Il Capitale. Critica dell’economia politica ... e della teologia del Dio "Mammona" ("Deus caritas est")

SOCIETA’, CULTURA E LAVORO. Che civiltà è quella in cui si muore di lavoro più che in guerra? Tre film inaspettati e la vampata di fuoco alla Thyssen Krupp di Torino. Una riflessione di Furio Colombo - a cura di pfls

È stata la cacciata dall’Eden o la globalizzazione a svilire il lavoro e a far diventare merce la vita di tanti?
domenica 24 febbraio 2008.
 

[...] Ma se il lavoro conta così tanto da cambiare una città, una vita - e dunque un’epoca - perché contano così poco gli operai?

Perché il posto di lavoro è l’ultima cosa che aggiungi e la prima che tagli nel respiro forte e affannoso delle civiltà industriali?

E perché il lavoro ha sempre avuto meno dignità, meno inchini, meno ringraziamenti, meno cerimonie, meno bandiere, meno altari della patria, dei soldati, dei religiosi, degli statisti, degli uomini di finanza? Eppure - se il lavoro si ferma - si fermano tutti e cade persino il vento che agita le bandiere [...]


Lavoro, maledetto lavoro

di Furio Colombo *

È stata la cacciata dall’Eden o la globalizzazione a svilire il lavoro e a far diventare merce la vita di tanti?

Cerco di riflettere intorno a un fenomeno che sta diventando il grande dibattito nella campagna elettorale americana e in quella italiana. Il lavoro è una disgrazia, un dovere o una sgradevole, temporanea necessità?

Certo niente è più strano del lavoro nella vita umana: lo cerchiamo e desideriamo come una salvezza appena adulti, lo sopportiamo come un pesante bagaglio per decenni, se lo troviamo, e lo lasciamo malvolentieri, nonostante le false dispute sulla presunta voglia di molti di andare in pensione troppo presto e che invece è solo paura di non trovare più la pensione, cioè un residuo decente e dignitoso della paga.

Se esistesse una storia del lavoro, ci accorgeremmo subito che si alternano nei secoli periodi di troppo lavoro - dalla schiavitù delle filande ottocentesche in cui si lavorava anche la domenica. In quei periodi l’infelicità veniva dalla fatica. E periodi senza lavoro, tra carestie, fame, pestilenze e guerre. E allora l’infelicità è provocata dalla penuria.

Mi ricordo di una notte indiana - erano gli anni Sessanta - in cui sono uscito dall’Hotel Taj Mahal di Bombay (credo che oggi dicano Mumbai) e mi sono accorto che la passeggiata notturna che mi ero proposto non sarebbe stata possibile.

Tutte le strade, tutti i marciapiedi, larghi percorsi e vicoli oscuri, erano occupati da corpi che dormivano. Era come una città scoperchiata, come vedere dentro migliaia di case, ma attraverso una vertiginosa diversità di classi. C’era chi dormiva sulla strada con lenzuola e cuscini, chi con una coperta, chi solo con uno straccio, chi con niente. Niente vuol dire nudo sull’asfalto, dunque una immagine estrema e finale della vita senza il lavoro, da cui si risaliva a un di più guadagnato con più mani, più ore, più abilità, più fatica, fino a una curiosa soglia del benessere che l’India, allora, ti rivelava: arrivavi ad avere molto con il lavoro, anche le belle pentole di rame ben lucidate, disposte intorno alla sposa che dorme. Molto ma non la casa.

Ci ho pensato quando ho cominciato a leggere sui giornali americani, e a vedere nelle immagini della Cnn, di Sky, di Fox Television le famiglie americane che, a causa della crisi dei mutui non più rimborsabili (la crisi che sta facendo zigzagare le Borse del mondo e sta facendo tremare immense banche) hanno perso la casa, che è stata ripresa dal creditore quasi all’istante. Anche in quelle immagini c’erano pentole e suppellettili, oggetti della comune intimità domestica, coperte piegate con cura e camicie pulite. E volti di uomini e donne che non avevano perso il lavoro ma avevano perso la casa e chiedevano con stupore alle telecamere: «E adesso dove vado?». Chi avesse avuto la pazienza di restare fino alla fine di quel notiziario (o di sfogliare fino alla parte “economia” le pagine del giornale) avrebbe notato una strana relazione tra quelle immagini e titoli secchi e chiari come questi: «GM: 30 mila licenziamenti». «Citybank: dopo la crisi dei mutui ne hanno lasciati andare 20mila».

