Primo islamico a capo dello Stato. Decisivo il terzo scrutinio, in cui bastava la maggioranza semplice
Le prime dichiarazioni: "Difenderò la costituzione, inclusa la laicità"
Turchia, Abdullah Gul eletto presidente
L’esercito: "Difenderemo la democrazia"
Il capo di Stato maggiore: "La laicità è sotto attacco, vigileremo"
I vertici delle forze armate non presenziano al giuramento*
ANKARA - La Turchia ha un nuovo presidente. E per la prima volta si tratta di un uomo politico con un passato islamico alle spalle. Abdullah Gul, fino a oggi vice premier e ministro degli Esteri, è stato eletto dal Parlamento al terzo scrutinio, quando bastava la maggioranza semplice. Ha raccolto 339 voti su 550 deputati, in pratica solo quelli del suo partito, l’Akp di matrice islamica che è al governo dal 2002. Alle due prime votazioni in Parlamento, il 20 e il 24 agosto, Gul aveva ottenuto rispettivamente 341 e 337 voti, non sufficienti perché erano necessari i due terzi dei voti parlamentari. Gli altri due candidati, Sabahattin Cakmakoglu dei nazionalisti dell’MHP, e Huseyin Tayfun Icli, del partito di centrosinistra DSP, hanno avuto rispettivamente 70 e 13 voti.
Cinquantasei anni, ex premier, Gul è il primo islamico capo dello Stato negli 84 anni di storia della Turchia laica fondata da Kemal Ataturk sulle ceneri dell’impero ottomano. Il neopresidente varcherà in serata i cancelli di Cankaya, il Quirinale turco, accompagnato dalla moglie Hayrunissa, prima first lady velata. Ad accoglierlo troverà l’attuale presidente, il laico Ahmet Necdet Sezer, che ha tentato in tutti modi, legali, di ostacolare la sua elezione.
Un’elezione per la quale Gul deve ringraziare l’estrema destra nazionalista del Mhp di Devlet Bahceli. La formazione, considerata vicina ai Lupi Grigi, assente nella precedente legislatura, nei due primi turni ha votato un proprio candidato di bandiera, ma con la sua semplice presenza in aula ha garantito a Gul che ci fosse il numero legale. Numero legale che era mancato al candidato dell’Akp alla fine di aprile e a maggio, quando l’opposizione, allora rappresentata dai soli laici del Partito repubblicano Chp, fece una scelta aventiniana. Per superare l’impasse, il premier Recep Tayyip Erdogan aveva indetto elezioni anticipate il 22 luglio, vinte dall’Akp con poco meno del 47% dei voti.
Ieri i militari, custodi della laicità dello Stato, avevano lanciato un ultimo monito. Il capo di stato maggiore, il generale Yasar Buyukanit, ha fatto pubblicare sul sito dell’esercito una nota in difesa del secolarismo: "La laicità dello Stato è sotto l’attacco dei centri del male che cercano di erodere la natura laica della Repubblica turca. Le forze armate - ha ammonito - non rinunceranno al compito di proteggere la democrazia".
Nel pomeriggio Abdullah Gul ha pronunciato il rituale giuramento di fedeltà alla Repubblica laica e democratica di Turchia. "Difenderò - ha detto Gul - tutti i principi della costituzione, inclusa la laicità che è anche una regola necessaria per la pace sociale. Rappresenterò tutti i cittadini e sarò imparziale". Ha poi reso omaggio al "padre della patria" Kemal Ataturk e ha ribadito la necessità di proseguire il cammino sulla via dell’Unione europea aggiungendo che i turchi devono "realizzare le riforme per se stessi e non per gli altri". I capi militari turchi, come promesso, non hanno presenziato alle promesse solenni del neopresidente, nonché capo supremo delle forze armate.
* la Repubblica, 28 agosto 2007.
Il presidente della Commisione Barroso: "Opportunità per un impeto nuovo al processo di adesione all’Ue" Martens, presidente Ppe: "Si apre una nuova fase di stabilità politica in Turchia"
All’Europa piace il nuovo presidente turco
Prodi: "Gul sarà un grande presidente"*
ROMA - I leader europei plaudono all’elezione di Abdullah Gul, fino a oggi vice premier e ministro degli Esteri, alla carica di nuovo presidente della Repubblica turca. Barroso, Prodi e Martens, il presidente dei Popolari europei, sono stati i primi a pronunciare parole di apprezzamento per il nuovo presidente.
Soddisfatto Romano Prodi. Il giudizio del presidente del Consiglio italiano Romano Prodi su Gul è molto positivo. ’’E’ una persona di grande intelligenza". Il Professore si è detto ottimista su quello che Gul potrà fare per la Turchia e l’Europa: "Sara’ un grande presidente’’.
Anche Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, ha espresso le sue "più vive congratulazioni" a Abdullah Gul per la sua elezione alla presidenza della Repubblica turca. Secondo Barroso con la formazione a breve in Turchia anche del nuovo governo "con un chiaro mandato popolare" si apre "una opportunità per un impeto nuovo e immediato al processo di adesione all’Ue, attraverso il progresso in vari settori chiave".
E’ convinto che Gul farà bene anche Wilfred Martens, presidente del Partito popolare europeo (Ppe). "Il nuovo presidente turco Abdullah Gul - ha spiegato Martens - sarà una grande risorsa per la Turchia e per la prosecuzione del suo cammino europeo". Martens ha anche auspicato che la sua elezione possa aprire "una nuova fase di stabilità politica in Turchia"
* la Repubblica, 28 agosto 2007.
SCHEDA DI APPROFONDIMENTO*
Un economista fra politica e fede
ANKARA - Abdullah Gul, eletto oggi presidente della repubblica turca, è un economista di 57 anni dalla lunga esperienza politica orientata dalla sua profonda fede islamica. La sua esperienza politica è maturata in anni di impegno all’interno del movimento "Opinione nazionale" fondato dal leader storico dell’islam politico radicale turco, Necmettin Erbakan ed è stato dal 1991 ininterrottamente deputato prima per i vari partiti fondati dallo stesso Erbakan e poi per il partito ’Giustizia e sviluppo’ Akp, nato nel 2001.
Nato a Kayseri nel 1950, Gul si è laureato in economia all’ università di Istanbul e si è perfezionato a Londra, insegnando poi per qualche tempo all’Università di Sakarya. Dal 1983 al 1991 ha lavorato per la Banca islamica di sviluppo basata a Gedda in Arabia Saudita, paese col quale ha conservato secondo la stampa turca - rapporti personali e politici, favorendo negli ultimi anni un afflusso in Turchia di notevoli investimenti sauditi.
Nel corso del breve governo Erbakan-Ciller (giugno 1996-giugno 1997), Gul ha svolto le funzioni di ministro di Stato e di portavoce del governo. In quel periodo si prese sempre più le distanze dall’ala ’dura e pura’ del partito islamico in due occasioni clamorose: nel 1997 fu il leader di coloro che si opposero alla controversa visita di Erbakan in Libia, terminata in un clamoroso fiasco per Erbakan, maltrattato da Gheddafi; nel 1999 fu il primo a protestare quando la deputata del suo stesso partito islamico Merve Kavakci volle entrare in parlamento con il fazzoletto islamico sul capo.
Gul è ritenuto seguace di una interpretazione "storicizzata e privatistica" dell’Islam, che egli fa risalire al poeta filosofo Necip Fazil Kisakurek. Quando a sua moglie Hayrunnisa fu impedito (secondo le leggi turche) di iscriversi all’università per la sua abitudine di portare il fazzoletto islamico sul capo, Gul protestò, ma non adducendo motivazioni religiose, ma motivazioni basate sul rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali come il diritto di espressione e la libertà di culto. Come oggi fa tutto il suo partito.
Rieletto nuovamente rappresentante in parlamento del collegio elettorale di Kayseri nelle elezioni legislative del 3 novembre 2002, fu chiamato alla guida del governo per via dell’ ineleggibilità del vero leader dell’AKP, Erdogan, che poi lo sostituì alla testa del governo nel marzo 2003, quando gli furono restituiti, grazie ad un apposito emendamento costituzionale i diritti politici e fu eletto deputato in un’elezione suppletiva. Gul allora disciplinatamente si dimise dal governo e assunse nel governo Erdogan la doppia carica di primo vicepremier e di ministro degli esteri.
* ANSA» 2007-08-28 15:48
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Uno scintillio di mille colori ...
Allo scrittore turco, Orhan PAMUK, il premio Nobel per la Letteratura. Una "analisi" di Barbara Spinelli, e una recensione di Pietro Citati
«È perché le nostre menti moderne sono così precarie, scivolose, che la libertà d’espressione diventa così importante: ne abbiamo bisogno per capire noi stessi, i nostri umbratili, contraddittori, più intimi pensieri; la fierezza e la vergogna che ci abitano»
Turchia
Il golpe ha distrutto l’opposizione laica e repubblicana
Turchia post-golpe. L’ultimo dei perdenti in questo caos è l’Hdp come fautore di pace, completamente escluso dall’arena politica e costretto a sopravvivere in purgatorio, tra un riconsolidato regime militarista e le forze armate kurde, su entrambi i lati del confine turco-siriano
di Murad Akincilar (il manifesto, 08.09.2016)
L’autore è il direttore del Diyarbakir Institute for Political and Social Research
Il 28 febbraio 1997 il cosiddetto governo islamista-liberale venne rovesciato a seguito di una campagna di minaccia militare che bloccò l’attività parlamentare e mobilitò l’opposizione laica e nazionalista, compresi sindacati e gruppi di sinistra. Si trattò di un collasso non-elettorale di una coalizione tradizionalista-liberale che aprì la strada ad un potere «musulmano moderato» a favore della globalizzazione economica. «Colpo di Stato post-moderno»: questa fu la diagnosi dell’intelligentia turca.
Il 15 luglio 2016 uno dei ponti più frequentati al mondo in una delle città più popolate al mondo viene chiuso da un piccolo gruppo di soldati a piedi; seguono ore di trambusto al tramonto, concluse dal linciaggio di una folla contraria. Un aereo da guerra vola a bassa quota, facendo acrobazie nel cielo della capitale culturale turca. I soldati provano a prendere il controllo delle sedi della tv e della radio di stato, mentre la Cnn turca manda in onda l’appello del presidente della repubblica ai cittadini perché resistano.
L’intelligentia turca sta ancora dibattendo: si è trattato di un golpe pre-moderno o post-moderno? La tragedia è che entrambi sono stati veri colpi di stato. Entrambi sono stati accolti dall’amministrazione statunitense ed entrambi si sono conclusi con un nuovo equilibrio diplomatico e strategico con le forze globali.
I kurdi in Turchia hanno saputo in seguito che il comandante in capo della «seconda armata», il generale Adem Huduti, quello che ha ordinato il bombardamento della città vecchia di Sur a Diyarbakir, di Yüksekova e di Cizre, era parte del golpe ed è stato per questo arrestato. Così, qui a Diyarbakir, ci chiediamo ancora chi sia il responsabile dell’incommensurabile distruzione delle nostre città. Per questo i kurdi hanno esitato, non sapendo che approccio avere nei confronti delle conseguenze del fallito golpe.
Dovrebbe questa diabolica esperienza costringere l’élite politica a riconsiderare il conflitto? Possiamo aspettarci che questo golpe - contro tutti i partiti presenti in parlamento, compreso l’Hdp - sia una lezione di saggezza? Sfortunatamente no.
Due dati in particolare possono aiutarci a capire perché non abbiamo diritto ad esprimere un limitato ottimismo. Quarantuno accademici progressisti, tra coloro che firmarono una dichiarazione in favore di una soluzione pacifica della questione kurda, sono stati cacciati pochi giorni fa con l’accusa di essere gulenisti. Un numero che supera di gran lunga il numero di miliziani dell’Isis arrestati in Turchia. E come non mettere a confronto un membro dell’Isis ferito durante l’operazione militare dell’esercito turco nel nord della Siria con le centinaia di combattenti delle Ypg e Ypj uccisi e torturati?
Ventiquattro soldati sono stati uccisi in scontri con il Pkk in 48 ore, lo scorso fine settimana, ma nessuno dei cinque quotidiani turchi più diffusi ha riportato la notizia in prima pagina. Negli ultimi 30 giorni 37 bambini sono stati uccisi in scontri e raid aerei nelle città kurde e nessun commentatore politico ne ha parlato.
Nemmeno come «effetto collaterale». La pulizia dei sostenitori di Gulen nell’esercito e nelle forze di polizia avrebbe potuto creare il terreno fertile per una nuova soluzione politica della causa kurda visto che le forze armate hanno rappresentato il vero nemico dei politici kurdi, dei sindaci eletti e della popolazione civile. Ma ancora una volta l’occasione è stata persa. Dopotutto sono gli stessi che avrebbero dovuto giudicare i golpisti nazionalisti di Ergenekon tra il 2009 e il 2015: oggi sono tutti liberi e legittimati.
La ragione sta nella divisione in due gruppi delle forze militariste anti-kurde: la maggioranza collabora apertamente con l’Akp, una minoranza perdente collaborava con i gulenisti. Entrambi i gruppi operano, secondo la loro logica, per la sopravvivenza dello stato.
Personalmente ritengo che la capacità della leadership dell’Akp di riorientare il corso degli eventi nei giorni successivi al golpe ha portato ad un indebolimento del mito dell’«Islam moderato alla Erdogan» come presunto ponte culturale tra la tradizione conservatrice e nazionalista e i valori universali democratici. Ha anche distrutto per sempre la potenziale opposizione di tradizione repubblicana e laica alla sovranità dell’Akp perché quell’opposizione non ha mostrato alcun segno di resistenza né al golpe né alla guerra lampo anti-kurda.
E infine l’ultimo dei perdenti in questo caos è l’Hdp come fautore di pace, completamente escluso dall’arena politica e costretto a sopravvivere in purgatorio, tra un riconsolidato regime militarista e le forze armate kurde, su entrambi i lati del confine turco-siriano.
Turchia: fuori 38mila detenuti, spazio ai golpisti
Governo vara decreto per rilascio delinquenti comuni
di Redazione ANSA *
Il governo Turco ha varato un decreto per rilasciare circa 38.000 detenuti, presumibilmente - secondo i media - per far spazio nelle carceri del Paese alle circa 35.000 persone arrestate nell’ambito delle indagini sul tentato colpo di Stato dello scorso 15 luglio. Il ministro della Giustizia, Bekir Bozdag, ha spiegato in un tweet che non si tratta di un’amnistia ma di un rilascio condizionato. La misura esclude i detenuti colpevoli di omicidio, violenza domestica, abusi sessuali o reati contro lo Stato.
Due ergastoli e 1.900 anni di carcere. Questa la condanna chiesta dalla procura turca per Fethullah Gulen, l’ex imam dal 1999 in esilio volontario negli Stati Uniti considerato l’ispiratore del fallito golpe dello scorso 15 luglio. In contemporanea, continua la purga di massa ordinata dal presidente Tayyip Erdogan contro i presunti simpatizzanti del suo ex alleato: oggi sono stati perquisiti gli uffici di 44 società e aziende a Istanbul, il cuore economico della Turchia, e sono stati spiccati ordini d’arresto contro 120 manager.
Secondo le accuse della procura di Usak, Gulen deve essere condannato a due ergastoli "per aver cercato di distruggere l’ordine costituzionale con la forza" e per aver "formato e guidato un gruppo terrorista armato". In 2.500 pagine messe agli atti dal tribunale gli si addebita anche il trasferimento negli Usa, attraverso società di comodo, di denaro ricavato da donazioni e da raccolte di beneficenza ’pilotate’.
L’ex imam, 75 anni, bestia nera di Erdogan, ha sempre negato qualunque coinvolgimento nel fallito golpe ma - appoggiandosi anche su precedenti ripetute accuse secondo le quali avrebbe messo in piedi "uno Stato parallelo" soprattutto dopo lo scandalo per corruzione che nel 2013 ha coinvolto il presidente - la procura gli ha contestato anche di aver "infiltrato" le istituzioni e i servizi di informazione della Turchia. Il tutto attraverso una rete capillare di scuole private, fondazioni, società assicurative, aziende, giornali e televisioni organizzata proprio per prendere il controllo del Paese. Banche compiacenti, Gulen le avrebbe trovate in Sudafrica, Emirati Arabi Uniti, Tunisia, Marocco, Giordania e Germania. "Un virus", secondo Erdogan, che avrebbe potuto intaccare l’integrità dello Stato. Da ciò la mannaia che si sta abbattendo su tutte le voci dissidenti in Turchia, una mannaia che, nelle intenzioni del presidente, presto potrebbe assumere effettiva concretezza se "il popolo e il Parlamento" decideranno di introdurre la pena di morte.
Un’altra vittima delle purghe, sempre oggi, è stato il giornale filo-curdo ’Ozgur Gundem’ accusato di "propaganda terroristica" in quanto "organo mediatico" del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan, fuorilegge). In un mese sono stati messi i sigilli già a 130 tra giornali, televisioni e radio. ’Ozgur Gundum’ è un’altra tappa dell’imbavagliamento di qualsiasi dissidenza e critica. Tanto più pesante visto che i curdi sono l’altra bestia nera di Erdogan: stanno sconfiggendo l’Isis in Iraq e in Siria e pochi giorni fa qui hanno liberato la città di Manbij.
Stamane la preoccupazione del ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu era quella di ricordare alla comunità internazionale, e agli Usa in particolare, che ora i curdi da quella città devono andare via. Lo stesso Cavusoglu della questione ha probabilmente parlato al telefono nel pomeriggio con il segretario di stato americano John Kerry. Andava riproposta la richiesta di estradizione di Gulem - hanno spiegato il media legati al palazzo - e andava preparato il terreno alla visita del 25 luglio del vicepresidente Joe Biden. Visita che già di per sé, secondo Ankara, costituisce un segnale positivo in relazione alla richiesta di estradizione dell’ex imam.
lettere internazionali
Istanbul, 19/7/2016
di Dimitri Bettoni (La rivista "Il Mulino", 19 luglio 2016)
Dopo il tentato Golpe. La Turchia non è nuova a golpe militari, la sua storia repubblicana è costellata di interventi delle forze armate nella vita pubblica del Paese, forti di un ruolo di garanti della Repubblica in parte legato all’eredità kemalista, in parte auto-attribuitosi nel corso degli anni.
Tuttavia, il rovesciamento del governo tentato nella notte del 15 luglio avviene in un contesto molto diverso rispetto a quello del secolo scorso. La società turca ha vissuto sulla propria pelle diversi golpe, ne ha sperimentato l’assoluta inutilità nel creare una società libera e ha quindi maturato un’avversione per l’intervento militare che supera la tradizionale affezione per la figura del soldato. Questa inversione nella gerarchia dei valori è probabilmente il più significativo cambiamento che possiamo cogliere: l’esercito turco non godrà più del ruolo, del prestigio e, tanto meno, del timore reverenziale di un tempo.
Scene a cui si è assistito in questi giorni, con i civili che si oppongono ai carri armati e addirittura aggrediscono i soldati, sarebbero state impensabili fino a 15 anni fa. Non sarebbe mai stata possibile una chiamata alla mobilitazione come quella avvenuta dai minareti delle moschee, un elemento di assoluta novità, indice della forza che l’istituzione religiosa ha ormai raggiunto nel Paese.
