I monaci birmani tornano in piazza
Rapporto di Human Rights Watch: la giunta usa baby-soldati
di RAIMONDO BULTRINI la Repubblica 01 NOVEMBRE
BANGKOK - La rivolta dei monaci è ripresa. In piccola scala, ma potente abbastanza da riportare l’attenzione del mondo sul caso Birmania. Erano poco più di duecento, allineati lungo una traversa minore della cittadina di Pakokku, consapevoli che il valore simbolico del loro gesto andava ben oltre il numero. Intanto, l’organizzazione per i diritti umani Human rights watch denuncia la giunta militare di arruolare bambini, anche di 10 anni appena, nel suo esercito. In un rapporto si afferma che i militari stanno ricorrendo ai bambini soldati per fronteggiare «la continua espansione dell’esercito, l’alto tasso di diserzione e la mancanza di volontari».
Proprio a Pakokku è iniziato tutto come una fiammata 55 giorni fa, il 5 di settembre. Quel giorno parecchi religiosi, venerati dalla popolazione e in teoria dagli stessi governanti, vennero pestati a sangue dai militari mentre cantavano i Sutra buddisti per protestare contro l’aumento dei prezzi e la condizione di miseria della popolazione. Alcuni soldati vennero sequestrati in un monastero e i religiosi chiesero le scuse formali del regime, che rispose con la repressione delle manifestazioni in tutto il paese e l’uccisione di un numero imprecisato di monaci e civili. Da oltre un mese era tornata una calma apparente senza più spiegamenti di truppe, ma la rabbia non era diminuita, tanto che la giunta militare ha riportato nei giorni scorsi i carri armati nelle strade di Rangoon, già temendo evidentemente quello che, ancora in piccolo, è successo a Pakokku.
«Non eravamo in molti - ha spiegato all’emittente norvegese Democratic Voice of Burma uno dei monaci partecipanti - perché non avevamo pianificato la protesta. Ma ce ne saranno presto di più grandi e più organizzate». Da pochi giorni infatti è finito il periodo del ritiro spirituale dei monaci durante il monsone, e a migliaia sono tornati liberi di muoversi. Nella sola Pakokku, città tessile sulle rive del fiume Ayeyarwady, ci sono più di 80 prestigiosi monasteri con migliaia di monaci, trovandosi vicina ai celebri stupa buddhisti dell’antica capitale Pagan.
Alle otto e mezza di mattina dai monasteri di Sasana Wihmula, di Bodhi Mandaing e Mya si sono raccolti dietro alla bandiera color arancio detta Sasana, simbolo dell’eredità spirituale del Buddha, e hanno camminato in direzione della pagoda di Shwe Ku recitando il Metta Sutta, lo stesso di 55 giorni prima.
Nessuno li ha fermati, forse per il numero relativamente esiguo, o per la sorpresa come avvenne a settembre. Ma i partecipanti hanno assicurato di aver messo nel conto anche un’aggressione: «Noi non abbiamo paura di venire arrestati o torturati - ha detto il monaco testimone - perché facciamo questo per Sasana». La protesta di ieri - ha spiegato - «è la continuazione di quelle del mese scorso, perché le nostre richieste non sono state ancora accolte: domandiamo la riduzione dei prezzi, la riconciliazione nazionale e l’immediata liberazione di Aung San Suu Kyi e di tutti i prigionieri politici».