Proteggiamo i partiti da se stessi
di BARBARA SPINELLI (La Stampa,7/10/2007)
Mancano pochi giorni all’elezione della persona che guiderà il nuovo Partito democratico, e molte parole son state spese dai candidati per dire le proprie preferenze programmatiche, il desiderio di suscitare nei cittadini più partecipazione democratica, l’aspirazione a superare la crisi della politica con nuovi modi di pensarla, farla, comunicarla. Si è parlato anche di cose futili, come l’età dei candidati e la loro appartenenza a un sesso o a un altro. È una futilità dimostrata dalla storia: il socialista Jospin sfidò Chirac insultando la sua tarda età, alle presidenziali francesi del 2002, e sparì addirittura dal secondo turno. Ségolène Royal puntò sul proprio esser donna: il successo non le arrise.
Di una cosa tuttavia si è parlato poco nella campagna delle primarie, o comunque non sono state approfondite due domande cruciali: a cosa serva avere un partito organizzato piuttosto che un movimento o una rete fluida di simpatizzanti, e quale debba essere il rapporto che il partito ha con il governo, quando quest’ultimo è del proprio campo.
Eppure è questo il tema essenziale, su cui i candidati sicuramente hanno meditato ma che non hanno spiegato bene ai propri elettori. Si accenna spesso al danno che un partito invasivo arrecherebbe al governo Prodi - o viceversa degli effetti nocivi che l’impopolarità di Prodi avrebbe sul partito - ma così si elude la questione che non è contingente bensì permanente: è la questione se il governo debba tener conto del partito o dei partiti fino a esserne sommerso, oppure se debba avere una sua autonomia e preminenza.
Se debbano esserci regole che assicurino una separazione di poteri, competenze, autonomie. Anche in questo caso la storia serve, essendo la partitocrazia un male non solo italiano. Anche la Germania, per esempio, lo conosce. Helmut Schmidt cancelliere fu ridotto all’impotenza dal proprio partito, su missili Nato e riforme economiche, e prima vide restringersi i margini per manovrare, poi perse l’alleato liberale, infine fu soppiantato nell’82 da un’alleanza fra Kohl e liberali. Eppure i socialdemocratici avevano vinto le elezioni del 1980, dando una possente maggioranza a Schmidt. Il partito ebbe quasi vergogna di quella vittoria e preferì perdere. Lo stesso minaccia di ripetersi oggi: per conquistare le sinistre estreme il leader Spd, Kurt Beck, vorrebbe congedarsi dal riformismo di Schröder (pensioni a 67 anni, durata più breve dell’indennità di disoccupazione per chi ha più di 50 anni e rischia il prepensionamento) e in tal modo non solo sovverte il lavoro dei ministri socialdemocratici - tra cui il vicecancelliere Müntefering - ma distrugge un riformismo che ha dato risultati eccellenti, come riconosciuto dagli stessi democristiani.
In Italia il rischio è assai simile: che il futuro leader del Partito democratico non abbia chiaro in mente quale sia il preciso compito della sua formazione, e quali ne siano i limiti. L’attenzione dei principali candidati sembra concentrarsi più sulla governabilità (con chi governare? con chi mantenere il potere?) che sul programma e sulla difesa di alcuni punti salienti nel caso il governo non riesca ad attuarli tutti. Ad esempio: come difendere i Dico, o l’opportunità di una legge sul conflitto d’interessi, o l’abolizione delle leggi ad personam? Il partito può insistere su questi punti anche se il governo pare rassegnato e l’unanimità dei consensi impossibile.
Il candidato che fin qui ha posto la questione con maggiore scrupolosità è Rosy Bindi. Volutamente, ha sottolineato la propria lealtà al governo Prodi: senza dargli lezioni, senza confondere la corsa alla leadership partitica con la corsa a Palazzo Chigi. La sua formazione cattolica è inoltre all’origine di una sua vigile cura della laicità: e non solo quella che distingue tra politica e religione, ma anche quella che traversa la politica e implica separazione nitida fra programma di partito e azione di governo, funzione profetica del primo e funzione operativa del secondo, tempi dell’uno e dell’altro, cultura e azione. Tale separazione sembra in lei istintiva. I suoi simpatizzanti forse la voteranno anche per questo.
