Con questa sinistra
meglio lasciar perdere
di GIANNI VATTIMO (La Stampa, 5/9/2007)
Non so se valga la pena, come ha suggerito qualcuno (Alberto Asor Rosa), dimettersi da intellettuale di sinistra a causa dei provvedimenti che alcune amministrazioni comunali, anche uliviste, hanno annunciato contro i lavavetri - questi lavoratori abusivi che sembrano costituire una delle più gravi minacce per la sicurezza collettiva nelle città. Non che la cosa non meriti attenzione; ma se c’era da dimettersi, le occasioni in questi ultimi mesi, da quando la sinistra è diventata «di governo» erano ben altre e anche più gravi. Più che di dimettersi, nei confronti di questo ultimo sussulto di tipo «law and order» della cosiddetta sinistra nostrana, vien voglia semplicemente di «lasciar perdere» o, evangelicamente, lasciare che i morti seppelliscano i loro morti, continuando l’epocale dibattito sulle elezioni primarie del non ancora nato partito democratico, o sulla presenza di ministri alla manifestazione del 20 (dicesi 20!) ottobre prossimo. E, a proposito di morti, per fortuna solo feriti, non varrebbe la pena dedicare un pensiero ai militari italiani feriti in Afghanistan in una delle varie «missioni di pace» in cui il governo ci ha impegnati? O ricordare che tra i temi della manifestazione (eventuale) del 20 ottobre non c’è solo il protocollo sul welfare, ma anche il problema della base Usa a Vicenza, i diritti civili (Dico, fecondazione assistita), e altre quisquilie che pure fanno parte del programma di governo?
Di lasciar perdere viene voglia perché il nostro dibattito politico, compresa questa ultima fiammata di legalitarismo - tolleranza zero, Firenze come la New York di Giuliani - mostra emblematicamente la povertà intellettuale (si può ancora dire?) a cui si è ridotta la retorica «riformista» della ex sinistra italiana. Certo che la sicurezza delle strade cittadine è un’esigenza sacrosanta, e del tutto bi-partisan; ma persino il riformista-capo, Romano Prodi, trova che ha poco senso partire dai lavavetri, ultima misera ruota di un carro che trasporta ben altre clamorose illegalità. Niente «benaltrismo», d’accordo; niente «ma la colpa è della società ingiusta in cui viviamo». Ma un pensierino anche a questo aspetto della faccenda, una sinistra non del tutto immemore della propria storia dovrebbe pur farlo. Si ammette da tutti che la legalità non può essere assicurata solo dalla presenza di un carabiniere a ogni angolo di strada, che è invece, anzitutto, una questione di educazione civica. Ma quale senso collettivo della legalità può sussistere in un Paese dove la giustizia penale e soprattutto civile non garantisce più niente, dove se violi una norma devi solo: a) usare i soldi illegalmente guadagnati per pagarti un grande avvocato che trascini la tua causa fino alla prescrizione; b) o comunque aspettare fino al prossimo condono che ti ridarà la tua verginità giuridica in attesa di una nuova violenza ? Il «riformismo» e la concretezza «bersaniana» dei nostri governanti hanno di sicuro le loro ragioni. Ma, come molti dicono, non scaldano i cuori. Nessuno è disposto a farsi in quattro per le liberalizzazioni bersaniane.
Alla indispensabile retorica politica che dovrebbe scaldare i cuori, la fu sinistra italiana sostituisce quest’altra retorica molto più vacua e ideologicamente neutra: la sicurezza, la famiglia, il valore della «vita», qualunque essa sia, anche con gravi handicap che una bioetica meno bigotta potrebbe aiutarci a evitare. Ma intanto persino i nostri «alleati» - Usa, Nato - ci prendono sempre meno sul serio, nonostante lo sforzo e i soldi che buttiamo nelle cosiddette missioni di pace. Se qualcuno dice che l’Italia non ha una politica non ha probabilmente tutti i torti. E il civismo è anzitutto un affare politico. Un paese dove non si discute di pace e di guerra (residui ideologici del passato!) ma solo di lavavetri e di (imminente) persecuzione legale di chi va a prostitute non ha, e non avrà per molto, cittadini amanti, o anche solo rispettosi, delle leggi.