Non sarebbe stato possibile un appello al popolo a scendere in strada come quello di Erdoğan e della polizia stessa, per di più sui social media tanto odiati. Il presidente ha scommesso tutto sul sostegno del suo popolo, rischiando un bagno di sangue qualora l’esercito avesse avuto più mezzi e più determinazione per reagire con le armi. Se quasi trecento morti sono un bilancio tragico, se pure abbiamo assistito a spari sulla folla, la verità è che si è andati vicini ad una vera e propria carneficina, evitata anche dalla reticenza di una parte delle truppe ad aprire il fuoco sui civili.
La nuova classe media, anatolica e conservatrice emersa negli ultimi vent’anni, e che costituisce lo zoccolo duro dell’elettorato Akp, non accetta più il ruolo subalterno a cui il kemalismo l’aveva relegata. Oggi è protagonista indiscussa della scena politica turca e non intende abbandonare il palcoscenico politico. È indispensabile quindi trovare nuove forme di convivenza tra le diverse anime del Paese.
Il nuovo contesto della società turca spiega però solo in parte le anomalie di questo tentato golpe, a cominciare dall’esiguo numero di truppe e mezzi che sono stati schierati, con i quali appare difficile sperare di controllare con efficacia il Paese. Perché generali di lunga carriera abbiano azzardato una mossa così disperata è una delle domande più importanti e, al tempo stesso, di più difficile risposta.
Secondo quanto è possibile ricostruire finora, la mano dei militari sarebbe stata forzata ad agire, e per ben due volte. Per agosto si prevedeva una stretta del governo per epurare l’esercito dalle ultime presenze guleniste ostili ad Erdoğan; questo avrebbe spinto le gerarchie militari a organizzare il golpe, una sorta di estrema risorsa prima della definitiva capitolazione.
Inoltre, il golpe non era previsto per venerdì sera, orario insolito, ma per l’alba di sabato. A sostenerlo è tra gli altri il giornalista Ahmet Şık, che vede in un imminente intervento della polizia il fattore che avrebbe spinto i militari a un’azione affrettata.
Appare quindi probabile che il governo avesse quantomeno sentore di ciò che stava per accadere. D’altra parte, Erdoğan si era preparato da 15 anni a questa eventualità, conscio della storia del Paese e delle reazioni che un governo di stampo religioso e conservatore poteva suscitare nella nomenclatura militare.
A questo si aggiungono le modalità “novecentesche” di un golpe che è parso arretrato nei mezzi, scoordinato nelle modalità di esecuzione, insicuro sugli obiettivi da perseguire. I golpisti hanno pressoché ignorato le principali cariche istituzionali, concentrandosi su obiettivi simbolici ma di scarso valore strategico; ad esempio occupare la televisione di Stato, da cui diramare il comunicato che annuncia il golpe, senza avere sotto controllo né le reti private, né internet. Un fatto curioso, in un Paese che ci ha abituati che il blocco della rete è il primo segnale di qualcosa che sta accadendo.
Sono questi elementi ad aver generato, in una parte dell’opinione pubblica turca e di quella internazionale, diffidenza sulla veridicità del colpo di Stato e l’idea che tutto possa essere stato un “teatro”, come recita uno degli hashtag più popolari su Twitter, organizzato dal governo per giustificare le operazioni di polizia a cui assistiamo in queste ore.
Se tutti i partiti politici sono riusciti a produrre una storica dichiarazione comune in sostegno alle istituzioni democratiche turche, la società civile appare invece spaccata tra chi celebra il popolo sceso in strada per la difesa della democrazia e chi scuote il capo rassegnato, perché convinto si sia trattato di una messinscena del governo.
Erdoğan nel frattempo ha, fin dal principio, accusato il movimento gulenista della responsabilità del golpe, rinnovando agli Stati Uniti, dove Fethullah Gülen risiede, la richiesta di estradizione del predicatore ex grande amico ed oggi nemico numero uno del presidente. Gülen ha invece negato ogni responsabilità nel golpe, seppur soltanto quando questo era ormai platealmente fallito.
Al di là dell’esito e della vera natura di questo fallito golpe, oggi Erdoğan si trova davanti a un bivio: rafforzare le istituzioni democratiche e la dialettica interna, unico vero antidoto ad ogni deriva autoritaria o golpista, oppure approfittare del favorevole clima post-golpe per stringere definitivamente la sua presa sul potere. La cronaca di queste ore non fa purtroppo ben sperare. Il governo turco pare intenzionato ad approfittare del momento favorevole per un’operazione di pulizia dell’apparato statale che, fino a prima del golpe, avrebbe creato grande scalpore e barricate da parte di tutte le opposizioni, oggi assolutamente impossibilitate ad agire perché verrebbero immediatamente associate ai golpisti.
Un governo che reagisce con durezza dopo essere sopravvissuto ad una simile prova è assolutamente normale. Ma il timore, che con il passare del tempo diventa certezza, è che la Turchia uscirà da questo episodio irrimediabilmente indebolita, le sue istituzioni incapaci di resistere alle tentazioni dispotiche di Erdoğan.
Le migliaia di arresti in corso nelle file dell’esercito sono un’ovvia conseguenza del golpe, ma il numero di tali arresti supera quello dei militari scesi in strada per il colpo di stato. Desta invece più allarme l’operazione di polizia in corso contro le istituzioni giudiziarie: l’arresto di 2.754 giudici, di 140 membri della Corte Suprema e di 48 del Consiglio di Stato è uno sconvolgimento che incrina direttamente il già precario equilibrio tra i poteri della Repubblica turca.
Ancor meno comprensibile la stretta che si è concretizzata nelle ultime ore sui media, con il governo che ha bloccato l’accesso a numerosi siti di informazione, nonostante i media si siano unanimemente e fin dal principio schierati contro il golpe.
Poi c’è quanto sta accadendo nelle strade, dove gli strascichi del tentato golpe si traducono in episodi di violenza da parte di gruppi militanti della destra religiosa e nazionalista.
L’appello rivolto dal governo al popolo ad occupare le strade, anche ammettendone la legittimità nelle ore del golpe, è continuamente rinnovato anche ora che la situazione è, a detta delle stesse autorità, tornata sotto controllo. La difesa della democrazia si è trasformata in un inaccettabile mandato ad amministrare giustizia sommaria in strada.
Nelle ore del golpe la folla non si è limitata ad opporsi ai carri armati, ma si è lasciata andare al linciaggio di militari che pure si erano già arresi e consegnati alla polizia. Ancor più ora si segnalano aggressioni ai danni delle minoranze curde e alevite, di rifugiati siriani, delle sedi dei partiti d’opposizione, e di ragazzi colpevoli di bere alcolici sul lungomare di Istanbul.
La folla anti-golpe ha poi chiesto a gran voce il ritorno alla pena capitale, richiesta che, almeno nella comunicazione mediatica, sta trovando sponda all’interno del governo. Una deriva da scongiurare e che significherebbe non solo un grave passo indietro per la società turca, ma anche un ulteriore isolamento della Turchia sulla scena internazionale. Come minimo, vorrebbe dire tagliare del tutto i legami con l’Europa, compreso l’addio alla Corte europea dei diritti umani, e abbandonare il percorso di adesione all’Unione.
Aizzare in questo modo la massa del popolo è un gioco pericoloso per questo Paese, così spaccato e bisognoso d’unità d’intenti, un gioco che sta rivelando il peggior lato populista del governo Akp.
* Questo articolo è frutto del lavoro di Osservatorio Balcani e Caucaso
Erdogan più forte, la Turchia più debole
di Alberto Negri (Il Sole-24 Ore, 17 luglio 2016)
Dove va la Turchia? Guerra dentro e guerra fuori, tutto il contrario dello slogan ereditato da Ataturk, il fondatore della Turchia moderna: questa è in sintesi la situazione che sta vivendo un Paese chiave per la stabilità internazionale. Dalla drammatica prova del golpe fallito emerge un Erdogan più forte all’interno, ma forse una Turchia più vulnerabile e paradossalmente più isolata sul piano internazionale, soprattutto se non si chiariranno i rapporti ambigui con gli Stati Uniti, la Nato e la stessa Unione europea.
Non basta la ripresa delle relazioni con Israele e Putin: la Russia non è più come prima soltanto un partner economico e del gas ma una superpotenza con cui la Turchia confina nella Siria di Assad, alle porte di casa, in un’area come quella curda ultrasensibile per la sua stessa definizione di stato unitario.
Quella che si gioca sulla frontiera siriana per la Turchia ma anche per l’Occidente è un partita vitale e assai pericolosa: i turchi non hanno avuto nessuna garanzia, né dagli Usa né dalla Russia, che non si formi uno stato curdo, possibile magnete dell’irredentismo dei “suoi” curdi dell’Anatolia del Sud Est, teatro della guerriglia del Pkk.
Questo è il vero incubo strategico della Turchia: è possibile che il fallito golpe sia stato animato da un’ala delle forze armate - coinvolte quotidianamente fino all’eccesso contro la guerriglia e il terrorismo del Pkk - che non vedeva più in Erdogan il garante dell’integrità delle nazione ma un giocatore d’azzardo che nel conflitto siriano, dove ha sostenuto i jihadisti, rischiava di perdere più di tutti.
Le responsabilità non sono solo di Erdogan, e da qui provengono le ambiguità nei rapporti con il leader turco. L’errore di calcolo che Assad potesse essere abbattuto in pochi mesi nel 2011 è stato condiviso dall’Occidente, dagli Stati Uniti e dai loro alleati arabi del Golfo che hanno incoraggiato Ankara ad aprire la famigerata “autostrada della Jihad”. È così, dopo la fine dell’Iraq di Saddam nel 2003, si è scoperchiato un altro vaso di Pandora che con l’Isis sta propagando il terrorismo in tutto il Medio Oriente, in Turchia e in Europa. Fare la guerra al Califfato significa per Erdogan, gli Usa e l’Europa prendere atto di un errore micidiale. Non solo: come dimostra il viaggio del segretario di stato John Kerry a Mosca, la Russia si è accaparrata un ruolo fondamentale nel cuore del Medio Oriente. Come avamposto storico della Nato la Turchia si sente a disagio, non compresa dai suoi partner tradizionali e costretta a venire a patti con un avversario come la Russia.
La collocazione della Turchia come “ponte” tra Est e Ovest è ancora valida ma forse appartiene anche al passato. La Turchia di Erdogan ha voluto rivestire un ruolo non di sponda dell’Occidente ma da protagonista nelle primavere arabe e nella disgregazione mediorientale, una partita complicata ma probabilmente ineludibile quando si pongono obiettivi ambiziosi come diventare un Paese guida del mondo musulmano. Era questo il traguardo che si proponeva Erdogan alleandosi con i Fratelli Musulmani in Egitto, fatti fuori nel 2013 dal colpo di stato del generale Al Sisi.
E anche qui l’Occidente ha incoraggiato Erdogan: non era forse diventata la Turchia, nella retorica della politica internazionale, il modello di democrazia all’islamica da esportare? Non è sfuggito al leader turco ma anche ai molti protagonisti della regione che quando è venuto il momento di decidere al Cairo si è preferito scegliere la draconiana stabilità offerta dai generali piuttosto che i movimenti islamici.
Ecco come nasce un golpe. Questo tentativo di colpo di Stato viene dalle considerazione fatte nelle alte sfere delle Forze armate che hanno a loro volta incoraggiato i giovani militari a prendere le armi contro il governo dell’Akp e il presidente Erdogan che sono al potere dal 2012. Erdogan, ovviamente, ci ha messo del suo. Ha accentuato le sue tendenze autoritarie soffocando la stampa e il dissenso, punta a instaurare una repubblica presidenziale e questa volta potrebbe farcela: la strada l’hanno spianata gli stessi golpisti. Ma è una buona cosa che un Paese così importante affronti un cambiamento costituzionale decisivo con il peso di un golpe e di centinaia di morti? Evidentemente no.
La Turchia è un Paese con un apparato industriale sofisticato, nel gruppo delle prime venti economie mondiali, intrattiene con l’Unione il 50% del suo interscambio commerciale. Ed è diventata una sorta di hub internazionale per le vie del petrolio e del gas che ne fanno una pedina importante per diversificare le forniture energetiche europee. Senza una collaborazione stretta con la Turchia non ci sono prospettive di sviluppo per il Medio Oriente e una parte del Mediterraneo, ma non ci sono neppure i presupposti per un dare sicurezza e stabilità: ma l’Europa ha chiesto alla Turchia di fare una politica di pura convenienza, come dimostra l’accordo sui migranti.
Ci si può lamentare di un golpe in un Paese che l’Unione, quella della Germania e della Francia, ha sistematicamente tenuto in sala d’aspetto per poi richiamarla al suo dovere di Paese ponte tra Est e Ovest soltanto quando faceva comodo? Le risposte già le conosciamo. Archiviato il filo-atlantismo ereditato dalla guerra fredda, oggi Erdogan non dà niente per niente, neppure agli americani che per questo sono assai nervosi.
Erdogan in questo momento ha in mano la situazione. Trascina i supporter ad acclamarlo in piazza e passa con la falce per tagliare le gambe non solo ai golpisti, ai gulenisti, ai giudici, agli oppositori. È l’ora delle purghe, delle vendette: prima finisce e meglio è per la Turchia ma anche per noi. Come hanno dimostrato tragici esempi nel mondo arabo e nei Balcani sui regolamenti dei conti le nazioni non si costruiscono ma si distruggono: è solo questione di tempo.
Turchia, il golpe è fallito. Erdogan tornato a Istanbul: ’La pagheranno ’
Nella capitale ci sono stati scontri tra i militari lealisti e soldati contro
di Cristoforo Spinella - Ansa *
La notte piu’ lunga della Turchia si conclude con il fallimento del colpo di stato tentato da una fazione dell’esercito contro il presidente Tayyip Erdogan. Dopo ore di bombardamenti e combattimenti a Istanbul e nella capitale Ankara, i militari golpisti si sono arresi. Ma la loro sconfitta appariva gia’ chiara durante la notte, quando l’aereo di Erdogan è atterrato all’aeroporto Ataturk di Istanbul, solo poche ore prima nelle mani dei putschisti. Il bilancio finale è di almeno 60 morti negli scontri ad Ankara e altri 6 accertati a Istanbul, con oltre 130 feriti.
Ma sono numeri destinati a crescere nelle prossime ore. Come probabilmente anche quelli dei militari arrestati: 754, secondo le ultime cifre fornite dal ministro della Giustizia, Bekir Bozdag. Ed è appena all’inizio anche la purga nell’esercito, con 5 generali e 29 colonnelli già sollevati dai loro incarichi e la nomina-lampo del nuovo capo di Stato maggiore, Umit Dundar, a sostituire - almeno temporaneamente - Hulusi Akar. Di lui, che sarebbe stato preso in ostaggio durante il golpe, persino Erdogan aveva detto di non avere notizie certe. Poi, l’agenzia ufficiale Anadolu ha fatto sapere poco fa che è stato liberato dal luogo dove veniva detenuto, una base aerea alle porte di Ankara. Tornato a Istanbul, il presidente si è concesso piu di un bagno di folla nella zona dell’aeroporto. Acclamato da migliaia di sostenitori, che ha salutato con il gesto della rabbia, mutuato dai Fratelli musulmani, il ’sultano’ ha ringraziato il suo popolo per averlo sostenuto scendendo in piazza, mentre una folla festante sventolava bandiere turche e inneggiava ad Allah. A loro, ha promesso che "i traditori" che hanno tentato di rovesciarlo "pagheranno un caro prezzo".
La mente dietro il golpe, ha accusato direttamente Erdogan, è il suo ex alleato diventato nemico numero uno, l’imam e magnate auto-esiliatosi in Usa, Fethullah Gulen. Che pero’, in un comunicato, ha condannato il tentativo di golpe, giurando di esserne estraneo: "Per qualcuno come me che ha sofferto sotto diversi colpi di stato militari nelle ultime cinque decadi, è particolarmente offensivo essere accusato di avere legami con un tentativo del genere". Alle prime luci dell’alba, la Turchia si è svegliata ancora in stato d’assedio. L’emittente statale Trt e la tv privata Cnn Turk, entrambe occupate e poi abbandonate nella notte dai putchisti, mostravano le immagini dei soldati che si arrendevano sul ponte del Bosforo, chiuso al traffico dalla scorsa notte. Vicino a loro, i sostenitori di Erdogan festeggiavano sopra i tank. In mattinata, ancora scontri armati venivano segnalati in diverse zone della citta’.
In queste ore, assicura la compagnia di bandiera Turkish Airlines, l’aeroporto Ataturk sta comunque riprendendo a funzionare regolarmente. Situazione critica anche ad Ankara, dove è stato bombardato il Parlamento ma nessun deputato risulta ferito. Quando era gia’ giorno, sotto attacco è finita anche l’area della faraonica residenza presidenziale, il simbolo del potere di Erdogan. Li’ si contano almeno 5 vittime. Ma la Turchia ha fretta di chiudere i conti con la sua lunga notte d’inferno. Il premier Binali Yildirim ha lanciato un appello a tutti i deputati, chiedendo di presentarsi oggi pomeriggio ad Ankara per una seduta straordinaria del Parlamento.
Trentasei anni dopo l’ultimo putsch, la clamorosa azione di una parte dell’esercito turco ha spiazzato il mondo. Dopo qualche ora di silenzio, Erdogan ha lanciato un appello ai turchi attraverso via Facetime attraverso uno smartphone sulla Cnn Turk affinché scendessero in strada per opporsi al golpe: "Sono ancora io il presidente, resistete". Ma non si sa dove si trovi. Una fonte militare americana lo dava in volo verso la Germania ma i tedeschi avrebbero rifiutato all’aereo l’autorizzazione ad atterrare: una vicenda su cui però non c’è nessuna conferma. Gli Stati Uniti sono con il governo democraticamente eletto in Turchia. Lo afferma la Casa Bianca, sottolineando che il presidente americano, Barack Obama, ha parlato del colpo di stato in Turchia con John Kerry.
Da Obama a Renzi, capitali con il fiato sospeso [...]
* ANSA, 16.07.2016, 08.38 (RIPRESA PARZIALE).
Colpo di Stato in Turchia, carri armati ed F16 su Ankara
I militari hanno fatto irruzione nella sede della tv statale turca. Le trasmissioni sono state interrotte ed è stato bloccato l’accesso ai social network. Bloccato l’aeroporto di Istanbul
di Redazione ANSA 15 luglio 2016 23:05
Colpo di Stato in Turchia: è il quinto nella storia del Paese. I militari hanno preso il potere. Ad annunciarlo è lo Stato maggiore dell’esercito turco che dice di puntare a "ristabilire l’ordine democratico e la libertà". Lo stesso esercito turco ha chiuso l’accesso a due ponti sul Bosforo a Istanbul. Colpi di arma da fuoco sono stati sentiti ad Ankara, mentre elicotteri militari stanno sorvolando la capitale turca. I militari hanno fatto irruzione nella sede della tv statale turca. Le trasmissioni sono state interrotte ed è stato bloccato l’accesso ai social network. Bloccato l’aeroporto di Istanbul. L’esercito turco ha chiesto alla popolazione di tornare nelle proprio case.
Nel quartier generale dell’esercito turco ad Ankara sarebbe stato preso in ostaggio il capo di Stato maggiore dai militari golpisti.
