano l’elite della Turchia repubblicana e moderna, come le loro colleghe scese in strada in queste giornate drammatiche a Smirne, Ankara e persino nella Cipro turca divisa a metà. Appartengono, come la ragazza con la giacca rossa, ai ranghi della borghesia più articolata, che teme di soccombere sotto l’ombra autoritaria e poco tollerante dell’invadente premier.

Erdogan è il bersaglio dei loro strali. «Ha fatto una legge per impedire l’aborto - dice Hasine, che studia chimica - Invita le famiglie a fare almeno tre figli. Si fa forte di essere stato votato dal 50 per cento degli elettori. Bene, io appartengo a quell’altro 50 per cento, la metà della popolazione per la quale lui non mostra né rispetto né considerazione, quelli che vuole stroncare. Ma io voglio avere un futuro qui, una carriera, libertà totale. Tutti concetti adesso minacciati».

Questa sera, in piazza, sotto al monumento ad Ataturk, il fondatore laico, si prepara un’altra notte di resistenza. Può fare freddo, e la polizia turca ha la mano piuttosto dura. Le ragazze si sono attrezzate. Indossano cappelli pesanti, sono vestite di nero, hanno comode scarpe da corsa. Esra torna col pensiero al poster con la ragazza che diventa un gigante. Ha un’idea: «E se domani - dice - venissimo tutte a Piazza Taksim con la giacca rossa?». E comincia subito a inviare messaggi alle amiche, ovunque, digitando con i polpastrelli sul suo cellulare.


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