Gli eventi dell’economia sono strani, imprevedibili, così sorprendenti da disorientare navigati investitori ed esperti banchieri. Ma, al momento del rendiconto, la punizione colpisce il lavoro in una delle due certezze su cui ha ipotecato la vita: la casa e il lavoro. Ricordate lo slogan di tante manifestazioni, prima del ‘68? Già, perché il ‘68 ha spinto in scena l’immaginazione. Ma per l’immaginazione occorreva avere lavoro e casa, sia pure di altri, e tante vite giovani che hanno invaso piazzole di sosta per fare festa, decise a non risalire sul pullman che porta al lavoro. Oppure alla più strana e allegra forma di ribellione: non voler sapere dove ti porta quel pullman. Di tutto abbiamo discusso in quegli anni, di pace, di guerra, di musica, di poesia, di teatro e se fosse concepibile la violenza (che poi è esplosa senza che potessimo dire perché, contro chi, manovrata da chi) ma non abbiamo parlato molto di lavoro. O perché chi aveva il microfono aperto faceva lavori che gli piacevano. O perché tanti avevano fatto un sogno: il lavoro scompare. Il lavoro è il passato. Tutti noi esseri umani meritiamo una vita migliore.

Ecco ciò che non si è verificato. La cultura si è distratta e il lavoro si è fatto più squallido, più duro, più instabile, più raro. Una vera e propria svolta, sia pure simbolica, l’ha segnata a nome di molti, nel mondo, Ronald Reagan.

Quando è stato eletto Presidente era in corso uno sciopero dei controllori di volo americani. Invece di trattare, il nuovo presidente li ha licenziati tutti, stabilendo due punti importanti della nuova epoca. Il primo è che su tutto decide il mercato. Il secondo è che il mercato può benissimo essere ingiusto perché la regola è sempre la stessa: vince il più forte. Ma il vero gesto di resa che viene richiesto è affermare, anche dal fondo di un altoforno, che il mercato sa, il mercato vede, il mercato regola. In poche ore nuovi controllori di volo sono stati assunti, e quelli sindacalizzati non hanno mai più lavorato. Salari più bassi e niente cure mediche. I lavoratori sono stati invitati a competere non tra chi fa meglio ma tra chi costa meno.

* * *

Ecco perché è stato importante vedere in questi giorni tre film che stanno segnando la vita italiana: La signorina Effe di Wilma Labate, In Fabbrica di Cristina Comencini, Morire di lavoro di Daniele Segre. Hanno una domanda in comune, una domanda a cui non stiamo rispondendo, anzi che non riusciamo neppure a formulare: in quale civiltà viviamo? Qual è la nostra epoca? Quale destino stiamo subendo o disegnando o aspettando per i più giovani?

Mi sbaglierò ma sono convinto che in questi stessi giorni qualcuno sta pensando a film come questi per il periodo della vita che viene subito prima del lavoro. Gli insegnanti lo dicono e lo ripetono: ragazzi e ragazze non ti parlano più, con la tenacia proterva di alcune generazioni fa, del lavoro a cui pensano, quello che vorrebbero fare “da grandi”. I grandi, in quanto più vecchi, non interessano. I grandi che interessano sono ricchi e famosi: hanno i soldi, donne e tempo libero. E - cosa nuova nella Storia - dedicano il tempo libero al tempo libero. Insomma la vita o è una festa o è niente. E forse per questo i film sui ragazzi (da Muccino a Moccia) sono meno inventati e più veri di quel che sembra. Solo che non hanno né un prima né un dopo. E raccontano vite sospese fra soldi e lavoro di altri, in cui niente è stato deciso prima e niente è stato deciso per quella cosa strana chiamata futuro, che non ha più il suono d’avventura e di promessa di un tempo.

Ti fanno desiderare solo il presente, l’unico istante in cui consumo e vita giovane coincidono.

La signorina Effe sfiora un progetto mite e benevolo di felicità: l’istante in cui si congiungono la certezza del lavoro, il riscatto dello studio e la forza di un amore. Ma, come da un sogno, qualcuno ti sveglia per farti notare che la felicità non coincide con il lavoro, che l’amore non fa parte né della storia sociale né di quella sindacale, che la laurea è uno scatto di categoria non un lampo che illumina e cambia la vita.

In Fabbrica è una serie di materiali veri montati come un ansioso cercar di capire di qualcuno arrivato adesso nel mondo. Chi è questa gente che va a un lavoro come a un destino, senza gioia e senza tristezza, per un numero di ore - ogni giorno - quasi uguali alle ore del sole? Ricordate la cattiveria degli studenti agitatori ne La classe operaia va in paradiso di Petri quando gridano agli operai del turno «andate, andate in quella caverna. Tanto quando uscirete sarà già buio!». E sembrano non rendersi conto che senza quegli operai non esistono gli studenti, che senza gli operai quella fabbrica non può esserci, e senza la fabbrica non c’è la città, con tutte le sue attività e i suoi negozi.