I militari autori del colpo di Stato in Turchia hanno dichiarato che tutte le relazioni estere turche esistenti saranno mantenute e che lo stato di diritto rimarrà una priorità. Lo si legge su vari media, fra cui il Guardian, che aggiungono che i militari avrebbero inviato le dichiarazioni ai media turchi via email, la cui veridicità non può essere verificata per ora.
Alcuni minuti prima proprio il premier turco Binali Yildirim aveva denunciato: "Faremo tutto il possibile perche’ prevalga la democrazia. Il colpo di stato non riuscirà e i responsabili saranno puniti. I responsabili del colpo di Stato "pagheranno il prezzo più alto". "Le nostre forze useranno la forza contro la forza".
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan "è al sicuro". Lo riferisce la Cnn turca.
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, sta seguendo gli sviluppi della situazione in Turchia. Lo si apprende da fonti di Palazzo Chigi. Il premier, affermano, è in contatto con la Farnesina e con le capitali europee.
Armenia, Turchia contro il Papa: ’Ha la mentalità delle crociate’
Francesco ha definito come un "genocidio" il massacro del 1915
di Redazione Ansa *
Le dichiarazioni di papa Francesco, che ha di nuovo definito come un "genocidio" il massacro degli armeni nel 1915, sono state "molto spiacevoli" e indicano la persistenza della "mentalità delle Crociate". Lo ha detto il vicepremier turco, Nurettin Canikli. È la prima reazione di Ankara alle parole del Papa durante la sua visita in Armenia.
"Le attività del Papa e del papato portano le tracce e i riflessi della mentalità delle Crociate", ha detto Canikli ad alcuni giornalisti, aggiungendo che quella del pontefice "non è una dichiarazione imparziale né conforme alla realtà". La Turchia nega che il massacro degli armeni durante la Prima guerra mondiale sia stato un genocidio pianificato e calcola il numero di vittime tra 250 e 500 mila, mentre per gli armeni e la generalità degli storici internazionali i morti sono stati circa 1,5 milioni.
Intanto nel Palazzo apostolico di Etchmiadzin, dove ha alloggiato in questi tre giorni di visita in Armenia, papa Francesco partecipa al pranzo ecumenico offerto dal capo della Chiesa apostolica armena, il supremo patriarca e catholicos Karekin II, con gli arcivescovi e vescovi armeni apostolici, gli arcivescovi e vescovi armeni cattolici e il seguito papale. Prima di trasferirsi al monastero di Khor Virap, ultima tappa del viaggio, il Papa si congederà dal personale che lo ha accolto durante la sua permanenza a Etchmiadzin, incontrando anche delegati e benefattori della Chiesa armena apostolica, quindi firmerà con Karekin II una dichiarazione congiunta.
L’appello di Papa Francesco a turchi e armeni, ’riconciliatevi’
Pontefice al memoriale rende omaggio alle vittime del genocidio
di Redazione Ansa *
Rivolgendosi ai giovani, durante l’incontro ecumenico e la preghiera per la pace a Erevan, papa Francesco ha detto che "questo futuro vi appartiene: facendo tesoro della grande saggezza dei vostri anziani, ambite a diventare costruttori di pace: non notai dello status quo, ma promotori attivi di una cultura dell’incontro e della riconciliazione". "Dio benedica il vostro avvenire - ha aggiunto - e ’conceda che si riprenda il cammino di riconciliazione tra il popolo armeno e quello turco, e la pace sorga anche nel Nagorno Karabakh’".
Il Papa è stato al Memoriale di Tzitzernakaberd, la "fortezza delle rondini" per rendere omaggio alle vittime del genocidio armeno. Francesco e il catholicos Karekin II sono accolti dal presidente Serzh Sargsyan. Il Papa depone una corona di fiori all’esterno del monumento, presente un gruppo di bambini con cartelli dei martiri del 1915. Poi il momento di preghiera nella camera della fiamma perenne. Sulla terrazza del museo il Papa incontra una decina di discendenti dei sopravvissuti, salvati e ospitati a Castel Gandolfo da Benedetto XV.
Davanti alla fiamma perenne, i presenti recitano il Padre Nostro ognuno nella propria lingua. Quindi il Papa e il Catholicos benedicono l’incenso. Il coro canta l’inno. Dopo le letture, in armeno e in italiano, il Papa recita la sua preghiera di intercessione: "Cristo, che incoroni i tuoi santi e adempi la volontà dei tuoi fedeli e guardi con amore e dolcezza alle tue creature, ascoltaci dai cieli della tua santità, per l’intercessione della santa Genitrice di Dio, per le suppliche di tutti i tuoi santi, e di quelli di cui oggi è la memoria. Ascoltaci, Signore, e abbi pietà, perdonaci, espia e rimetti i nostri peccati. Rendici degni di glorificarti, con sentimenti di grazie, insieme al Padre e allo Spirito santo, ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen". Di nuovo la recita del Padre Nostro ognuno nella propria lingua. Quindi, lungo il percorso verso il giardino, prima dell’incontro con i discendenti dei sopravvissuti, il Papa benedice e innaffia un albero a memoria della visita. Prima di congedarsi, la firma del Libro d’Onore.
"Qui prego, col dolore nel cuore, perché non vi siano più tragedie come questa, perché l’umanità non dimentichi, sappia vincere con il bene il male. Dio conceda all’amato popolo armeno e al mondo intero pace e consolazione. Dio custodisca la memoria del popolo armeno, la memoria non va annacquata né dimenticata, la memoria è fonte di pace e di futuro". Sono le parole vergate di pugno dal Papa sul Libro d’Onore del Memoriale del genocidio armeno, da lui firmato al termine della visita.
“Quel dizionario deve essere cambiato così un potere arcaico maltratta la cultura”
Parla la scrittrice Elif Shafak. “È un testo che va in mano ai giovani nelle scuole”
intervista di Marco Ansaldo (la Repubblica, 09.05.2016)
«COME scrittore, ho esaminato il dizionario. E come scrittrice- donna, sono furibonda che il dizionario della lingua turca contenga descrizioni arcaiche e sessiste». Elif Shafak non solo è la figura di narratrice impegnata che i lettori italiani ormai conoscono per i tanti suoi romanzi tradotti, l’ultimo “La città ai confini del cielo” (Rizzoli). Ma è un’autrice pubblicata in più di trenta lingue, e sempre molto attenta all’uso della parola. I suoi ultimi testi, ad esempio, li ha scritti direttamente in inglese.
Lei ha già twittato la sua rabbia per quello che è uscito sul dizionario. Come spiega quanto è successo?
«Facciamo degli esempi concreti. Prendiamo la parola “sporco”. Il dizionario descrive il termine come proprio “di una donna che ha le mestruazioni”. Ecco, lo trovo inaccettabile. Quello che mi fa indispettire di più è che questo testo venga usato nelle scuole, all’università. Mi chiedo: è questo che insegniamo ai nostri giovani?».
Ma non trova singolare che questo slittamento di termini arrivi adesso, in un periodo in cui la Turchia è in preda a tensioni? Fare operazioni di questo tipo è tipico dei regimi.
«È chiaro, la Turchia è un Paese sessista e patriarcale. E così è il suo dizionario ufficiale. Il testo dell’Accademia della lingua turca deve essere assolutamente riformato. E ad essere cambiati devono essere entrambi: sia la mentalità dominata dal maschilismo, sia il dizionario che la rispecchia».
Senta, Elif, quello che stiamo vedendo in Turchia è un momento di grande turbolenza, culminato la scorsa settimana con le dimissioni del premier Ahmet Davutoglu in contrasto con il Presidente, Tayyip Erdogan. Lei come lo vive?
«A proposito dei qui pro quo sulle parole le faccio questo altro esempio di che cosa accade proprio in Parlamento. Nei giorni scorsi un membro del Partito democratico dei popoli, curdo, ha detto di voler fare una citazione da Oscar Wilde. Un parlamentare del partito conservatore di ispirazione religiosa è saltato su contestando l’idea di citare qualcuno che non fosse né musulmano né turco: “Lei non ha esempi di questa cultura, di questa civiltà?”, gli ha obiettato. E in quel frangente un altro esponente della formazione al potere confondeva l’autore irlandese con gli Oscar, quelli di Hollywood. A quel punto una deputata dello schieramento curdo ha chiarito: “Ma è Oscar Wilde. Non è un premio, è una persona”. Ecco, siamo a questo punto».
La Turchia, dunque, continua a essere un Paese spaccato?
«In modo totale. Sono due pianeti diversi: chi sostiene e continua ad appoggiare il capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan; e chi invece, per una serie di altre ragioni, è contro. E lui, che teoricamente dovrebbe essere al di sopra delle parti, si rivela come il politico più divisivo della storia moderna della Turchia».
Dal comico tedesco Jan Boehmermann al giornalista Can Dundar. In questo periodo gli intellettuali sono sotto il tiro del potere turco. Che reazione c’è nel Paese?
«In passato avevamo una solida tradizione di humour nero. La politica era sempre un ambiente rude, ma la gente poteva ridere dei politici, poteva criticare. Ora non più».
E il modello turco, su cui in Occidente si sperava tanto?
«Quel miscuglio unico di democrazia occidentale, secolarismo, cultura islamica e società pluralistica, oggi è una retorica vuota. E in Turchia milioni di persone meravigliose sono profondamente depresse, demoralizzate, sole».
Ma poi, quella citazione su Oscar Wilde, in Parlamento?
«È caduta come tra i sordi. Era sulla volgarità del potere».
Turchia, la Neolingua di Erdogan
L’Istituto che si occupa del linguaggio è sotto accusa per aver attribuito definizioni imbarazzanti e sessiste a termini di uso comune nel vocabolario ufficiale. Protesta delle ong e dei gruppi femministi
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 09.05.2016)
UNA “NEOLINGUA” in salsa islamica. Un esperimento di imposizione delle parole in senso conservatore e patriarcale. È l’ultima novità che viene dalla Turchia di Tayyip Erdogan. Il dizionario ufficiale della lingua turca definisce le donne nel loro periodo mestruale come «sporche». Il testo elaborato dall’Istituto di lingua turca (Tdk) è accusato di sessismo e più termini si trovano adesso sotto il tiro di una petizione lanciata da donne e da esponenti laici in Turchia e all’estero, che si battono perché le spiegazioni di diverse parole siano cambiate.
L’Istituto illustra la parola “kirli”, sporco, dando come esempio «una donna che ha le mestruazioni». Gli altri due significati forniti sono «non pulito» e un moralistico «contrario ai valori della società». Non è la prima volta che l’istituzione - il cui scopo è la difesa di una lingua che ha origini uralo-altaiche, dunque nobili e antiche - finisce sotto accusa. Sostenuta dal governo conservatore di ispirazione musulmana che governa il paese dal 2002 a oggi, il Tdk starebbe coniando una sorta di “Neolingua” di orwelliana memoria, in linea con il clima liberticida che si respira negli ultimi anni nel paese.
L’Istituto era stato già criticato per aver usato definizioni giudicate come sessiste. La parola “ musait”, che è un termine turco proveniente dall’arabo, significa «disponibile». Ma nel dizionario il secondo esempio che viene dato è quello di una donna «pronta a flirtare», e che può «flirtare facilmente». In Turchia, un gruppo chiamato “Collettivo di femministe Istanbul” si chiede ora, sul suo profilo Facebook, «Non possono essere “disponibili” anche gli uomini?».
Il presidente dell’Associazione per la lingua turca, Mustafa Kacalin, risponde alle critiche dicendo che «disponibile» è un termine entrato nel dizionario nel 1983. Tuttavia la petizione chiede che proprio questa parola venga adesso rivista, sostenendo che l’atto di flirtare è comune ai due sessi e non deve essere attribuito solo alle donne.
L’associazione è contestata anche per un altro termine, che associa un uomo o una donna cattiva all’esempio di “prostituta”. Ma ancora altre parole sono sotto tiro.
Il Tdk è nato nel 1932 . Negli Anni ‘30 e ‘40 si è impegnato per rimpiazzare le parole che contaminavano la sfera dell’ormai decaduto Impero ottomano, provenienti dall’arabo, dal persiano, dal greco e dal francese.
Elif Shafak.
“Retate di professori la mia Turchia infelice perde la democrazia”
La scrittrice: “Chiunque critica il governo viene trattato come un nemico
"Lo Stato è sempre più intollerante e autoritario”
“Retate di professori la mia Turchia infelice perde la democrazia”
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 16.01.2016)
ISTANBUL. Accademici arrestati, scrittori minacciati, giornalisti licenziati. Solo ieri 27 professori universitari sono stati fermati e 41 puniti per avere siglato l’appello di 1.128 docenti (fra cui Noam Chomsky e Slavoj Zizek) per una soluzione pacifica della guerra nella regione curda. In una nazione che chiede l’ingresso in Europa, dov’è la libertà di espressione?
Cosa succede in Turchia? Lo chiediamo a Elif Shafak, la scrittrice più venduta nel paese. «Sono molto triste e sono rimasta scioccata nel vedere gli accademici arrestati solo per aver firmato una petizione. Questo è inaccettabile in una democrazia. Una vera democrazia prospera sulla libertà di parola, sulla separazione dei poteri, il rispetto della legge e la diversità delle opinioni. Nessuna di queste cose, però, è più permessa in Turchia».
E che cosa c’è invece?
«Il crollo della libertà di espressione. Chiunque osi criticare lo Stato o il governo viene trattato come “un nemico interno”. Se critichi il governo, automaticamente sei accusato di “tradire la tua nazione”. Intellettuali e accademici sono demonizzati e offesi. Alcuni di loro minacciati apertamente».
Come?
«Gruppi ultranazionalisti imbrattano le porte dei loro uffici scrivendo ‘qui non vogliamo nemici della nazione. Vattene’. Per chi ha un’opinione diversa c’è una crescita allarmante di intolleranza”.
Come la definirebbe: una situazione fosca, deprimente?
«Molti sono depressi e demoralizzati. Vediamo che il direttore di Cumhuriyet, Can Dündar, è ancora in prigione, e così il suo capo redattore Erdem Gul. L’ultranazionalismo è in ascesa. Il fondamentalismo religioso in crescita. E lo Stato è diventato più autoritario e intollerante. C’è una tensione perenne. Siamo diventati una nazione infelice».
Però Erdogan è stato votato liberamente, no? Ha vinto le elezioni ed è stato scelto da metà dei turchi.
«In questo momento la Turchia è un paese diviso. Lo scorso novembre metà della società ha votato per il suo partito (conservatore di ispirazione religiosa, ndr), ma non l’altra parte. Ci sono molte ragioni per questo e vanno analizzate con calma».
Facciamolo.
«Alcuni hanno votato Erdogan perché, temendo il caos, volevano la stabilità politica o economica. Nella psiche dei turchi, infatti, le coalizioni hanno un significato negativo. Non dimentichiamoci che tra il 1971 e il 1980 (le date di due colpi di Stato, ndr) ci sono state 10 coalizioni di governo, e molta violenza».
C’era la paura di tornare a quei tempi?
«Per molti. Altri hanno votato per il suo partito perché volevano “una leadership forte”. E l’altra metà della società ha agito in modo del tutto diverso. Il gap tra i due campi ora non è più colmabile».
E per lei non è triste che la libertà di espressione e la democrazia non siano una priorità per alcuni?
«Quello che per loro conta è la stabilità economica. Ma la democrazia non è qualcosa che può essere posposto o cui rinunciare. Non possiamo abbandonarla».
Il kamikaze che ha ucciso 10 turisti tedeschi a Istanbul, è un messaggio dell’Is a Erdogan, accusato da molti osservatori di avere dato corda per anni ai jihadisti? Come risponderà ora la Turchia?
«I politici sono stati troppo lenti nel comprendere quale grave pericolo costituisse il cosiddetto Stato Islamico. Per un po’ la gente ha pensato che fosse un problema in un posto lontano. Poi hanno visto che cominciavano a reclutare giovani in Turchia. Oggi è una situazione allarmante. Nella città di Suruc, poi ad Ankara, ora a Sultanahmet... Gente innocente è stata macellata. E i media non possono scriverne ampiamente, perché per lo più vengono silenziati».
La sua opinione sulla questione curda? Un problema di terrorismo, come dice il governo, o di democrazia?
«Quella che chiamiamo “questione curda” è un problema importante, che non può essere risolto con le armi. È una questione storica, politica, sociale e culturale, prima di tutto. Ha lasciato sul campo 40.000 morti. Dopo tutte queste vittime e questi anni, abbiamo imparato qualcosa?».
Per lei?
«Temo di no. E ho paura che stiamo andando indietro. Facciamo ancora vecchi errori. Quello di cui abbiamo urgente bisogno, invece, è la pace. Quello che ci vuole è la coesistenza e la democrazia. Ma chi la chiede viene punito o linciato. La violenza deve finire».
Così Erdogan tradisce il suo Paese
di Roberto Toscano (La Stampa, 11/10/2015)
La Turchia è tornata in Medio Oriente. Un Medio Oriente dilaniato dai settarismi e dall’autoritarismo, e colpito da un feroce terrorismo. Gli oltre ottanta morti di ieri ad Ankara si sommano alle trenta vittime dell’attentato di luglio a Diyabarkir e - anche se mancano risposte definitive sugli autori - in nessuno dei due casi possono esserci molti dubbi.
La verità sta nella natura dei bersagli: in entrambi i casi si è trattato di manifestazioni convocate da forze progressiste, in particolare l’Hdp, il partito nato come curdo ma ormai punto di riferimento crescente, dopo aver superato alle ultime elezioni la soglia di sbarramento del 10 per cento per l’ingresso in Parlamento, dell’opposizione al regime di Erdogan.
I morti, e i numerosi feriti, appartengono a una Turchia giovane e democratica che si oppone ad una deriva politico-culturale che combina nazionalismo e islamismo - una deriva che appare ormai capace di annullare e invertire un ben diverso cammino, quello che sembrava destinato a portare il Paese verso condizioni sempre più avanzate di benessere e di integrazione con l’Europa. L’attacco radicale contro questa prospettiva non è arrivato da una ormai improbabile regressione golpista.
È arrivato da un partito, l’Akp, e da un leader, Tayyip Erdogan, che si erano presentati ai turchi e al mondo con una proposta apparentemente capace di garantire una maggiore integrazione nel sistema politico di masse conservatrici, rurali e religiose che la repubblica laica di Atatürk aveva tradizionalmente emarginato nel perseguimento di un disegno autoritario di accelerata modernizzazione ed europeizzazione.
Ebbene, con una progressione inesorabile e senza scrupoli, la «democrazia religiosa» di Erdogan si è rivelata una vera e propria frode politica, caratterizzata da un integrismo strisciante, un’intolleranza sfacciata, una repressione sistematica contro la stampa che osa non allinearsi con il regime e criticare il Capo.
E non si tratta solo di politica interna. Allo slogan degli esordi del primo governo dell’Akp, «zero problemi con i vicini» si potrebbe oggi sostituire il mussoliniano «molti nemici, molto onore». Gli errori si sono sommati, primo di tutti l’ostentata e ingiustificata sicurezza nel decretare che Assad avrebbe dovuto rapidamente abbandonare il potere. Non si tratta solo di errori, ma di un avventurismo pericoloso per la stessa sicurezza del Paese. Come definire diversamente il fatto che la Turchia ha permesso, anzi facilitato, il transito di «foreign fighters» in maggioranza certo non diretti a rinforzare le sparute schiere dei cosiddetti «ribelli democratici», ma piuttosto a unirsi al jihadismo più radicale, da quello affiliato ad Al Qaeda allo stesso Daesh? Ma se i confini diventano permeabili, lo sono nei due sensi, e non sembra azzardata l’ipotesi che gli attentati siano opera di Daesh, per cui i curdi sono i nemici più determinati - ben più credibili di quanto non lo sia la sceneggiata di una coalizione di cui fanno parte Paesi che notoriamente sostengono quel jihadismo che in teoria dovrebbero combattere.