Questo tipo di laicità è fondamentale, nelle democrazie dove l’esecutivo fatica a farsi valere. Attuarla restituendo all’esecutivo la preminenza non diminuisce la forza del partito, né la sua capacità d’interferenza. Non è infatti dall’interferenza in sé che occorre guardarsi, ma dall’interferenza arbitraria che diventa dominio e predominio. Sono questi ultimi che sfibrano non solo i governi amici ma deturpano i partiti stessi, visto che essi non si esauriscono nel governare ma debbono durare oltre i governi, e vivere se necessario periodi di opposizione senza disperdersi in campagne elettorali permanenti che tengono tutti a galla allo stesso modo. Quest’arte di durare e non solo galleggiare, se sarà trovata, servirà non solo alla sinistra: nessuno a destra - neppure Casini - pare possederla.
I partiti sono oggi contestati in Italia, non senza motivi. Essi producono oligarchie interessate alla conservazione del potere più che aristocrazie profetiche, come spiegava negli Anni 10 e 20 del secolo scorso lo studioso tedesco Robert Michels, molto scettico su democrazia e organizzazione partitica: ogni organizzazione produce ineluttabilmente oligarchie conservatrici, diceva. Per questo era preferibile il leader carismatico a quello burocratico, figlio dell’organizzazione. Il disprezzo per i partiti democratici condusse Michels ad ammirare dittatori che vollero abolire i partiti. Da socialdemocratico che era, divenne fascista. Il leader carismatico o demagogico rappresenta la risposta alla «legge ferrea dell’oligarchia», che Michels considerava una spregevole fatalità. Queste oligarchie interessate a mantenere potere e consensi sono più forti e deleterie se il partito soverchia e insidia il governo amico.
La governabilità lo interesserà più del governare, i consensi immediati più delle idee. Ogni convinzione minoritaria gli apparirà sconveniente, fastidiosa. Si affermerà l’idea, non necessariamente giusta, che un partito che si rispetti debba avere, su tutto, idee che piacciano ai più. Così non dovrebbe essere: un partito può avere idee minoritarie anche per un periodo lungo, senza perdere nobiltà. Non metterà in cima alle proprie preferenze, su praticamente qualsiasi tema, quelle che si chiamano oggi «larghe intese» o «idee condivise». Anche questo è rispettare la frontiera laica fra partito e governo, fra interferenza e dominio. I partiti devono avere un ruolo profetico, più penoso per i governi. Devono tenere la rotta se vogliono traversare epoche prospere e carestie, di governo e di opposizione. Trascurare tale compito sfocia facilmente in un pericolo grande: la cooptazione, cui si ricorre per proteggere oligarchie e primati sui governi.
La cooptazione è descritta con tinte nere da Michels, e stupisce l’attualità delle sue parole. Si coopta chi raccoglie consenso nel campo avversario e può prendere il nostro potere, e si agisce così: «I leader dell’opposizione ottengono nel partito alte cariche e onori e così vengono resi innocui, in quanto in tal modo sono loro precluse le cariche più importanti ed essi rimangono nei secondi posti senza influenza notevole e senza poter sperare di diventare un giorno maggioranza; per contro essi condividono ora la responsabilità delle azioni compiute insieme agli avversari di una volta». È una denuncia antipolitica su cui vale la pena meditare, vista la frequenza con cui il fenomeno ricorre nella storia. L’apertura di Sarkozy a uomini di sinistra è di questo tipo. Dello stesso tipo sono le aperture di alcuni candidati del Pd a oppositori come Gianni Letta o Tremonti.
I partiti restano utili, nonostante siano ancora una volta, oggi, percepiti come casta. Ci vuol coraggio a difendere chi vi milita continuativamente, e perfino a chiamarli partiti. È utile anche l’organizzazione che essi tendono a darsi: che non produce fatalmente oligarchie con vocazione prevaricatrice ma permette di fissare limiti, di evitare dismisure, esorbitanze. Veltroni dice con acume che urge «uscire dai recinti»: ma i partiti hanno una loro geografia, e geografia è recinzione di territori. Solo così si smentisce quel che in Michels è tentazione totalitaria, oltre che acido fatalismo. I partiti proteggono la politica non dalla rabbia di Grillo (non è lì il pericolo) ma dalle lobby, dagli interessi particolari, dai demagoghi. Sono preziosi a condizione che diventino una forza grande, e però conscia dei propri limiti: è la sfida delle elezioni del 14 ottobre.