Se non ci fosse, la vita cambierebbe per sempre o perché altri operai costruirebbero altre cose, in turni di otto ore per volta più il viaggio di andare e venire, più un’ora per mangiare, più sei ore per dormire ed essere in piedi presto per lavorare di nuovo. O perché la città diventerebbe Calcutta.

Anzi no, perché Calcutta ha cominciato a produrre con fabbriche, in turni di otto ore più il viaggio di andata e ritorno, più l’ora per mangiare, più le ore per dormire.

Ma se il lavoro conta così tanto da cambiare una città, una vita - e dunque un’epoca - perché contano così poco gli operai?

Perché il posto di lavoro è l’ultima cosa che aggiungi e la prima che tagli nel respiro forte e affannoso delle civiltà industriali?

E perché il lavoro ha sempre avuto meno dignità, meno inchini, meno ringraziamenti, meno cerimonie, meno bandiere, meno altari della patria, dei soldati, dei religiosi, degli statisti, degli uomini di finanza? Eppure - se il lavoro si ferma - si fermano tutti e cade persino il vento che agita le bandiere.

Una risposta è nel film - così doloroso che a momenti è insopportabile - di Daniele Segre Morire di lavoro. C’è un punto - ha scoperto Segre - in cui vita e lavoro si congiungono, in cui il lavoro acquista tutta la sua dignità di destino, tanto che assisti al susseguirsi dei volti narranti come alla cupa parata di un esercito. È l’istante in cui qualcuno muore sul lavoro, muore di lavoro, e qualcuno - che lo ha lasciato al mattino e lo aspettava di sera (di solito donne) - racconta di quella amputazione improvvisa. È come nei casi di cecità annunciati da lampi di luce che tormentano gli occhi. Anche qui, sul “buio del lavoro” (questa frase è stata usata con me da Adriano Olivetti quando mi ha chiesto di lavorare in fabbrica come modo di entrare nell’azienda) scatta un lampo in cui intravedi, abbagliato, tutta la vita di un essere umano, non tanto ciò che è stato ma il senso di ciò che non sarà mai.

Certo, per molti di noi tutto è cambiato quando sono morti, in una immensa vampata di fuoco, i sei della Thyssen Krupp di Torino mentre stavano tentando di consumare le loro prescritte ore in più di straordinario (che - adesso molti esperti dicono - sono il segno del merito, quel merito che fa mercato).

Tutto è cambiato perché quella vampata di fuoco è come se l’avessimo vista. Come se l’oscuro rituale di morire in fabbrica, ciascuno per sé, ciascuno una disgrazia, e i compagni di lavoro più vicini, soli destinatari di quel messaggio perduto, fosse adesso un evento pubblico. Come se quelle morti fossero una specie di rito, come la messa solenne o l’altare della patria.

Che cosa celebra quel terribile rito che quasi nessun italiano ha potuto far finta di non vedere? Certo spinge avanti la domanda: siamo sicuri che il lavoro conti così poco al punto da offrirlo per ultima cosa, da tagliarlo per prima cosa e da rimproverare sempre per il costo eccessivo?

Tre film inaspettati e una vampata di fuoco ci chiedono il tentativo di una risposta più chiara. Che civiltà è quella in cui si muore di lavoro più che in guerra eppure il lavoro non conta nulla, poco più di un fastidio, di un ronzare noioso nelle stagioni in cui scadono i contratti?

Poiché questo è un periodo elettorale prendiamo un impegno: noi parliamo di lavoro. Di chi lavora. Di come lavora. Di come vive e di come muore. Il lavoro è un peso morto solo quando lascia cadaveri in fabbrica e famiglie sole di cui ci si dimentica nel giro di due settimane. Certo, il mercato è mercato. Ma la civiltà è un orizzonte più grande. Ed è lì che guardiamo.

furiocolombo@unita.it

* l’Unità, Pubblicato il: 24.02.08, Modificato il: 24.02.08 alle ore 12.41


Sul tema, nel sito, cfr.:

"Deus caritas est". Sul Vaticano, in Piazza San Pietro, il "Logo" del Grande Mercante!!!

Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio ... Francesco D’Agostino (dall’Avvenire) vuole dare lezioni a Rosy Bindi e mostra solo tutto il livore di un cattolicesimo che ha sempre confuso "Erode" con Cesare e Dio con "Mammona"!!!

MARX NON ERA MARXISTA. UMBERTO GALIMBERTI COMINCIA A PRENDERNE ATTO...

PER IL "LOGO" DELLA "SAPIENZA" DI ROMA, UN APPELLO...

PER UN RI-ORIENTAMENTO ANTROPOLOGICO, TEOLOGICO E POLITICO...


Rispondere all'articolo

Forum