Quello che è certo è che anche per Erdogan i curdi sono il nemico da neutralizzare, e che ormai il governo turco è più vicino all’islamismo radicale che non all’Europa e in genere all’Occidente. Non basta evocare la protezione degli alleati Nato nei confronti di un’inquietante, crescente presenza russa, e non funziona chiedere alla Ue (stile-Gheddafi) di essere indulgente a cambio di una più rigida attività di controllo sui flussi di migranti.
I democratici turchi ci rimproverano, e non a torto, di avere tardato troppo a renderci conto della vera natura di Erdogan e dell’Akp. Oggi comunque le ambiguità sono finite, e purtroppo c’è il pericolo non solo che la Turchia si allontani sempre più dall’orizzonte europeo, ma che si vada verso una crescente fusione fra islamismo e nazionalismo autoritario, con l’appoggio di vertici militari sempre meno ostili a Erdogan. Una tragedia per i turchi, una sventura per gli europei.
Turchia: Terrore ad Ankara, 97 morti. Strage al corteo per la pace
Le esplosioni sono avvenute stamani vicino alla stazione
di Redazione ANSA *
ISTANBUL Le esplosioni vicino alla stazione di Ankara prima di una manifestazione per la pace secondo il partito filo-curdo di opposizione Hdp hanno causato 97 morti. L’ANSA ha contattato l’unità di crisi istituita dal partito per l’emergenza di oggi. Fonti ufficiali turche continuano tuttavia a parlare di 86 vittime.
La Turchia è sotto shock per il sanguinoso attacco terroristico nella capitale Ankara. A tre settimane dalle cruciali elezioni politiche, due esplosioni hanno colpito una folla che si stava radunando per partecipare a una manifestazione per la pace, chiedendo la fine del conflitto con il Pkk curdo. Le violente esplosioni sono avvenute intorno alle 10 nei pressi della stazione ferroviaria. Lo stesso ministero l’ha definito un "attacco alla pace e alla democrazia in Turchia". Il premier turco Ahmet Davutoglu ha subito convocato una riunione d’emergenza sulla sicurezza, mentre i principali leader politici hanno interrotto la loro campagna elettorale per recarsi sul luogo dell’attacco.
"Ci sono indizi seri" che l’attacco sia stato compiuto da 2 kamikaze. Lo ha detto il premier turco Ahmet Davutoglu, annunciando anche 3 giorni di lutto nazionale. "E’ un attacco alla democrazia e all’unità del Paese", che si prepara alle elezioni anticipate del primo novembre. Davutoglu ha annunciato l’intenzione di incontrare i leader dei partiti di opposizione socialdemocratico Chp e nazionalista Mhp, ma non del filo-curdo Hdp.
Il Pkk curdo ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale nel conflitto con la Turchia nel sud-est del Paese in vista delle elezioni anticipate del primo novembre. Nel suo annuncio il Pkk spiega di aver invitato i suoi membri a non compiere più attacchi per garantire la sicurezza del voto, ma di essere comunque pronto a rispondere nel caso dovesse subirne da parte dell’esercito turco. Ieri il vicepremier di Ankara, Yalcin Akdogan, aveva detto che la Turchia non intende interrompere le sue azioni contro i guerriglieri curdi.
La manifestazione per la pace è stata annullata e gli organizzatori hanno chiesto ai partecipanti e a quelli che stavano arrivando da altre città di tornare a casa nel timore di nuovi attentati. "Stiamo assistendo a un enorme massacro. È una continuazione di quelli di Diyarbakir e Suruc", ha denunciato il leader del partito filo-curdo Hdp, Selahattin Demirtas, riferendosi all’attentato a un suo comizio a Diyarbakir alla vigilia del voto di giugno, in cui morirono 2 persone, e a quello del 20 luglio a Suruc, con 33 attivisti diretti a Kobane uccisi da un kamikaze dell’Isis.
"Condanniamo con forza questo attacco che prende di mira l’unità. Siamo contro ogni forma di terrorismo": così il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sulle due esplosioni. Erdogan ha deciso di annullare i suoi impegni a Istanbul, dove si trovava e oggi era atteso in due incontri, per tornare ad Ankara. Anche il principale partito di opposizione, il socialdemocratico Chp, e il partito filo-curdo Hdp hanno interrotto le iniziative odierne nell’ambito della campagna elettorale per il voto anticipato del primo novembre.
Renzi, sgomento per efferato attentato - Il presidente del Consiglio Matteo Renzi esprime il proprio sgomento e dolore "per l’efferato attentato terroristico contro la democrazia e la pace che è costato la vita a tanti manifestanti ad Ankara".
Casa Bianca, forte condanna per atto orribile - Gli Stati Uniti condannano nella maniera più risoluta l’orribile attentato terroristico di oggi ad Ankara. Lo si legge in una nota della Casa Bianca che spiega: "Il fatto che l’attacco sia stato effettuato prima di una manifestazione per la pace, sottolinea la depravazione di coloro che lo hanno architettato e ci ricorda la necessità di affrontare in maniera condivisa le sfide alla sicurezza nella regione".
* ANSA, 10 ottobre 2015 20:06 (ripresa parziale).
Un bivio storico per la Turchia
La Turchia si avvicina alle elezioni politiche del 7 giugno in un clima di straordinaria tensione
di Roberto Toscano (La Stampa, 04.06.2015)
Recep Tayyip Erdogan - eletto Presidente lo scorso anno - punta alla conquista da parte del suo partito, l’Akp, dei 300 seggi (su un totale di 550). Un risultato che gli permetterebbe di indire un referendum per una revisione della Costituzione che introduca il passaggio dall’attuale sistema parlamentare ad un sistema presidenziale, un ulteriore passo avanti verso un regime sempre più dittatoriale nella sostanza, pur nell’apparente rispetto dei meccanismi elettorali di una democrazia.
Che la Turchia si trovi di fronte a una drammatica svolta e non a una normale ipotesi di modifica di forme istituzionali lo dimostra la violenza, tanto del linguaggio che delle azioni, di un uomo politico che sembra avere perso ogni controllo e superato ogni limite.
Due giorni fa l’avvocato di Erdogan ha presentato alla Procura una denuncia contro il Direttore del quotidiano Cumhuriyet, Can Dundar, chiedendo che venga condannato (a due ergastoli più 42 anni!) per avere trasmesso sulla rete televisiva del giornale un video, dello scorso gennaio, in cui si vedono agenti dei servizi turchi caricare armi su un camion destinato ai ribelli siriani. Erdogan aveva subito definito questo scoop giornalistico «una montatura» e «un atto di spionaggio»: una maldestra ammissione, dato che lo spionaggio, che per definizione rivela fatti reali che dovrebbero rimanere segreti, è l’opposto di una montatura.
Il fatto è che il Presidente turco sembra ormai ambire, in una regione dove impazzano le teorie cospirative, al titolo di campione assoluto del complottismo. Anche in questa circostanza, infatti, è tornato a denunciare le manovre della «organizzazione parallela», ovvero della rete di poteri occulti che sarebbe manovrata dagli Stati Uniti, dove risiede, da parte di Fethullah Gulen, suo ex alleato islamista e ora acerrimo nemico: per Erdogan, un sinistro e potentissimo «Grande Vecchio». Ma non basta. Infine, secondo Erdogan esisterebbe una cospirazione mondiale che mira «a dividere, disintegrare e fagocitare» la Turchia - una cospirazione di cui sono strumenti New York Times, Cnn e Bbc, che operano «seguendo le istruzioni di una mente suprema».
Sembrerebbe ridicolo se la situazione non fosse drammatica, e non solo per le sorti del popolo turco, che solo pochi anni fa si affacciava all’Unione Europea sulla base di una riconquistata democrazia e di uno straordinario sviluppo tanto economico quanto culturale. La deriva autoritaria interna si combina infatti con un’inquietante politica avventurista che ha portato la Turchia ad un allineamento non dichiarato, ma evidente, con il jihadismo più estremo. Fallito, soprattutto in Egitto, il progetto dei Fratelli Musulmani, che Ankara aveva fortemente ed apertamente appoggiato, il governo turco sembra non avere più remore nel sostenere le tendenze islamiste più radicali, un continuum (con il frequente passaggio di armi e combattenti) che va da Al Nusra, una «franchise» di Al Qaeda, allo Stato Islamico. Il ruolo della Turchia, assieme a quello dell’Arabia Saudita e dell’Iran, sarebbe essenziale per mettere fine all’atroce conflitto siriano e per isolare lo Stato Islamico, ma sembra che la politica di Erdogan si stia muovendo in tutt’altra direzione.
Forse non esagera il leader del partito curdo Demirtaš quando sostiene che il Presidente turco aspira in realtà ad essere «il nuovo Califfo»: in altri termini, a stabilire un ruolo di egemonia «pan-sunnita» della Turchia sulla base di un modello politico autoritario islamista combinato con un’economia sviluppata. Un «modello turco» ben diverso da quello di cui tanti parlavano al tempo, che oggi ci sembra già molto lontano, di quella «Primavera araba» che aveva fatto sperare che potesse emergere una versione moderata, e compatibile con la democrazia, dell’islamismo politico.
Ma chi potrà fermare il disegno politico di Erdogan? I sondaggi fanno prevedere al massimo una flessione dei consensi del partito di governo, ma non una sua sconfitta. Il punto fondamentale, comunque, consiste nella possibilità o meno per Erdogan di fare approvare dal nuovo Parlamento il suo disegno di svolta costituzionale presidenzialista. A questo punto vale la pena cercare di capire quali siano le forze politiche che si oppongono all’Akp, e quali siano i loro limiti e le loro prospettive. Il principale partito di opposizione, il Partito Repubblicano del Popolo - Chp, si presenta come un partito socialdemocratico e progressista, ma rappresenta nello stesso tempo i nostalgici del kemalismo e gli strati sociali più «occidentali» e urbani, ed ha difficoltà ad incidere sulla base di consenso popolare, tradizionalista nella religione e nei costumi, che ha permesso all’Akp di vincere ben tre elezioni parlamentari oltre a quella presidenziale.
L’unica possibilità di contrastare il disegno autoritario di Erdogan potrebbe essere la presenza in Parlamento - qualora riuscisse a superare l’alta soglia minima, il 10 per cento, fissata dalla attuale legge elettorale - dell’Hdp, il Partito Democratico del Popolo, un partito nato come curdo ma che ultimamente si presenta come partito nazionale, al punto che nei suoi ultimi comizi elettorali sono persino comparse bandiere turche. Una sua presenza in Parlamento potrebbe rendere impossibile il raggiungimento della soglia necessaria per l’approvazione della riforma presidenzialista, e addirittura - nel caso peraltro poco probabile di una forte flessione dell’Akp - permettere la formazione di una coalizione alternativa con il Chp.
Vale la pena di prestare molta attenzione alle elezioni turche di domenica prossima. Quello che è in gioco è il futuro stesso di un grande ed importante Paese, e nello stesso tempo gli equilibri di una regione che sprofonda sempre più drammaticamente nella violenza e nella frammentazione territoriale. Una regione che avrebbe bisogno di poter contare sul ruolo di moderazione svolto da una Turchia stabile, prospera, democratica.
Una Repubblica turca costruita sulla negazione delle minoranze
Il genocidio armeno e i suoi sviluppi ulteriori
L’arresto e l’esecuzione delle élite intellettuali armene di Istanbul nella notte dal 24 al 25 aprile 1915 segnano l’inizio del genocidio. In qualche mese i due terzi degli armeni dell’Impero ottomano, ovvero circa un milione trecentomila persone, scompaiono. Da cent’anni in qua, tutte le minoranze della Turchia pagano il prezzo dell’impunità e delle denegazioni dello Stato.
Vicken Cheterian, giornalista, autore di War and Peace in the Caucasus: Russia’s Troubled Frontier, C. Hurst - Columbia University Press, New York, 2009
Le Monde Diplomatique, edizione online, aprile 2015
http://www.monde-diplomatique.fr/2015/04/CHETERIAN/52845
(Traduzione dal francese di José F. Padova)
Istanbul, novembre 2013. Una conferenza dedicata agli Armeni islamizzati riempie per la terza giornata di fila una sala di quattrocento posti all’Università del Bosforo. Una giovane donna si alza e prende la parola: «Su Internet ho seguito la conferenza per due giorni. E ho deciso di venire qui oggi per raccontarvi la storia di mio nonno, che è stato uno di loro». Se ha sentito la necessità di raccontare la conversione forzata del suo progenitore, parla anche di ciò che lei stessa ha vissuto - e della società nella quale vive.
Dopo il genocidio del 1915-1916 il destino degli armeni islamizzati e «turchizzati» a forza è restato un argomento tabù. Si è dovuto aspettare novant’anni perché un’avvocatessa turca e militante per i diritti umani, la signora Fethiye Cetin, osasse rompere il silenzio pubblicando le Memorie di sua nonna, una giovane armena la cui famiglia fu deportata e massacrata, mentre lei stessa era stata portata via e sistemata presso una famiglia turca (1). Le hanno allora scritto dozzine di persone asservite a quel medesimo destino. Quando ne ha raccolto le testimonianze in un nuovo libro (2), nessuno ha voluto veder reso pubblico il suo nome e neppure altre informazioni, come la sua data di nascita.
Resta difficile contare i discendenti delle due o trecentomila donne e bambini armeni che sono stati convertiti a forza. Il loro numero potrebbe raggiungere i due milioni. Durante lunghi anni hanno mantenuto il silenzio sulle loro origini e sul destino subito dai loro progenitori. Eppure, tutt’attorno a essi lo si sapeva. I loro vicini di casa consideravano con disprezzo questi convertiti, che non avevano aderito all’islam per fede ma per interesse, per sfuggire a morte certa. Indicati con l’espressione «gli avanzi della spada» (3), nella società turca contemporanea sono stati stigmatizzati. Per di più lo Stato conservava i documenti sulle loro origini e sbarrava loro l’accesso a determinati posti, per esempio nelle forze armate o nella scuola.
Spoliazione dei beni e della memoria
Commemorare il genocidio armeno, il centenario del quale cadrà il 24 aprile prossimo, non rientra soltanto nel campo del ricordo. Esso rivela cose che riguardano i vivi e getta una luce spietata sulla moderna civilizzazione e su alcuni dei suoi gravi fallimenti. Non soltanto essa non ha reso giustizia alle vittime, ma ha tollerato un secolo di diniego del crimine da parte della Turchia, come pure l’indifferenza di chi guardava. Lo Stato turco nega ancora che abbia avuto luogo un genocidio, pretendendo che gli eccidi fossero dovuti a conflitti fra comunità, che la deportazione dell’intera popolazione armena fosse una necessità militare in tempo di guerra, perfino che gli armeni fossero ribelli, colpevoli essi stessi degli assassini di massa o di essere al servizio degli interessi della Russia.
Che succede quando un genocidio avviene, quando un popolo è annientato all’ombra di un conflitto più grande e la classe politica internazionale si comporta in seguito come se nulla fosse successo? Che prezzo paghiamo per il fallimento della giustizia e quali sono le conseguenze sulla nostra cultura politica?
Un crimine che non è riconosciuto come tale può ripetersi. Gli armeni, che erano stati l’obiettivo principale del genocidio, non furono i soli: i greci ottomani, gli assiri e gli yazidi furono ugualmente vittime di massacri e di deportazioni miranti ad annientarli in quanto comunità (4). Alla fine della guerra, quando l’Impero ottomano, sconfitto, fu occupato dalle forze alleate, alcuni sopravvissuti armeni e assiri tornarono alle loro case. Ma dopo la guerra d’indipendenza, le vittoriose forze nazionaliste turche di Mustafa Kemal Atatürk si dedicarono a uno scambio di popolazioni con la Grecia e costrinsero coloro che erano ritornati a esiliarsi in Siria, sotto dominio francese, o in Iraq, controllato dai britannici. Così l’intera Anatolia fu svuotata dalle sue popolazioni cristiane.
Istanbul, la cui popolazione era in gran parte cristiana, fu il solo luogo in cui Greci e Armeni continuarono a vivere dopo il cataclisma. Una violenza di stato devastante si accanì in permanenza contro di essi, in duplice maniera: privandoli dei loro mezzi di sussistenza economica e mettendo in pericolo la loro incolumità fisica. Negli anni ’30 una grande quantità di beni appartenenti alla Chiesa e alle Opere armene fu confiscata, fra li altri il cimitero di Pangalti, vicino al parco Gezi, dove ormai svettano hotel di lusso. La comunità ebraica benestante della Turchia europea fu decimata a conclusione di massacri organizzati dallo Stato turco, nei «pogrom della Tracia del 1934 (5)». La Seconda guerra mondiale fornì una nuova occasione per aggredire le minoranze erodendo la loro posizione economica. Con il pretesto di lottare contro gli «speculatori», il governo introdusse un’imposta sulla ricchezza, pagabile unicamente in denaro contante, il cui ammontare era stimato in modo arbitrario dagli agenti fiscali comunali e variava secondo le comunità, poiché un armeno poteva essere assoggettato a un’imposta cinquanta volte maggior di quella di un «musulmano» (6). Questa «imposta» mirava a eliminare la borghesia delle minoranze, le cui proprietà erano vendute ai musulmani a un prezzo molto inferiore al loro valore. Quanto a coloro che non furono in grado di pagarla, non soltanto si confiscarono i loro beni, ma essi furono esiliati in campi di lavoro forzato vicino a Erzurum, all’est del Paese.
Il conflitto per Cipro decimò ancor più le minoranze. Nel settembre 1955 alcuni pogrom orchestrati dallo Stato scoppiarono a Istanbul in seguito a voci false di un attentato contro la casa di Atatürk a Salonicco, in Grecia. I servizi segreti fecero venire a Pera (l’attuale Beyoglu) interi autobus di individui che aggredirono le imprese, le scuole e le istituzioni religiose appartenenti a greci e ad altre minoranze, mentre la polizia si limitava a osservare, intervenendo soltanto quando i facinorosi se la prendevano per sbaglio con beni appartenenti a musulmani. Questi maltrattamenti costrinsero decine di migliaia di greci all’esilio.
In Anatolia la memoria delle popolazioni deportate fu cancellata. L’abbandono dell’alfabeto arabo per quello latino, imposto da Atatürk, è stato celebrato per decenni come una vittoria della «modernità». Ma diede anche la possibilità che decine di migliaia di nomi geografici con consonanza armena, assira, curda o araba fossero sostituiti da denominazioni con assonanza turca. Migliaia di chiese e monasteri furono fatti saltare con la dinamite (7). Due paragoni danno un’idea della misura di questa cancellazione. Nel 1914 la popolazione armena nell’Impero ottomano rappresentava, secondo il Patriarcato armeno, circa due milioni di abitanti su un totale stimato di sedici fino a venti milioni: oggi in Turchia non restano che circa sessantamila armeni, soltanto quaranta chiese sono ancora in piedi, delle quali trentaquattro a Istanbul.
Durante lunghi anni gli attivisti in cerca di giustizia hanno fatto valere che, se il genocidio non fosse stato riconosciuto, si sarebbero incoraggiati nuovi crimini. Durante la prima guerra mondiale l’esercito ottomano era sotto il controllo tedesco e migliaia di ufficiali tedeschi assistettero direttamente, o perfino parteciparono, all’eliminazione dei cristiani ottomani (8). La Germania del periodo fra le due Guerre, in preda a una grave crisi, non ne trasse alcuna lezione; i nazisti presero esempio anche dai nazionalisti turchi (9).
Ma è proprio in Turchia che si possono vedere le conseguenze peggiori di questa impunità. Nelle province orientali i curdi, che avevano svolto un ruolo essenziale nel genocidio degli armeni ottomani, furono ben presto stigmatizzati a loro volta. Essi erano rimasti fedeli di volta in volta agli Ottomani, ai Giovani Turchi e ad Atatürk. Ma quest’ultimo tradì la sua promessa di accordare loro l’autonomia e mise fine al califfato per instaurare uno Stato nazionale turco. Quando i curdi si rivoltarono le loro sollevazioni furono schiacciate e seguite da massacri e deportazioni. Fu loro persino rifiutata l’esistenza di un’identità curda. Semplicemente essi non esistevano e chiunque osasse dire il contrario era punito.
La chiave di volta dello «Stato profondo»
La Turchia non è riuscita a sbarazzarsi dell’eredità tragica del genocidio. La struttura [statale] responsabile del crimine costituì in seguito la spina dorsale della Repubblica kemalista, nata sulle rovine dell’Impero. L’Organizzazione speciale (OS o Teskilati Mahsusa) era una struttura segreta all’interno del Comitato Unione e Progresso (CUP), il partito al potere sotto l’Impero ottomano, creata allo scopo di fomentare l’agitazione nelle popolazioni ottomane degli imperi zarista e britannico. Se questa missione fallì sul fronte esterno, l’OS svolse invece un ruolo-chiave sul fronte interno, nell’organizzazione delle deportazioni e dei massacri. Gli ex ufficiali dell’OS intervennero in modo decisivo durante la guerra d’indipendenza (1920-1922) lanciata da Atatürk contro le forze greche, francesi e britanniche, prima di formare la chiave di volta dello «Stato profondo»: una rete di ufficiali all’interno della Repubblica turca, che godevano di potere illimitato e che sfuggivano a ogni inquadramento legale. Essi repressero sistematicamente i progressi democratici della società, commettendo assassinii politici e combattendo tanto la guerriglia curda quanto quella di sinistra. E si diedero anche, al riparo di uno Stato-schermo, a un enorme traffico di droga (10).
La violenza del passato nutre la violenza. Durante la guerra dell’Alto Karabakh, Ankara ha subito preso partito a favore dell’Azerbaijan. Dal 1993 in poi mantiene un blocco contro l’Armenia e contro l’antica repubblica autonoma che di fatto le è collegata (11). La frontiera turco-armena resta ermeticamente chiusa e pesantemente sorvegliata, come al culmine della Guerra fredda. Il viaggio del presidente Abdullah Gül a Erevan e la firma del Protocollo di Zurigo nell’ottobre 2009 hanno fatto pensare che la Turchia potrebbe intervenire in modo positivo e contribuire a una soluzione di pace (12). Ma i testi non sono mai stati ratificati. Il Presidente armeno Serge Sarkissian il 16 febbraio scorso ha annunciato che il suo Paese si ritirava dal Protocollo e denunciava «l’assenza di volontà politica del governo turco» e «l’alterazione costante che esso causa allo spirito e ai termini del Protocollo». Ankara sembra incoraggiare il governo dell’Azerbaijan alla conservazione di una posizione massimalista, mentre quest’ultimo minaccia sempre regolarmente di ricorrere alla forza per risolvere il conflitto.
Dopo un silenzio durato molti decenni la Turchia ha improvvisamente ritrovato la memoria degli Armeni, grazie al lavoro di un pugno di uomini e donne coraggiosi. Ragip Zarakolu, difensore dei diritti umani ed editore, ha tradotto in turco diversi libri sul genocidio armeno, ciò che è costato a lui e a sua moglie di essere perseguito e incarcerato a più riprese. Taner Akçam ha avviato ricerche sulla tortura in Turchia che lo hanno condotto a scoprire i massacri di Armeni alla fine del XIX secolo e, alla fine, il genocidio. La sua collaborazione con l’eminente storico armeno Vahakn Dadrian ha dato alla luce un certo numero di opere storiche e ha ristabilito legami e amicizia fra intellettuali armeni e turchi che il genocidio aveva interrotto (13).
Un piccolo gruppo di professori dell’Università del Michigan ha cominciato a studiare la storia turco-armena in una prospettiva di ricerca interdisciplinare. Le sette conferenze internazionali che hanno organizzato hanno permesso di fare uscire il genocidio armeno dai margini del mondo universitario per metterlo al centro degli studi ottomani e di quelli relativi al genocidio (14).
Ma spetta a Hrant Dink, giornalista turco-armeno e redattore del settimanale Agos, il merito di aver attirato, egli da solo, l’attenzione dell’opinione pubblica turca sulla questione armena. Egli si è rivolto alla coscienza dei turchi con parole semplici: c’era un popolo chiamato gli Armeni che viveva su queste terre, non c’è più, che cosa gli è successo? Dink è stato perseguitato dallo Stato, trascinato da un processo all’altro, finché fu assassinato in pieno giorno davanti alla sede del suo giornale, nel 2007. Questo assassinio ha suscitato una manifestazione di massa, in cui le centomila persone che seguivano il suo feretro cantavano: «Noi siamo tutti Hrant Dink! Noi siamo tutti Armeni». Dink ha detto un giorno che i due popoli sono malati: «Gli Armeni soffrono di traumatismo, i Turchi di paranoia». Si può sperare che la verità abbia il potere di guarire?
Columbia University Press, New York, 2009.
(1) Fethiye Cetin, Le Livre de ma grand-mère, L’Aube, La Tour-d’Aigues, 2006.
(2) Ayse Gül Altinay et Fethiye Cetin, Les Petits-Enfants, Actes Sud, Arles, 2011.
(3) Laurence Ritter et Max Sivaslian, Les Restes de l’épée. Les Arméniens cachés et islamisés de Turquie, Thaddée, Paris, 2012.
(4) Cf. par exemple Joseph Yacoub, Qui s’en souviendra ? 1915 : le génocide assyro-chaldéo-syriaque, Cerf, Paris, 2014.
(5) Cf. Rifat N. Bali, Model Citizens of the State : The Jews of Turkey During the Multi-Party Period, Fairleigh Dickinson, Madison, 2012.
(6) Cf. Stanford J. Shaw et Ezel Kural Shaw, History of the Ottoman Empire and Modern Turkey, vol. 2, Cambridge University Press, 1977.
(7) Pour plus de détails, cf. Raymond Kévorkian, Le Génocide des Arméniens, Odile Jacob, Paris, 2006, et Raymond Kévorkian et Yves Ternon, Mémorial du génocide des Arméniens, Seuil, Paris, 2014.
(8) Cf. Vahakn N. Dadrian, German Responsibility in the Armenian Genocide : A Review of the Historical Evidence of German Complicity, Blue Crane Books, Watertown, 1998.
(9) Cf. Stefan Ihrig, Atatürk in the Nazi Imagination, Harvard University Press, Cambridge, 2014.
(10) Lire Kendal Nezan, « La Turquie, plaque tournante du trafic de drogue », Le Monde diplomatique, juillet 1998. Cf. aussi Ryan Gingeras, Heroin, Organized Crime, and the Making of Modern Turkey, Oxford University Press, New York, 2014.
(11) Lire Philippe Descamps, « Des récits irréconciliables », Le Monde diplomatique,décembre 2012.
(12) Cf. le chapitre III de War and Peace in the Caucasus : Russia’s Troubled Frontier,Hurst & Company, 2009.
(13) Cf., par exemple, Vahakn N. Dadrian et Taner Akçam, Judgment at Istanbul : The Armenian Genocide Trials, Berghahn Books, New York, 2011.
(14) Certains de leurs travaux ont été publiés dans Ronald Grigor Suny, Fatma Müge Göçek et Norman M. Naimark (sous la dir. de), A Question of Genocide : Armenians and Turks at the End of the Ottoman Empire, Oxford University Press, 2011.
Turchia: 800mila tweet in poche ore, la rivolta delle donne corre sui social
A pochi giorni dal brutale assassinio di Özgecan Aslan, pugnalata e bruciata dopo un tentativo di stupro, è partito l’hashtag #sendeanlat (“spiegalo anche tu”): dalle star dello show biz alle donne comuni si moltiplicano nella rete le testimonianze di violenze subite
di Marta Ottaviani (La Stampa, 17/02/2015)
Istanbul
La protesta delle donne turche contro la violenza, forse la loro stessa rinascita, riparte da Twitter. A pochi giorni dal brutale assassinio di Özgecan Aslan, pugnalata e bruciata dopo un tentativo di stupro, in migliaia si sono riservate sul social, per dare vita a una vera e propria campagna di denuncia, guidata dall’hashtag #sendeanlat, che in turco suona come “spiegalo anche tu”.
Utilizzare Twitter per raccontare la propria storia, esprimere il proprio dolore, gridare sul web la propria denuncia. In poche ore sono stati circa 800mila i tweet inviati sul web. Si parte dalle denunce sulle limitazioni nella vita quotidiana, come il non poter fumare in pubblico o il fratello che impedisce di usare internet, alle violenze più atroci: tentativi di stupro, botte da parte del padre, scelta dello sposo da parte della propria famiglia. Uno sforzo collettivo di mettere in mostra la propria sofferenza e la propria rabbia, trovando nella rete un mezzo per sentirsi meno sole davanti a quel muro di omertà che spesso nella Turchia moderna si viene a creare davanti al capitolo donna.
Alla campagna hanno preso parte alcuni nomi illustri del cinema e del mondo della cultura turco. In prima fila, Beren Saat, una delle attrici più famose della Mezzaluna, che ha voluto condividere con le donne turche la sua storia: episodi di bullismo durante la scuola, molestie da parte di produttori televisivi.
Un momento di riflessione collettiva, a cui hanno partecipato molti uomini, che hanno rivolto domande diretta al premier Ahmet Davutoglu e al presidente Recep Tayyip Erdogan, accusandoli di non avere fatto abbastanza per tutelare le donne nel Paese. Ieri a Istanbul, in molti hanno partecipato alla manifestazione maschile in solidarietà alla protesta che le donne turche stanno portando avanti.
E intanto non si ferma l’onda umana, che ha protesta è diventata richiesta corale per una società più giusta. In tanti in queste ore hanno postato foto di drappi neri ai palazzi in segno di lutto per l’orribile morte di Özgecan. Ieri in tutta la Turchia, anche nella più conservatrice Anatolia, in molti si sono vestiti di nero per ricordare la terribile fine di chi ha pagato con la vita per avere detto no a uno stupro.
Se non una nuova speranza, almeno la consapevolezza che nella Mezzaluna le donne sono un po’ meno sole di ieri. Lo ha spiegato meglio di qualsiasi altra cosa, il titolo del quotidiano Hurriyet oggi “Bak Özgecan, degisiyor”. Guarda, Özgecan, qualcosa cambia.
Turchia, arrestati 14 oppositori Erdogan
Legati a leader religioso Fetullah Gulen, nemico del premier
di Redazione ANSA ISTANBUL *
La polizia turca anti-terrorismo ha arrestato domenica almeno 24 sostenitori del leader religioso Fetullah Gulen, avversario del presidente Recep Tayyp Erdogan. Lo riferisce l’agenzia Anadolu. L’operazione è scattata in 13 città turche, fra le quali Istanbul. Sono stati perquisiti i locali del giornale Zaman, legato a Gulen e sono stati arrestati il direttore del quotidiano e il il responsabile di una tv vicina a Zaman.
Soli Ozel, professore di Relazioni internazionali e di Scienze politiche alla Bilgi University di Istanbul
«Un referendum vinto a mani basse»
di Mo. Ri. Sar. (Corriere della Sera, 31.03.2013)
ISTANBUL - « Una vittoria netta per Erdogan e una sconfitta durissima per il Chp di Kemal Kiliçdaroglu». Non ha dubbi Soli Ozel, professore di Relazioni internazionali e di Scienze politiche alla Bilgi University di Istanbul. «È chiaro che queste sono solo elezioni amministrative - dice al telefono commentando a caldo i primi risultati - ma il premier le ha trasformate in un referendum sulla sua popolarità e si può dire, senza ombra di dubbio, che ha vinto a mani basse. L’Akp arriva al 45%, un risultato del tutto rispettabile. Si è confermato vincente a Istanbul Oltre a Istanbul si è riconfermato vincente anche ad Ankara».
Gli elettori hanno creduto alla teoria del complotto per far cadere il governo? Come mai gli scandali sulla corruzione e le leggi liberticide non hanno spostato alcun voto?
«Una strana domanda fatta da un’italiana. Come mai da voi Silvio Berlusconi ha continuato a vincere le elezioni? La risposta è sempre la stessa: la gente preferisce credere al leader in carica, soprattutto quando non c’è un’alternativa convincente».
Cosa succederà ora?
«È difficile dirlo. Bisogna vedere se Erdogan, una volta incassata la vittoria, deciderà di abbassare i toni e cercare una riconciliazione con i suoi oppositori. O se, invece, calcherà ancora più la mano e cercherà la vendetta. L’obiettivo auspicabile dovrebbe essere quello di unire il popolo anziché dividerlo».
Il premier correrà per le presidenziali?
«Siamo un Paese diviso tra il 45% e 55%. In questa situazione per Erdogan sarà difficile diventare presidente senza l’accordo con un altro partito. Forse anticiperà le politiche e farà il primo ministro per la quarta volta modificando le norme vigenti».
La posizione del presidente Gül a questo punto si indebolisce.
«Abdullah Gül ha giocato su due tavoli: ha firmato quello che voleva Erdogan ma dall’altro lato si è schierato contro il blocco di Youtube e Twitter. Così ha perso molta della sua autorevolezza».
Lo scontro con Gülen, il predicatore islamico che vive in Pennsylvania e guida milioni di adepti, è finito?
«Sicuramente Gülen ha dimostrato di non avere un grande seguito elettorale. Il suo risultato è del tutto deludente. Ma il vero sconfitto di queste elezioni è il principale partito di opposizione, il Chp».
Cosa succederà ora nel Chp? Kiliçdaroglu si dimetterà?
«Di certo Kiliçdaroglu dovrà aprire una seria riflessione su un risultato elettorale che vede inchiodato il suo partito a un misero 27%».
Ma il voto fa sfumare le ambizioni del leader
di Antonio Ferrari (Corriere della Sera, 31.03.2014)
Il verdetto del popolo turco è abbastanza chiaro, nonostante il caos, le manipolazioni e lo strano blackout elettrico, a macchia di leopardo, che ha costretto molti scrutatori a un romantico lavoro al lume di candela. Il premier Erdogan, pur ferito e screditato, si salva dal naufragio. Numericamente il leader tiene bene, politicamente si indebolisce per aver trasformato il voto amministrativo in un referendum su se stesso.
Il suo futuro, infatti, è in declino e la presidenza della Repubblica è sempre più lontana. Un sogno di gloria e di presunzione che pare arenato nel deserto dell’arroganza. L’immagine che affiora dalle urne, con i seggi assediati da un’affluenza record che rivela l’estrema politicizzazione (e polarizzazione) della volontà popolare, è quella di una sentenza senza veri vincitori e vinti.
Erdogan, pur travolto dagli scandali, non è stato severamente punito. Però ha corso il rischio di perdere il controllo di Istanbul, la città più importante del Paese con i suoi 15 milioni di abitanti: polo miliardario di appalti dorati. I fedelissimi sostenitori dell’Akp, il partito islamico di cui il premier è l’anima, hanno infatti deciso di restare dalla sua parte, tacitando le correnti di dissenso interne al partito.
Se valesse una metafora sportiva, si potrebbe dire che il voto turco ha espresso un virtuale pareggio: non tra il governo e l’opposizione laica, ma tra chi è sempre con Erdogan, costi quel che costi, e chi invece è contrario al capo del governo ed è pronto ad allearsi col diavolo pur di abbatterlo politicamente.
A conti fatti, il discusso leader resta in sella, anche se i più attenti analisti turchi sostengono, già adesso, che sarà assai improbabile, fra pochi mesi, alle elezioni presidenziali, vedere Erdogan come candidato vincente. Il capo dello Stato, pur indicato dal partito di appartenenza, deve essere espressione della conciliazione nazionale: in sostanza non può essere totalmente sgradito agli avversari, come è accaduto per Ozal, per Demirel, per Sezer, e per lo stesso Gül, che con l’attuale premier è fra i fondatori dell’Akp.
È proprio la divisione in due blocchi dell’elettorato turco, avvenuta ieri, a suggerire le interpretazioni del voto più aderenti alla realtà. Nel fronte islamico moderato ha prevalso la conservazione: più che gli scandali ha pesato sul voto il rischio che la rovinosa caduta di Erdogan riporti il Paese al rigore laicista del passato.
La macchina del consenso è stata quindi tradizionale: controllo della stampa, delle televisioni, comizi con folle oceaniche, capillare propaganda porta a porta. Quella del fronte opposto si è scatenata sui social network, i veicoli della comunicazione più sgraditi al premier. La chiusura coatta di Twitter e YouTube ne ha rivelato, per contro, la forza inarrestabile. Sul web, il giorno delle elezioni, sono stati invitati tutti i sostenitori del «no» ad andare a votare indossando le maglie di tutti i club più famosi, compresi quelli che il premier riteneva dalla sua parte.
In sostanza, per ora, cambierà poco o nulla in Turchia. La guerra tutta islamica fra Erdogan e il predicatore Fetullah Gülen, che vive negli Usa, si è combattuta anche ieri. L’agenzia di Stato e quella di Gülen si sono scontrate velenosamente sui risultati e sui loro interessati (seppur illegali) exit poll. Chi sperava da questo voto un raggio di luce è sempre al buio. E senza candele. Le incognite, invece di risolversi, si sono moltiplicate.
La Turchia a un bivio, al voto fra veleni e scandali
Convulsa fine campagna elettorale. Erdogan si gioca il futuro
di Francesco Cerri *
ANKARA. E’ finita come era cominciata, fra scintille, rivelazioni, scandali, minacce e accuse di spionaggio e tradimento alla patria, nelle ultime ore convulse, la velenosa campagna per le cruciali amministrative turche di domenica, da cui potrebbe dipendere il futuro del premier islamico Recep Tayyip Erdogan, in un Paese forse a un bivio fra Europa e Islam. E’ finita senza il protagonista numero uno, tradito dalle corde vocali dopo un’incredibile maratona elettorale durata più di un mese, con tre comizi al giorno in ogni angolo del Paese. Erdogan ha dovuto annullare gli ultimi meeting di oggi: è rimasto senza voce. Durante un comizio a Van, all’improvviso ieri è passato dal solito tono virile a uno squittio da topolino, lasciando sbigottita la folla di sostenitori.
Il paese è ora in inquieta attesa dell’esito del voto di domenica. I sondaggi, visibilmente inaffidabili, fanno previsioni oscillanti a seconda della vicinanza al potere di chi li ha realizzati. Danno al partito islamico Akp del premier fra il 30% e il 48%. E fra il 20% e il 33% al principale partito di opposizione, il socialdemocratico Chp di Kemal Kilicdaroglu. Erdogan, invischiato negli scandali di corruzione esplosi con la tangentopoli del Bosforo il 17 dicembre, martellato di rivelazioni imbarazzanti uscite su internet durante tutta la campagna, ha detto che lascerà se l’Akp perderà il primo posto (dopo il 50% alle politiche del 2011). Ma la posizione del "sultano" turco diventerà difficile se l’Akp perderà Ankara e soprattutto Istanbul, la megalopoli di cui Erdogan è stato il sindaco, capitale economica e finanziaria del Paese, dove vota un elettore turco su cinque.
Il candidato dell’opposizione, Mustafa Sarigul, potrebbe farcela contro il sindaco uscente dell’Akp, Kadir Topbas. Sulle ultime ore della campagna si sono rovesciati nuovi veleni. Una registrazione uscita su internet ha accusato Erdogan di avere organizzato nel 2010 la diffusione di un video a luci rosse sull’allora capo dell’opposizione, Deniz Baykal, costretto per questo a dimettersi. Il successore di Baykal, Kenal Kilicdaroglu, ha denunciato una "Watergate turca".
Altrettanto devastante un’altra registrazione uscita su YouTube di una riunione nella quale alti responsabili, fra cui il ministro degli esteri, Ahmet Davutoglu, e il capo dei servizi segreti, Hakan Fidan, vicino a Erdogan, preparano un intervento militare in Siria. Sul nastro il capo degli 007 spiega fra l’altro di poter mandare i suoi uomini in Siria a lanciare qualche missile contro il territorio turco, per giustificare una risposta militare di Ankara.
Qualche giorno fa Kilicdaroglu aveva avvertito che Erdogan pensava a una "avventura" militare in Siria prima del voto per distrarre gli elettori dagli scandali di corruzione che inquinano il regime. Le rivelazioni uscite su Youtube hanno provocato un terremoto politico. Erdogan ha ordinato il blocco di YouTube. Una settimana fa era già stato bandito Twitter, l’altra rete sociale sulla quale da settimane escono le denunce di malversazioni contro il premier e altri dirigenti turchi.
Non è chiaro l’impatto che gli scandali avranno sul voto. Erdogan, che l’opposizione accusa di essere un "dittatore" e il "primo ladro", rimane popolare fra quella parte della popolazione anatolica, rurale, islamica, poco istruita e conservatrice, che forma lo zoccolo duro dell’elettorato Akp.
Erdogan ha fatto del voto di domenica un referendum sulla propria persona, spaccando il Paese e denunciando complotti contro il suo proprio governo. Il voto di domenica potrebbe essere un bivio per la Turchia: più autoritaria e islamica, o più europea e democratica.
Piazza Taksim
di Nazim Hikmet (la Repubblica, 06.06.2013)
Dentro di me c’è il dolore di un ramo dai frutti spiccati, non scompare dai miei occhi l’immagine della strada che scende al Corno d’Oro, / è un coltello a due occhi piantato nel mio cuore / la nostalgia del figlio, la nostalgia di Istanbul. / Il distacco non si regge? / A noi la nostra sorte sembra tanto tremenda? / Invidiamo la gente? Il bravo padre è in prigione a Istanbul, / il bravo figlio lo vogliono appendere / in mezzo alla strada / in pieno giorno. /Per quanto mi riguarda qui son libero/ come la brezza o un canto popolare, / tu sei laggiù, piccolo mio, / ma sei ancora così piccolo che non potranno spedirti sulla forca. Non diventi assassino il bravo figlio, / non muoia il bravo padre, / che per portare a casa il pane e gli aquiloni/ hanno rischiato il cappio. / Uomini, / uomini buoni, / passatevi la voce da ogni angolo del mondo, / ditegli di fermarsi, / che non infili il cappio il giustiziere.
Ho visto in piazza la solidarietà della nuova Turchia
La protesta per difendere Gezi Parki, simbolo della laicità della società turca
la cronaca delle giornate di protesta e della brutale repressione della polizia
di Eda Su Neidik (l’Unità, 06.06.2013) *
Quello che è più strano è vedere le strade della tua città, quelle che attraversi tutti i giorni, magari di fretta, come un contesto di guerra. Perché per le strade di Istanbul oggi si respira un clima di guerra civile.
Mentre scrivo siamo all’ottavo giorno di protesta in Turchia e gli scontri si sono estesi in quasi tutte le maggiori città. Tutto è nato per non permettere al governo di distruggere Gezi Parki, il parco di piazza Taksim. Eravamo contrari all’ennesima speculazione edilizia e l’abbiamo detto manifestando pacificamente.
Giovedì scorso, il 30 maggio, il parco era talmente animato da sembrare una festa. Il clima era sereno, tanto che quella sera la polizia, pur presente, non ha effettuato alcun intervento. La notte sono tornata a casa a dormire. Ma altri sono rimasti a Gezi Parki, riposandosi nelle tende e nei sacchi a pelo.
Alle cinque del mattino la polizia ha iniziato la sua offensiva. La voce si è diffusa velocemente. Un fiume di persone, fra cui io, ha invaso le strade della città, come un unico corpo che si è diretto verso Piazza Taksim. Ma non siamo riusciti ad entrare.
All’ingresso c’erano infatti una decina di Toma e Panzer, pronti a chiudere ogni accesso. In sottofondo si sentivano arrivare dalla piazza i rumori degli scontri. Con una amica abbiamo provato ad aggirare il blocco, dirigendoci verso le strade intorno. Ma la polizia, per tenere lontano le persone, sparava su chiunque passasse i gas urticanti.
Quando siamo arrivati a Çihangir una piazza vicina a Taskim avevamo gli occhi bruciati e pieni di lacrime. Lo spettacolo che ci si è presentato davanti era impressionante. I manifestanti cercavano di proteggersi dai gas con maschere occasionali. In molti venivano portati all’ospedale perché colpiti alla testa dalle bombe. E la polizia entrava nei vicoli intorno alla piazza per scovare chi aveva trovato rifugio.
I FERITI E GLI ELICOTTERI
Nel tardo pomeriggio la piazza era ancora piena di persone. Mentre stavamo cercando di medicare alcuni feriti, abbiamo sentito il rumore degli elicotteri. In un attimo mi sono trovata accecata da altre bombe al gas. Con gli occhi in fiamme mi sono messa a correre senza capire dove stavo andavo. Un medico sceso in strada mi ha raccolto e mi ha portato a casa sua, poco lontano da lì. Ma l’aiuto arrivava un po’ da tutti: ai bar, dalle farmacie, dai semplici cittadini.
La notte sembrava aver riportato la calma, ma era un’illusione. Al mattino i rumori sono ripresi. Rumori di stoviglie che venivano sbattute dalle persone nelle case. Un segnale per far capire che la protesta non era ancora finita.
La polizia ha attaccato nuovamente verso le otto del mattino. Le strade, a quel punto, erano devastate. Sono riuscita a tornare a casa, esausta, verso le nove e mezza della mattina. In piazza Taksim gli scontri sono continuati fino alle quindici.
Quando la stampa internazionale ha iniziato a raccontare quello che stava accadendo in Turchia, la polizia si è ritirata dalla piazza permettendo alla gente di protestare. Ma la tregua però è durata poco. Arrivata la notte la polizia è tornata ad attaccare i manifestanti a Besiktas. In piazza Taksim, invece, quella notte è passata in tranquillità. Una calma che è servita per riunire medicine, maschere antigas, limone, balsami, talcit e tutto quanto poteva essere utile.
In questi giorni, in cui momenti di calma e di tensione si sono alternati, Gezi Parki non è mai stato vuoto, ne lo è in questo momento. Mai mi è capito di vedere una tale solidarietà tra gli uomini, un aiuto reciproco che ha coinvolto ognuno. In tanti fanno i turni per stare in prima linea e permettere ad ognuno di non sfiancarsi. Non riesco a descrivervi l’orrore che ho visto e quanto questo mi è rimasto impresso nella mente.
Ieri sera, come ogni sera dopo il tramonto, la polizia ha ripreso a cospargere i manifestanti di sostanze. Questa volta era «agent orange», il diserbante che gli statunitensi usavano in Vietnam e che ha gravi effetti su chi lo subisce. A Dolmabahçe molti cittadini hanno ricominciato ad usare le stoviglie per fare rumore dalla finestra e la reazione della polizia si è intensificata. Hanno arrestato molta gente e ieri sera a Hatay un ragazzo di 22 anni è morto.
USANO IL GAS DISERBANTE
Nonostante la repressione a Izmir, Ankara, Hatay, Bodrum ed in molte altre città, la protesta continua. Finalmente anche la stampa ha cominciato ad avere meno paura di raccontare cosa sta accadendo, anche se inizialmente solo due TV Halk tv e Ulusal tv hanno divulgato la protesta. Una protesta che è nata per proteggere un parco e che ora vuole difendere il proprio popolo dall’intolleranza e dalla violenza che ogni giorno il governo usa contro i propri cittadini.
*Pittrice. Nata in Francia da genitori turchi, ha studiato arte a La Sorbona e allo Ied di Madrid. Vive a Istanbul
Il Nobel Pamuk si schiera con la rivolta di piazza Taksim: deriva autoritaria del regime
L’albero dei ragazzi di Istanbul
L’intervento dello scrittore premio Nobel Orhan Pamuk
Sto con i ragazzi che combattono
di Orhan Pamuk (la Repubblica, 06.06.2013)
Il rapporto più recente sui diritti umani nel nostro Paese è il peggiore degli ultimi dieci anni. Mi riempie tuttavia di speranza e di fiducia vedere che la mia gente non rinuncerà alle manifestazioni pubbliche né a lottare per difendere il rispetto della propria libertà
PER dare un senso agli eventi di Istanbul, e per capire quei coraggiosi che scendono in strada e si scontrano con la polizia soffocando tra i fumi velenosi dei gas lacrimogeni, vorrei cominciare con una storia personale.
Nel mio libro di memorie Istanbul, ho scritto su come tutta la mia famiglia abitasse negli appartamenti che componevano il palazzo Pamuk a Nisantasi. Di fronte a questo edificio si trovava un castagno che aveva circa cinquant’anni, che per fortuna è ancora lì.
Un giorno, però, nel 1957, il comune decise di tagliare quell’albero per allargare la strada. Burocrati presuntuosi e amministratori autoritari ignoravano l’opposizione del quartiere. Così, il giorno in cui l’albero doveva essere abbattuto, mio zio, mio padre, e tutta la famiglia rimasero in strada giorno e notte, facendo a turno per fare la guardia. In questo modo, abbiamo protetto il nostro albero, ma abbiamo anche creato una memoria condivisa che l’intera famiglia ricorda ancora con piacere, e che ci lega l’un l’altro.
Oggi, piazza Taksim è il castagno di Istanbul e deve continuare a esserlo. Ho vissuto a Istanbul per sessant’anni e non riesco a immaginare che possa esistere una sola persona che viva in questa città e non abbia almeno un ricordo legato in qualche modo a piazza Taksim.
Negli anni Trenta, nella vecchia caserma di artiglieria che ora vogliono trasformare in un centro commerciale, c’era un piccolo stadio di calcio che ospitava delle gare ufficiali. Il famoso Gazino di Taksim, che fu il centro della vita notturna di Istanbul per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta, sorgeva un tempo in un angolo del parco Gezi. In seguito, tutti quegli edifici vennero abbattuti, gli alberi furono tagliati, piantarono nuovi alberi, e lungo un lato del parco costruirono una serie di negozi e la più famosa galleria d’arte di Istanbul.
Negli anni Sessanta, sognavo di diventare pittore e di poter esporre le mie opere in questa galleria. Negli anni Settanta, la piazza fu sede delle entusiastiche celebrazioni dei sindacati di sinistra e delle Ong per il Primo Maggio e, una volta, partecipai anch’io a una di queste celebrazioni. (Nel 1977, quarantadue persone furono uccise in un’esplosione di violenza provocata e nel caos che ne seguì).
Da giovane, assistevo con curiosità e con piacere alle manifestazioni che tutti i partiti politici - partiti di destra e di sinistra, nazionalisti, conservatori, socialisti, socialdemocratici - tenevano a Taksim.
Quest’anno, il governo ha vietato di celebrare in questa piazza la Festa del Lavoro. E in quanto alla caserma che avrebbe dovuto essere ricostruita, a Istanbul tutti sanno che alla fine ci costruiranno un altro centro commerciale al posto dell’ultimo spazio verde rimasto nel centro della città.
Il fatto che dei cambiamenti così significativi, in una piazza e in un parco che custodiscono i ricordi di milioni di persone, siano stati progettati e messi in atto, per quanto riguarda la fase dell’abbattimento degli alberi, senza prima consultare gli abitanti di Istanbul, è stato un grave errore per il governo di Erdogan.
Questo atteggiamento insensibile è chiaramente dovuto a una crescente deriva del governo verso l’autoritarismo. (L’ultimo rapporto sui diritti umani in Turchia è il peggiore degli ultimi dieci anni). Mi riempie, tuttavia, di speranza e di fiducia vedere che la gente di Istanbul non rinuncerà né al suo diritto di tenere manifestazioni politiche in piazza Taksim, né ai suoi ricordi, senza combattere. (Traduzione di Luis E. Moriones)
La sharia soft che terrorizza la Turchia laica
Non sono solo i faraonici progetti urbanistici
Dietro alle manifestazioni, il timore che l’islam moderato sia solo una facciata
di U.D.G. (l’Unità, 04.06.2013)
Giovani delle periferie e studenti universitari. Ultras di calcio e attivisti di ong. Percorsi diversi, ma con un con un denominatore comune: il rifiuto di un potere che sentono autoritario e invadente nelle loro vite. In questo i giovani turchi di Piazza Taksim assomigliano tanto ai loro coetanei egiziani di Piazza Tahrir e ai giovani tunisini in prima fila nella «rivoluzione jasmine». In un mondo globalizzato, i giovani di Piazza Taksim pretendono una globalizzazione dei diritti. E non accettano compromessi. Questa rivolta consiste nella lotta contro le politiche del governo, nella paura che si possa andare alla deriva verso una Repubblica Islamica, nella perdita delle libertà di cui l’attuale Costituzione, frutto di una guerra di liberazione, è diretta emanazione e garanzia.
L’Ataturk Cultural Center, anch’esso in Taksim Square, dev’essere demolito, annuncia il premier Erdogan. Il messaggio è chiaro a tutti: Ataturk è stato il fondatore della Repubblica e, nonostante la sua figura sia controversa, rimane il simbolo di una Turchia che guarda a Occidente, ispirata da valori democratici.
Gli oppositori poi accusano l’Akp, il partito di Erdogan, di essere troppo vicino a una classe di imprenditori che ha trovato fortuna parallelamente all’ascesa del partito islamista: quella dei costruttori. Gezi Park è al centro di un’ennesima speculazione immobiliare a Istanbul: al suo posto è prevista la costruzione di un nuovo centro commerciale. Per non parlare della maxi moschea, che sorgerà su una collina che sovrasta la parte asiatica di Istanbul e getterà la sua ombra sui gioielli dell’architettura religiosa ottomana in città.
Ma non è che il minore dei progetti faraonici promossi dall’ex sindaco Erdogan per la città sul Bosforo, dopo il terzo aeroporto, che dovrebbe accogliere 150 milioni di passeggeri l’anno, il terzo ponte sul Bosforo, che sorgerà in un’area poco abitata, passibile di nuova forte urbanizzazione, e il canale parallelo allo stretto, destinato ad alleggerire il traffico delle petroliere in città.
GAMBE IN MOSTRA
Non è solo questo. È anche il crescente martellamento contro i capisaldi di una società laica: nel 2004 l’Akp ha tentato invano di far approvare una norma che qualifica l’adulterio come reato, lo scorso anno Erdogan ha provocato l’indignazione dei gruppi femminili, definendo l’aborto un delitto, e della società civile varando una riforma della scuola che riporta in primo piano le scuole religiose, per l’educazione di future «generazioni devote». I giovani di Piazza Taksim temono che Istanbul si trasformi in una nuova Qom. La provocazione di confrontare la Turchia con l’Iran non è esagerata.
Nella Turchia di Erdogan è stato proibito l’alcol, censurato internet. Vietato persino il rossetto rosso per le hostess della Turkish Airlines. Alla protesta contro la distruzione del parco di Istanbul si è unita la protesta delle birre e quella del bacio. Il 24 maggio il Parlamento turco ha approvato una legge che proibisce la vendita di alcol tra le 22 e le 6 del mattino, vieta le pubblicità di bevande alcoliche e impedisce a nuovi negozi, bar e ristoranti che vendono alcolici di aprire nel raggio di 100 metri da scuole e moschee.
Le bevande alcoliche sono state bandite anche dalle pubblicità e da film e telefilm. Il quotidiano laico Milliyet ha parlato del tentativo di introduzione di una sharia (legge islamica) moderata In risposta alle politiche del governo, molti giovani hanno sfidato le autorità e hanno sfilato con bottiglie di birra in mano, che hanno poi depositato lungo le strade. Anche i tentativi di limitare comportamenti considerati moralmente inaccettabili, come il divieto mostrare le gambe femminili nelle pubblicità o di baciarsi nell’area della metropolitana di Ankara, sono stati accolti dai manifestanti come il segno di una svolta fortemente conservatrice, di impronta islamica. Contro cui ribellarsi.
Occupy Taksim e la rabbia di Erdogan
La piazza di Istanbul resiste alla polizia
Almeno due vittime negli scontri
Usa e Ue criticano la strategia del premier turco
di Roberta Zunini (il Fatto, 04.06.2013)
E ora, con i corpi delle prime due vittime ancora caldi - si tratta di due ventenni, uno ucciso da un colpo d’arma da fuoco alla testa, l’altro travolto da un auto mentre tentava di scappare dalle manganellate dei poliziotti - e nuovi scontri in piazza Taksim ma anche nella capitale Ankara dove gli agenti si sono esibiti in performance di una violenza inaudita, arriva il turno dei rettori universitari.
SENZA PIÙ alcun tentativo di nascondere la sua personalità illiberale, ispirata dal micidiale mix “islam e affari”, il premier turco Erdogan, uno dei pochi “statisti” internazionali a essere rimasto amico di B., si è scagliato pubblicamente contro presidi e rettori degli atenei pubblici laici, rei di aver sospeso le sessioni di esami per dare la possibilità agli studenti di continuare a esercitare il loro diritto costituzionale di manifestare nelle strade del paese.
Prima di partire per il suo tour lampo nei paesi nordafricani (la cui popolazione araba condivide con i turchi la confessione islamica-sunnita), il premier, durante un intervento tv, ha esplicitamente puntato il dito contro Umran Inan, rettore dell’università Koc di Istanbul. Erdogan ha accusato il rettore “di incentivare i giovani a partecipare alle proteste” e ha ribaltato sull’ateneo le accuse che gli vengono rivolte in questi giorni dagli ambientalisti, affermando che per la costruzione della sua sede sono stati distrutti ettari di foresta. La Koc non è l’unica università ad aver preso posizione.
Nel frattempo le immagini - po-state via internet sul sito di “OccupyGezi” - dei pestaggi e dell’atteggiamento criminale dei poliziotti, filmati di nascosto con un cellulare mentre sparano contro la finestra di un’abitazione o picchiano persone ignare che ammirano le rive del Bosforo, hanno impressionato anche molte star americane, a partire da Madonna. Che ha messo sulla sua pagina Facebook, attraverso Istagram, una foto degli scontri con il commento: “Al via la Rivoluzione dell’Amore! Tolleranza=dignità umana e rispetto”.
Anche il famoso regista turco naturalizzato italiano, Ferzan Ozpetek, che sta seguendo tutte le fasi della rivolta nonostante sia molto impegnato sul set del suo nuovo film, ha mandato numerosi tweet, poi ripresi anche da Sabina Guzzanti, Sandro Veronesi e altri nomi noti, in cui denuncia la censura operata dai media. La maggior parte dei giornali e delle tv turchi è alle dipendenze dirette del governo o è filo-governativa.
MA ANCHE i canali all news, apparentemente indipendenti, hanno censurato le manifestazioni mostrando poche immagini e solo di manifestanti incappucciati. Le violenze perpetrate dalla polizia non sono state mandate in onda. Come è avvenuto durante le manifestazioni in piazza Tahrir in Egitto o lungo viale Bourguiba a Tunisi o a Misurata durante la rivoluzione contro Gheddafi, sono i social network, come facebook e twitter a raccontare tutte le fasi della protesta.
Per questo Erdogan si è scagliato contro questi nuovi mezzi di comunicazione difficilmente controllabili. Nel tentativo di mediare tra opposizione laica e il premier, leader del partito islamico moderato, è sceso in campo il presidente della Repubblica, Abdullah Gul, che ha incontrato il segretario del principale partito di opposizione, Partito repubblicano popolare (Chp), Kemal Kilicdaroglu, dichiarando che “democrazia non significa solo elezioni libere”. Parole che non hanno tranquillizzato né l’Europa né la Casa Bianca. La comunità internazionale ha criticato “ la reazione sproporzionata delle forze dell’ordine turche” e la Casa Bianca ha sottolineato che le manifestazioni pacifiche sono vitali per la democrazia.
L’oppositore
“Dalla censura alla repressione”
di Rob. Zun. (il Fatto, 04.06.2013)
È una delle figure più scomode e perseguitate dal premier turco Erdogan, che nella seconda legislatura ha accelerato i suoi obiettivi nazionalisti-religiosi-affaristici per rendere il paese la potenza sunnita egemone in tutti i settori della società mediorientale, soprattutto a scapito della libertà di espressione.
Yildirim Turker è uno dei più noti giornalisti indipendenti finiti sotto processo più volte con l’accusa di “aver offeso l’identità turca, di aver insultato l’esercito e lo Stato”. Amico di Hrat Dink, il giornalista turco-armeno assassinato da un gruppo della destra nazionalista, Turker non si è mai piegato ai voleri del potere, da chiunque fosse rappresentato, e per questo ha pagato e sta pagando, assieme a decine di altri giornalisti e oppositori politici, la sua scelta di tenere la schiena dritta e di fare davvero il proprio mestiere: essere cioè “il cane da guardia del potere”, definizione coniata dal giornalismo anglosassone e sempre meno di moda ovunque, ma soprattutto nella Turchia di oggi. Nazione definita dalle organizzazioni non governative internazionali come Amnesty, la più grande prigione a cielo aperto per i giornalisti dopo la Cina.
“ Ho lavorato per 16 anni al giornale Radikal ma dopo aver scritto un’inchiesta su Erdogan, che venne censurata, fui costretto a lasciare la redazione. Da quel momento sono entrato e uscito da una lunga serie di processi”.
Turker è stato quasi sempre assolto ma la sua vita professionale ne ha risentito.
“Anche perché Erdogan ha comprato praticamente tutti i mezzi di comunicazione, carta stampata e tv. Dal momento che la maggior parte dei magnati dei media hanno progetti estremamente ambiziosi anche in altri ambiti industriali, come la costruzione di autostrade per esempio, hanno bisogno del sostegno della politica per realizzarli e dunque preferiscono licenziare i reporter che scrivono delle collusioni e corruzione”.
Secondo Turker, nemmeno durante il potere della giunta militare la stampa è stata così arrendevole. Quello che sta succedendo oggi in Turchia è la prima reazione dell’opinione pubblica dopo almeno un decennio di narcosi dovuta anche a una stampa servile.
“Questo sconvolgimento non è certo scoppiato solo per difendere un parco.
“Erdogan sta facendo piazza pulita delle libertà civili: il 24 maggio ha imposto una legge che vieta la vendita di alcolici, li bandisce dalle pubblicità e dai film. Non vuole che le hostess mettano il rossetto e i ragazzi si bacino in pubblico. Ma soprattutto sta cercando di mettere fuori legge conquiste come l’aborto e la libertà di non fare figli anche se si è sposati”.
La società laica turca è ancora troppo vigorosa per accettare che il velo venga imposto a poco a poco nelle università, tempio laico degli eredi kemalisti.
“Non credo che le folle andranno a casa in un paio di giorni. Tutti i cittadini scesi in piazza continueranno a gridare per settimane: ’Taksim è nostra, questa città è nostra. Anche se di certo Erdogan non smusserà la sua estenuante arroganza”. E se non farà più manganellare pubblicamente i manifestanti, continuerà in privato a mandare i suoi agenti a tacitare chi denuncia gli abusi di potere, suoi e di una classe imprenditorial-giornalistica corrotta.
L’analista turco Cagaptay: il benessere non basta
intervista di Maurizio Molinari (La Stampa, 04.06.2013)
«La classe media si rivolta contro il premier Recep Tayyip Erdogan, che è vittima del proprio successo politico»: con questo paradosso il politologo Soner Cagaptay, titolare degli studi sulla Turchia al Washington Istitute e apprezzato analista nei talk show televisivi, interpreta la crisi in atto.
Da dove nascono le proteste?
«Nell’ultimo decennio le politiche economiche dell’Akp, il partito di Erdogan, hanno trasformato la Turchia in una società dove la classe media è diventata maggioranza. Si è alzato il tenore di vita, la povertà è stata arginata, c’è stata crescita economica. Ma adesso tale classe media chiede il rispetto dei diritti individuali, pone al partito al governo la questione di come definire la democrazia».
Perché la rivendicazione di tali diritti emerge adesso?
«Il partito Akp ha varato di recente leggi sulla limitazione della vendita dell’alcol e sulla trasformazione del parco centrale di Istanbul in un centro commerciale che hanno trovato una forte opposizione popolare. Erdogan ha deciso comunque di andare avanti e la percezione della popolazione è stata una voluta carenza di rispetto per i diritti dei singoli cittadini».
Quale può essere l’impatto delle proteste?
«La repressione del sit-in di Istanbul ha portato nel mezzo della notte decine di migliaia di persone a scendere nelle strade e ciò suggerisce che assistiamo alla nascita di una nuova Turchia».
Di che nazione si tratta?
«È una nazione composta da una classe media che crede nei diritti degli individui e dove le élites sono democratiche nel senso che credono in governi legittimati dal voto popolare. Ciò che più conta è che la classe media costruita dall’Akp sta dicendo al partito di governo che democrazia non significa solo vincere le elezioni ma costruire consenso popolare e dunque ascoltare i cittadini, senza forzarli a ingoiare qualsiasi decisione adottata dall’alto. Questo significa che in Turchia la base popolare della democrazia si sta rafforzando».
La Casa Bianca ha chiesto ad Ankara di «contenere l’uso della forza» e «rispettare i diritti dei manifestanti». C’è una crepa nei rapporti finora solidi di Obama con Erdogan?
«Lunedì si sarebbe dovuta svolgere la conferenza del Consiglio AmericaTurchia, uno dei maggiori eventi annuali bilaterali, ma la partecipazione dei ministri turchi all’ultimo minuto è stata cancellata. Ciò lascia intendere che il governo Erdogan ha dei problemi seri di immagine con Washington in questo momento. Credo sia il momento più delicato nei rapporti bilaterali da quando il partito di Erdogan arrivò al governo, nel 2003».
«Non è una rivoluzione, siamo una democrazia»
La scrittrice Shafak: «Questo è un Paese con una lunga tradizione di modernità»
di Mo. Ri. Sar. (Corriere della Sera, 04.06.2013)
ISTANBUL - Nel 2010 aveva votato sì al referendum sulla riforma costituzionale voluta da Erdogan, convinta che «il Paese non si stesse affatto islamizzando» e che non ci fosse alcun rischio per la democrazia. Ma oggi Elif Shafak, la scrittrice turca che in Italia è diventata famosa con La bastarda di Istanbul, ammette l’esistenza di «tendenze autoritarie che hanno creato una grande tensione nel Paese». «Sono molto demoralizzata per quello che sta accadendo - dice in un’intervista al Corriere - il comportamento della polizia mi ha molto rattristato». Tuttavia Shafak rimane convinta che questa non sia una rivoluzione: «La Turchia - spiega - è molto diversa da altri Paesi musulmani perché è una democrazia e un Paese secolare, con una lunga tradizione di modernità e occidentalizzazione. Però lo ammetto: questa non è una democrazia matura».
Cosa le manca?
«Abbiamo bisogno di maggior libertà di espressione, i giornali devono poter dire quello che pensano e vanno dati più diritti alle minoranze e alle donne».
Erdogan si professa un sincero democratico e un difensore dello Stato secolare ma alcune decisioni, come la legge sull’alcol, sembrano andare in un’altra direzione.
«Anche i conservatori, quelli che magari non bevono mai, sono preoccupati da questo giro di vite. Il primo ministro addirittura equipara l’alcolismo al consumo occasionale ma così la gente si offende. Moltissimi turchi bevono ogni tanto e non si sentono per nulla alcolizzati, le sfumature sono importanti».
Una parte dell’elettorato sta voltando le spalle al premier?
«Anni fa Erdogan era molto più costruttivo e tollerante. Diceva che sarebbe stato il primo ministro di tutti, anche di quelli che non l’avevano votato. Ora invece sta proteggendo solo quella parte della popolazione che la pensa come lui. Il resto della società, più o meno il 50%, si sente alienato, distante».
L’esempio del velo è emblematico. Il governo ha fatto cadere il divieto a indossarlo nelle università ma ora si ha la sensazione che coprirsi il capo diventi quasi un obbligo. Lo stesso vale per i baci e le effusioni proibite in pubblico. Cosa ne pensa?
«Io appoggio i diritti degli individui senza discriminazioni. Per questo ero contraria a vietare il velo nelle università perché impediva a tante giovani donne di avere un’educazione. Allo stesso modo non vedo perché nella metro di Ankara non ci si possa baciare in pubblico. Lo Stato non può interferire nello stile di vita delle persone. Se difendiamo la democrazia solo quando le persone la pensano come noi allora non siamo democratici».
La protesta è iniziata per difendere piazza Taksim, un simbolo della Turchia laica. Costruire una moschea dove c’è il monumento ad Atatürk non le sembra un affronto?
«Tutto è iniziato con un sit-in pacifico in piazza Taksim, forse non sarebbe successo nulla se la polizia non avesse usato un atteggiamento così violento. È stata quella la miccia che ha innescato la rivolta. Quando vedi le immagini di un blindato che getta acqua e spara lacrimogeni su persone inermi ti sale un moto di sdegno. Molta gente è scesa in strada dopo le violenze. Questo non è un movimento kemalista, questa è la reazione agli errori del governo e delle forze dell’ordine. I manifestanti vengono dagli ambienti più diversi, a muoverli sono il risentimento e la rabbia accumulati in questi anni».
Turchia, terza vittima tra i manifestanti.
E il governo fa autocritica
Il vice di Erdogan: "Le democrazie non esistono senza l’opposizione. Non vogliamo imporre l’Islam". Si appesantisce il bilancio delle violenze: morto un giovane militante del Chp ad Antiochia. Centinaia di persone nel centro di Ankara, tensione nella capitale. La Bonino: "Violenze inaccettabili" *
ANKARA - In Turchia il governo ora prova a placare i manifestanti, dopo aver esibito i muscoli di fronte alle proteste di piazza a Istanbul e nel resto del Paese. "Il governo ha imparato la lezione", ha assicurato il vicepremier Bulent Arinc in una conferenza stampa, "non abbiamo il diritto e non possiamo permetterci di ignorare la gente. Le democrazie non possono esistere senza l’opposizione". Arinc si è scusato a nome dell’esecutivo "con quanti hanno subito violenze a causa della loro sensibilità per l’ambiente", in pratica coloro che sono scesi in piazza per salvare il parco Gezi e non con finalità politiche.
L’intervento del vice del premier Recep Tayyp Erdogan, impegnato in un tour nordafricano, è giunto mentre arrivava la notizia del terzo manifestante morto e mentre partiva lo sciopero di 48 ore proclamato dal sindacati dei lavoratori del pubblico impiego Kesk, sigla di sinistra con 240.000 iscritti. Arinc ha ammesso che le proteste contro il governo sono "legittime e giuste" ma ha lanciato un appello a far cessare le manifestazioni. "Ci aspettiamo che tutti i sindacati, i partiti politici e chiunque ami e abbia a cuore la Turchia interrompa le proteste oggi stesso". Poi ha assicurato che l’esecutivo non vuole imporre un pensiero unico ispirato all’Islam: "Il nostro governo rispetta ed è sensibile a tutti gli stili di vita".
La terza vittima tra i manifestanti è un attivista dell’opposizione di 22 anni deceduto nella notte in ospedale dopo esser stato ferito alla testa ad Antakya, vicino al confine con la Siria. Secondo testimoni lo sparo sarebbe partito da un blindato della polizia. In precedenza aveva perso la vita un manifestante investito da un taxi a Istanbul e un altro centrato da un proiettile ad Ankara era stata dichiarata "la morte cerebrale". Secondo il governo, la rivolta ha fatto 160 feriti tra i poliziotti e 60 tra i civili, ma per l’associazione dei medici turchi i feriti sono 2.500 soltanto tra Istanbul e Ankara.
Il ministro degli Esteri, Emma Bonino, ha espresso "forte apprensione" per la situazione in Turchia, sottolineando come "l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia" non possa essere "una risposta accettabile alle proteste". Tuttavia ha assicurato che "l’Italia continua a credere fermamente nella prospettiva europea della Turchia e nel suo ruolo di fondamentale fattore di stabilità e di sicurezza su scala regionale. Un ruolo ribadito dalla Commissione europea che entro fine giugno ha confermato di voler aprire un nuovo completo del negoziato di adesione.
Generazione Taksim, più forti della politica
La protesta di Istambul ha unito la società civile come l’opposizione non era mai riuscita a fare
di Lorenzo Mazzoni (il Fatto, 05.06.2013)
Istanbul Anche ieri a piazza Taksim è tutto molto tranquillo, c’è un clima sereno e di festa. Si discute, si chiacchiera, vengono distribuiti volantini. A Gezi Parki, cuore pulsante della rivolta, le persone stanno sedute sul prato, c’è chi fa ginnastica, chi suona. Ci sono i venditori ambulanti di mascherine antigas e di occhialini per proteggersi da eventuali nuovi attacchi della polizia, ci sono i venditori di acqua, quelli che vendono le bandiere con l’effige nazionale, o con il volto di Atatürk, il padre della patria. Sui gradini dell’Akm, il teatro che da anni la municipalità promette di restaurare e che è ancora in disuso, è stato allestito una specie di supermarket all’aperto dove viene raccolto il cibo poi distribuito gratuitamente.
I VOLONTARI del comitato Taksim Platformu raccolgono rifiuti, con fare certosino cercano di prendere anche le centinaia di mozziconi di sigaretta incastrati fra i sampietrini della piazza. Taksim è chiusa da barricate rudimentali costruite con travi di legno e tubi di ferro presi dal cantiere abbandonato dopo l’inizio della protesta. Qualcuno raccoglie i sassi e li mette in sacchetti della spazzatura per non dare pretesto ai violenti di poter fomentare il disordine, anche se, il disordine, in questi giorni, è stata una prerogativa dei poliziotti che anche ieri sera hanno fatto il solito carosello di cariche e lacrimogeni a Gümüssuyu. La polizia ha avuto l’ordine di attaccare i manifestanti in caso di provocazione, ma dato che i ragazzi di Taksim Platformu si stanno dimostrando pacifici, sono stati infiltrati dei provocatori, presenti soprattutto a Besiktas, per fomentare la risposta poliziesca e dare addito alla violenza indiscriminata.
Ma chi sono queste migliaia di persone che continuano a occupare la piazza? Nonostante siano presenti tutte le sigle dell’opposizione, dai maoisti dell’Hkp, al Partito dei Lavoratori, ai vari partiti comunisti, socialisti, dalle associazioni degli studenti, ai sindacati, dagli islamici anticapitalisti, al Bdp, che rappresenta il Pkk curdo in Parlamento, la protesta non si può definire politicizzata, o non solo.
È una protesta trasversale, perché a Gezi Parki ci sono soprattutto i cittadini, la società civile, che è cambiata molto rapidamente. Il capo del partito kemalista, Chp, Kemal Kiliçdaroglu, ha dichiarato: “Questa è una generazione nuova ed è diversa dalla nostra. I loro metodi sono diversi e noi dobbiamo provare a capirli. Dobbiamo cambiare le nostre politiche per avvicinarci alle loro aspettative. Le autorità dichiarano che la gente in strada viene organizzata dal nostro partito. No, non è vero. Lo dicono solo perché non riescono a capire”. Eloquenti anche le parole del ministro della Pubblica Istruzione, Nabi Avci: “Abbiamo fatto qualcosa di incredibile, qualcosa che i partiti di opposizione non erano mai riusciti a fare. Li abbiamo uniti tutti”.
La gente continua a riversarsi, come ogni sera, verso Taksim. I leader del movimento hanno annunciato ufficialmente che la protesta, da ieri, è diventata una festa, e fra cori e canti i manifestanti regalano fiori ai poliziotti. Oggi una delegazione di Taksim Platformu incontrerà il vice-presidente del consiglio, Bülent Arinç. Tra le richieste, oltre a fermare i lavori di rimozione del parco, ci sono le dimissioni del prefetto, il processo ai poliziotti per le violenze e la liberazione immediata per gli arrestati.
La strategia di Erdogan per mettere fuori gioco l’esercito
Il premier ha screditato le forze armate, garanti della laicità
di Roberta Zunini (il Fatto, 05.06.2013)
Come fecero gli egiziani durante le prime fasi della rivoluzione contro Mubarak, anche i giovani turchi di “OccupyGezi park” si stanno domandando attraverso tweet incrociati e messaggi postati su Facebook perché l’esercito abbia assistito in silenzio alle brutalità dei poliziotti. E i vertici delle forze armate non abbiano emesso nemmeno un comunicato su quanto accaduto. “Dove sono i militari? ” chiede con un breve tweet Bulent. “Perchè l’esercito non interviene in difesa del suo popolo”, ritwittava ieri alle 16:26 @SimonekeNaomo. “Lasci perdere le bombe e finalmente appoggi il popolo”, aggiunge sarcastico e provocatorio @Freiravmpazer. Sì certo, le bombe. Numerosi generali, ufficiali e sottufficiali, si trovano in carcere da mesi e mesi in attesa di vedere istruiti i processi di primo grado o d’appello - il cosiddetto “affaire Ergenekon” - in cui dovranno rispondere dell’accusa di stragismo ed eversione nei confronti della Repubblica. Di cui sarebbero i garanti dalla sua fondazione quando Kemal Ataturk, il padre fondatore della Turchia moderna, diede all’esercito il compito di difendere la Repubblica e la sua laicità.
L“AFFAIRE ERGENEKON”, scoppiato durante la prima legislatura del premier Erdogan, è tuttora in corso. Nel senso che ogni settimana qualcuno finisce in carcere per avervi preso parte. Ma secondo i giornalisti indipendenti, pochi e quasi tutti in carcere con l’accusa, questa volta, di “vilipendio della Nazione” - in realtà per aver criticato Erdogan e il suo vasto entourage che influenza tutte le categorie sociali - ritengono che i militari, gli agenti dell’intelligence, gli intellettuali e imprenditori sotto accusa, sarebbero degli oppositori del premier che sta portando la Turchia nel solco delle dittature soft islamiche.
Come quello egiziano, anche se per ragioni storiche ben diverse, l’esercito della Repubblica turca avrebbe dovuto e dovrebbe inoltre garantire l’indipendenza dei poteri dello Stato. Non sempre è stato così però durante la storia della Turchia kemalista. “I militari hanno anche abusato a lungo del loro potere e molte tra le persone scese in strada in questi giorni per manifestare e che ora chiedono il loro intervento, fino a qualche settimana fa vedevano ancora di buon occhio le inchieste e le carcerazioni di alcuni di loro, anche se con accuse create ad arte dai magistrati corrotti dal premier”, dice al Fatto un giornalista che vuole rimanere anonimo. Il problema è che l’esercito è stato zittito da anni di lavorio incessante da parte del partito islamico moderato di Erdogan, che è riuscito a mettergli il collare.
Le democrazie islamiche e i ribelli di Istanbul
di Ian Buruma (la Repubblica, 05.06.2013)
Le dimostrazioni antigovernative in corso nelle città turche potrebbero essere interpretate come un’imponente protesta contro l’islam politico. Quella che era partita come una manifestazione contro la proposta, appoggiata dallo Stato, di radere al suolo un piccolo parco nel cuore di Istanbul per far posto a un centro commerciale di dubbio gusto, si è rapidamente trasformata in uno scontro di valori. La disputa sembra apparentemente riflettere due concezioni diverse e opposte della Turchia moderna: secolare e religiosa, democratica e autoritaria. Si sono fatti paragoni con “Occupy Wall Street”; si parla addirittura di una “primavera turca”. È evidente che molti turchi, soprattutto nelle grandi città, sono stanchi dello stile vieppiù autoritario del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, del pugno d’acciaio con cui controlla la stampa, delle restrizioni al consumo di alcol, del suo vezzo di erigere nuove, grandiose moschee e di arrestare i dissidenti politici.
E adesso della sua violenta risposta ai manifestanti. La gente teme che alle leggi secolari possa sostituirsi la shari’a, e che le conquiste dello Stato secolare di Kemal Atatürk vengano sacrificate all’islamismo. C’è poi la questione degli aleviti: una minoranza religiosa legata al sufismo e allo sciismo. Gli aleviti, che lo Stato secolare kemalista tutelava, nutrono una profonda diffidenza nei confronti di Erdogan il quale se li è ulteriormente inimicati decidendo di intitolare un nuovo ponte sul Bosforo a un sultano del XVI secolo che massacrò il loro popolo.
All’apparenza, al cuore della questione turca vi sarebbe la religione. L’islam politico è considerato dai suoi oppositori come intrinsecamente antidemocratico. Naturalmente, però, la faccenda non è così semplice. Lo Stato secolare kemalista non era infatti meno autoritario del regime islamista populista di Erdogan. Tutt’al più è vero il contrario. Ed è inoltre significativo il fatto che le prime proteste di piazza Taksim, a Istanbul, non siano sorte a causa di una moschea, ma di un centro commerciale. La paura della shari’a si accompagna alla rabbia suscitata dalla rapace volgarità dei costruttori e degli imprenditori sostenuti dal governo di Erdogan. La primavera turca sembra animata da sentimenti di sinistra.
Così, anziché soffermarsi sui problemi del moderno islam politico, che sono certo considerevoli, sarebbe forse più proficuo osservare i conflitti in atto in Turchia da una prospettiva diversa, e oggi decisamente fuori moda: quella legata alle classi sociali. I dimostranti, che si tratti di persone di ampie vedute o di gente di sinistra, appartengono di norma all’élite urbana, occidentalizzata, istruita e secolare. Erdogan, dal canto suo, rimane invece assai popolare nelle zone rurali e provinciali del Paese, tra i cittadini meno scolarizzati, più poveri, più conservatori e più religiosi.
A dispetto delle personali tendenze autoritarie di Erdogan, che sono certo evidenti, sarebbe fuorviante credere che le attuali proteste riflettano semplicemente il conflitto tra democrazia e autocrazia. Dopotutto, il successo di “Giustizia e Sviluppo”, il partito populista di Erdogan, così come il diffondersi sempre più capillare di consuetudini e simboli religiosi nella vita civile, non sono che il risultato della diffusione della democrazia nel Paese. Le tradizioni che lo Stato secolarista aveva abolito, come l’usanza delle donne di coprirsi il capo nei luoghi pubblici, sono riemerse perché è aumentata l’influenza esercitata dai turchi delle zone rurali. Le giovani donne religiose oggi frequentano gli atenei delle città. I voti dei turchi conservatori che vivono nelle province contano.
L’alleanza tra uomini d’affari e populisti religiosi non è certo un fenomeno esclusivamente turco. Molti dei nuovi imprenditori, così come le donne che si coprono il capo, provengono dai villaggi dell’Anatolia. Sono nuovi ricchi di provincia, e nutrono nei confronti della vecchia élite di Istanbul un risentimento paragonabile all’odio che un uomo d’affari del Texas o del Kansas prova nei confronti dell’élite liberal di New York e di Washington.
Affermare che la Turchia oggi è più democratica non equivale però a dire che è anche un Paese di più ampie vedute. Questo è uno dei paradossi evidenziati dalla primavera araba. Assicurare a tutti una voce all’interno del governo è considerato essenziale in ogni democrazia. Raramente però quelle voci sono tolleranti - soprattutto in tempi di rivoluzione.
Ciò a cui assistiamo in Paesi come l’Egitto (ma anche in Turchia, e persino in Siria), è quello che il grande filosofo britannico Isaiah Berlin definiva “l’incompatibilità tra beni equivalenti”. È un errore credere che tutte le cose buone arrivino sempre contemporaneamente. Talvolta cose altrettanto buone si scontrano le une con le altre.
Ed è questo che accade durante le dolorose transizioni politiche del Medio Oriente. La democrazia è una cosa buona, così come l’ampiezza di vedute e la tolleranza. Certo: idealmente dovrebbero coincidere. Oggi però nella maggior parte del Medio Oriente non è così. Più democrazia può significare, di fatto, minore ampiezza di vedute e minore tolleranza.
È facile, ad esempio, prendere le parti dei ribelli che in Siria si oppongono alla dittatura di Bashar al-Assad. Ma quando Bashar se ne sarà andato le classi più agiate di Damasco, gli uomini e le donne in grado di apprezzare la musica e i film occidentali, che in alcuni casi appartengono alle minoranze religiose dei cristiani e degli alawiti, faranno fatica a sopravvivere. Il baathismo era oppressivo, dittatoriale e spesso violento, ma tutelava le minoranze e le élite laiche.
È forse questo un motivo per sostenere i dittatori? Solo perché tengono a bada l’islamismo? Non proprio. Poiché la violenza dell’islam politico è in gran parte il prodotto di questi regimi oppressivi. Più rimangono al potere, più le rivolte islamiste saranno violente.
Ma non è nemmeno un motivo per sostenere Erdogan e i suoi palazzinari a scapito dei dimostranti turchi. I manifestanti fanno bene ad opporsi alla sua sprezzante noncuranza dell’opinione pubblica e alla repressione che esercita sulla stampa. Ma sarebbe altrettanto sbagliato interpretare gli scontri come una lotta virtuosa contro il manifestarsi della religione. La maggiore visibilità dell’Islam è l’inevitabile conseguenza della diffusione della democrazia. Fare in modo che questa maggiore visibilità non vada a scapito della tolleranza rappresenta il compito più importante a cui i popoli del Medio Oriente devono fare fronte. Erdogan non è certo un liberale, ma la Turchia è ancora una democrazia. C’è da augurarsi che le proteste contro di lui la rendano anche più tollerante. (Traduzione di Marzia Porta)
“Noi, ragazze di piazza Taksim in giacca rossa per i nostri diritti”
Le donne protagoniste: “Vogliamo essere libere”
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 05.06.2013)
ISTANBUL - «La ragazza con la giacca rossa? Quella che resiste in piedi agli idranti della polizia turca? Tutti la cercano. Nessuno sa dov’è». A Piazza Taksim il tamtam è in atto da giorni. Non solo qui, ma sui social network, sui blog, Facebook, Twitter, tutta la galassia della comunicazione usata dai giovani che, seduti in cerchio, digitano di continuo con i polpastrelli sui loro telefonini. Ma la donna simbolo della rivolta contro il governo islamico sembra scomparsa.
Anche Sinem Babul, la fotoreporter che l’ha immortalata nell’attimo in cui la giovane si opponeva al getto d’acqua delle forze dell’ordine, la cerca. «Non credo che sia stata portata via dalla polizia - dice nella redazione di T24, il giornale online autore in questi giorni non facili di un gran lavoro di informazione sul terreno - forse è tornata a casa e non vuole farsi vedere». Eppure, a Istanbul, le sue immagini sono un po’ ovunque. La foto di lei con la sua giacca grondante d’acqua e le scarpe da tennis rosse è diventata un’icona sui manifesti, sugli sticker, pure come un fumetto. Ci sono poster, addirittura, in cui la sua figura appare ingigantita rispetto a quella degli agenti dotati di caschi e scudi. Sotto, la scritta: “Più spari, più diventa grande”.
«Questa foto incarna l’essenza della protesta - commenta Esra, che studia matematica all’università - e cioè la violenza della polizia contro manifestanti pacifici, persone che cercano di proteggere sé stesse e i valori in cui credono».
Del resto, basta guardarsi intorno, qui, e vedere quante sono le ragazze di Piazza Taksim, giovani turche belle e determinate nella difesa dei propri diritti. Indossano magliette delle marche di moda, come le loro coetanee a Parigi o Berlino. Ma dal loro colletto penzola con disinvoltura la garza con la mascherina antigas, mentre sulle spalle portano la bandiera rossa con la mezzaluna e la stella.
C’è Hasine che, come una moderna Erinni, non nega di aver lanciato, «per esasperazione» ammette, qualche pietra contro un blindato. E Secil, con una piccola fascia bianca attorno al capo, che guata con occhi feroci una foto del premier Tayyip Erdogan: «Lui dice che noi siamo dei “vandali”. Non ha proprio capito, anzi forse uscirà da questa crisi senza aver imparato nulla. Il governo non può intromettersi nella vita privata delle persone, impedendogli, come sta cercando di fare, di bere, fumare, persino di baciarsi in pubblico. Ma stiamo scherzando?».
Tutte rigorosamente non velate («ci mancherebbe pure - ironizzano, tornando subito serie - quello è un simbolo dell’Islam politico, noi siamo musulmane laiche»), ai polsi braccialetti e perline, con le loro sciarpe leggere al collo vengono da Nisantasi, Sisli, Levent, i quartieri della Istanbul bene. Lavorano come impiegate, nelle scuole, o sono iscritte all’università. Adorano i film di Nuri Bilge Ceylan, il pluripremiato regista turco, ascoltano il rock-pop dei Mor ve Otesi (i Viola e oltre), e si abbeverano ai libri di Orhan Pamuk, il premio Nobel nazionale. Rappresentano l’elite della Turchia repubblicana e moderna, come le loro colleghe scese in strada in queste giornate drammatiche a Smirne, Ankara e persino nella Cipro turca divisa a metà. Appartengono, come la ragazza con la giacca rossa, ai ranghi della borghesia più articolata, che teme di soccombere sotto l’ombra autoritaria e poco tollerante dell’invadente premier.
Erdogan è il bersaglio dei loro strali. «Ha fatto una legge per impedire l’aborto - dice Hasine, che studia chimica - Invita le famiglie a fare almeno tre figli. Si fa forte di essere stato votato dal 50 per cento degli elettori. Bene, io appartengo a quell’altro 50 per cento, la metà della popolazione per la quale lui non mostra né rispetto né considerazione, quelli che vuole stroncare. Ma io voglio avere un futuro qui, una carriera, libertà totale. Tutti concetti adesso minacciati».
Questa sera, in piazza, sotto al monumento ad Ataturk, il fondatore laico, si prepara un’altra notte di resistenza. Può fare freddo, e la polizia turca ha la mano piuttosto dura. Le ragazze si sono attrezzate. Indossano cappelli pesanti, sono vestite di nero, hanno comode scarpe da corsa. Esra torna col pensiero al poster con la ragazza che diventa un gigante. Ha un’idea: «E se domani - dice - venissimo tutte a Piazza Taksim con la giacca rossa?». E comincia subito a inviare messaggi alle amiche, ovunque, digitando con i polpastrelli sul suo cellulare.
Istanbul: all’origine c’è la «dubaizzazione» della città
di Simone d’Antonio (il manifesto, 05 Giugno 2013)
«Come spiegheremo al mondo quello che è accaduto a Istanbul? Come possiamo pretendere di voler ancora ospitare i Giochi Olimpici del 2020?». Il sindaco della capitale turca Kadir Topbas manifesta in un’intervista televisiva la preoccupazione di perdere la corsa alle Olimpiadi, considerate dal governo di Erdogan un volano per la rigenerazione di molte delle infrastrutture cittadine. Da realizzare senza alcun confronto con la cittadinanza.
Le proteste contro la cementificazione di Gezi Park, piccolo e finora sostanzialmente sconosciuto spazio verde nelle vicinanze di piazza Taksim, sono diventate il simbolo della prima, grande protesta urbana per un utilizzo partecipato degli spazi pubblici e per una maggiore partecipazione dei residenti alle grandi scelte sul futuro della città.
Le potenti trasformazioni in corso a Istanbul, che da sola concentra oltre il 25% del Pil del paese e il 15% degli abitanti della Turchia con oltre 13 milioni di residenti nell’intera area metropolitana, sono da tempo al centro di una serie di piani d’azione calati dall’alto che mirano alla «dubaizzazione» della città: puntare su centri commerciali e appartamenti di lusso per attirare i ricchi visitatori provenienti dei paesi arabi, ai danni dei quartieri popolari abitati dalle fasce più povere della popolazione.
La scarsa attenzione al dialogo con i cittadini non si manifesta solo nei progetti urbani più ambiziosi, come la costruzione del terzo ponte sul Bosforo, del nuovo aeroporto che punta a diventare tra i più grandi del mondo o della moschea gigante di Camlica, ma soprattutto nella riqualificazione di interi pezzi di città, a partire dal centralissimo distretto di Beyoglu. La gentrificazione dell’area intorno a Taksim è un processo che si aggiunge e si sovrappone alla graduale riqualificazione dei gecekondu, abitazioni costruite abusivamente di notte (come indica il loro nome) dai migranti provenienti dall’Anatolia che a partire dagli anni Cinquanta hanno così riempito le aree di vuoo urbano dal centro fino alle periferie, grazie anche a una serie di condoni e parziali regolarizzazioni dovute alla mancanza di alternative in termini di edilizia sociale.
Non sempre i vecchi residenti di queste aree degradate hanno potuto beneficiare dell’edilizia di pregio costruita al loro posto. Nei quartieri con maggiore presenza di migranti, come Sulukule che da secoli ha una forte presenza di famiglie rom, l’istituto di housing pubblico-privato Toki ha proceduto ad espropri di massa seguendo logiche prevalentemente di mercato, senza garantire reali alternative alla popolazione. Si è venuta così a realizzare una politica urbana neoliberale, che ha progressivamente smantellato le forme esistenti di welfare, creando dinamiche di esclusione sociale difficilmente modificabili.
Il quartiere di Tarlabasi è l’esempio più lampante di un’imponente riqualificazione urbana realizzata ai danni dei suoi residenti. Situato a ridosso di Beyoglu, Tarlabasi si è configurato per secoli come luogo di accoglienza e integrazione per i residenti non-musulmani, seguiti nel 20mo secolo da armeni, greci e, a partire dai primi anni Novanta, curdi. Con ben 20mila metri quadrati di territorio inseriti nel 2006 in una vasta area di rinnovamento urbano, il quartiere ha visto la progressiva demolizione degli edifici di epoca ottomana per realizzare strutture di maggiore valore immobiliare, senza alcun tipo di dialogo con la cittadinanza. Nonostante il forte senso di comunità radicato da secoli tra gli abitanti del quartiere, i cittadini non sono riusciti a far sentire la propria voce nella ricostruzione della zona, ridisegnata per accogliere nuove tipologie di residenti senza tener conto degli aspetti sociali.
«Abbiamo bisogno di un modello capace di utilizzare su più livelli l’energia della società civile e che favorisca la collaborazione delle organizzazioni non governative» ha dichiarato ad Hurriyet l’architetto Korhan Gümüs, ispiratore di numerose iniziative di pianificazione partecipata e componente della Taksim Platform che sin dall’inizio ha contestato in maniera pacifica la distruzione di Gezi Park.
Riappropriarsi di Taksim square e della aree circostanti assume un elevato valore simbolico soprattutto per l’importanza di questa piazza in termini politici e culturali, luogo simbolo di una privatizzazione selvaggia che ha colmato negli ultimi decenni un sostanziale vuoto amministrativo nella sua gestione. «La piazza è diventata uno spazio di tensione su chi sta dominando lo spazio pubblico» ha affermato Gümüs, che come molti dei manifestanti contesta la deriva autoritaria manifestata in particolare sull’area urbana da un Erdogan che sembra non aver mai dismesso i panni di sindaco di Istanbul, carica che ha rivestito dal 1994 al 1998.
«La lotta per Gezi Park e Taksim square fissa una nuova definizione di cosa vuol dire spazio pubblico - scrivono gli attivisti nel documento finale pubblicato in rete da Müstereklerimiz -. Reclamare Taksim ha distrutto l’egemonia dell’Akp su cosa deve significare questa piazza per noi cittadini».
Resta da capire quali conseguenze lasce-ranno queste giornate di scontri sui processi di governance urbana della capitale turca. Mentre Erdogan annuncia di voler proseguire nel progetto di ricreazione delle antiche caserme ottomane al posto del Gezi Park ma di non volerle adibire principalmente a centro commerciale bensì a museo o centro culturale, il sindaco Kadir Topbas fa ammenda della mancanza di una campagna d’informazione sui progetti urbanistici in corso e in particolare su Gezi Park.
Basteranno queste buone intenzioni per instaurare finalmente reali meccanismi di partecipazione? Urbanisti e intellettuali reclamano più coinvolgimento per correggere il tiro di decine di progetti urbanistici ritenuti pericolosi per il futuro della città, soprattutto perché all’accordo tra soggetti pubblici e privati non si accompagna un reale coinvolgimento dei residenti dei quartieri cittadini, in particolare nelle zone più povere.