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"EUTANASIA", LEGGE E AMORE ("Charitas"). SUL CASO DI ELUANA ENGLARO, ALTRA ENNESIMA INGERENZA "CARITATEVOLE" ("Deus caritas est"!!!) DEL VATICANO CONTRO LA CASSAZIONE E LA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Su queste assurde pretese della Chiesa di "dettar legge", e di imporre il suo "caro-prezzo"(="caritas"), la limpida lezione di Gustavo Zagrebelsky - a cura di pfls

giovedì 18 ottobre 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] nelle discussioni odierne su problemi pubblici di pregnante contenuto etico, sui quali la Chiesa come tale chiede la parola, la loro dimensione costituzionale è totalmente trascurata o oltrepassata. Sulla disciplina delle relazioni familiari e dei legami interpersonali, tra persone di sessi diversi o anche del medesimo sesso; sui limiti della ricerca e della sperimentazione scientifica, in rapporto alla dignità dell’essere umano; sull’autodeterminazione delle persone sottoposte a (...)

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> "EUTANASIA", LEGGE E AMORE ("Charitas"). --- Il filosofo Vattimo racconta la storia di Sergio: era incurabile, stavamo andando in una clinica in Olanda.

mercoledì 4 febbraio 2009

EUTANASIA

«Il mio compagno voleva farla finita Ma morì in viaggio tra le mie braccia»

Il filosofo Vattimo racconta la storia di Sergio: era incurabile, stavamo andando in una clinica in Olanda

MILANO - «Ho ringraziato Dio, o la sorte, che Sergio sia morto tra le mie braccia, e non in quella clinica. Per avergli detto addio in volo, il sabato di Pasqua, sull’aereo che lo portava in Olanda, anziché consegnarlo a un medico. Per averlo tenuto abbracciato fino a quando non lo sentii freddo, anziché affidare il suo corpo vivo all’eutanasia. Capisco l’angoscia del signor Englaro, per averne vissuta una diversa ma forse persino più grande. Più grande perché Eluana in realtà è morta diciassette anni fa, mentre Sergio camminava, parlava, era consapevole, aveva scelto di morire, e mi aveva chiesto di stargli accanto, di far sì che accadesse. Un compito terribile, che mi terrorizzava. Ma l’avrei fatto. Così come ritengo abbia il diritto di farlo Beppino Englaro».

Gianni Vattimo non è soltanto il filosofo italiano più noto all’estero, che da sempre ragiona sulla vita e sulla morte. È un uomo che ha molto amato e sofferto, e si è trovato a dover affrontare l’eutanasia di una persona cara. Una storia che racconta oggi per la prima volta, con voce bassa, raccomandando solo di scriverla fedelmente, «senza troppi piagnistei». «Era un volo New York-Francoforte-Amsterdam. Pasqua 2003. Sergio, il mio compagno da undici anni, aveva scoperto tre mesi prima di avere un tumore al polmone sinistro. Inoperabile. Incurabile. Mi disse che aveva già perso una sorella in quel modo. L’aveva vista che smagriva e si spegneva ogni giorno, era ridotta a una larva, eppure non moriva mai. Piuttosto che finire così, disse, meglio l’eutanasia. Ne parlai con i amici medici. Ci iscrivemmo all’associazione Dignitas, in Svizzera, che garantisce assistenza; ma scoprimmo che si limitava a fornire la pillola, da prendere poi a casa propria. Non ce la siamo sentita. Poi presi contatto con un medico olandese, di origine italiana. Ci propose: venite qui. Non si trattava ovviamente di uccidere Sergio in un secondo, ma di non farlo soffrire, di affrettarne la fine in una situazione meno tesa che in Italia. Accettammo. Sergio chiese solo, prima di andare ad Amsterdam, di fare un ultimo viaggio insieme, in America, per realizzare il suo sogno di storico dell’architettura: vedere la casa sulla cascata che Lloyd Wright aveva costruito in Pennsylvania».

«Sergio andò a prendere congedo dalla madre, a Torino. Fu un momento molto doloroso, ma lui era sereno, e convincente. Disse che la sua vita era stata felice, che a 47 anni aveva visto mezzo mondo; e in effetti insieme eravamo stati dappertutto, in India, in Africa, in Sud America. Ci mancava quell’ultimo viaggio. Arrivammo a Los Angeles, passammo in California qualche giorno, ma lui la notte stava male, non riusciva a dormire, e procurarsi antidolorifici era complicato. Poi volammo a Pittsburgh, e in due ore di macchina eravamo nella casa sulla cascata. Era il venerdì santo. Un posto bellissimo, in cui però non tornerei per nulla al mondo. Sergio non riuscì neppure a salire al secondo piano, tanto era debole. Partimmo verso New York. Il volo Lufthansa per Francoforte-Amsterdam decollava sabato pomeriggio. Sergio mi disse che voleva vedere per l’ultima volta Manhattan e comprare un vaso Anni ’30 di Scarpa, il suo designer preferito; lo trovammo, ma quel giro lo stancò molto».

«All’imbarco era molto debole. Chiesi agli steward di portare a bordo dell’ossigeno, mi dissero che non era possibile. Fingemmo di star bene e ci imbarcammo, lui reggendosi al bastone. Avevamo i biglietti di business, nelle prime file. Dopo due ore di volo Sergio andò in bagno, e non uscì più. Forzai la porta. Lo trovai che respirava appena. Tentai di rianimarlo, a bordo c’era un medico che provò la respirazione bocca a bocca, ma non c’era più nulla da fare. L’ho tenuto stretto fin quando non l’ho sentito freddo. E ho trovato consolazione in un solo pensiero, non doverlo accompagnare in quella clinica». «Sergio aveva un coraggio da leone: voleva morire, e morire bene. Accanto a me aveva assistito a una lunga agonia: quella del mio primo compagno, Gianpiero Cavaglià. Sergio Mamino era venuto a vivere da noi nel 1977, quand’era studente universitario e io preside di facoltà. Eravamo una famiglia allargata... Nell’86 Gianpiero scoprì di avere l’Aids. Anni di patimenti, complicazioni, malattie sopravvenute, tra cui l’epilessia. Ingoiando l’intera confezione di pastiglie contro l’epilessia, il mattino di Pasqua del 2002, Gianpiero tentò di suicidarsi. Lo salvammo, e mentre io chiamavo l’ambulanza Sergio faceva sparire un biglietto che avevo appena intravisto, in cui Gianpiero chiedeva di essere perdonato. Un medico mi disse che avrei fatto meglio a lasciarlo andare. Ma qualche sera dopo, vedendo un film insieme, gli chiesi se era felice di esserci ancora. Mi rispose che era sereno. Gli restavano sei mesi. Si spense alla fine dell’anno».

«Credo che nessuno possa condannare la scelta del padre di Eluana. Tanto meno la Chiesa. Io mi sono formato nell’Azione Cattolica, sono credente da sempre, piuttosto che diventare come Odifreddi e Flores d’Arcais crederei pure a Fatima; ma sono sempre più critico verso la Chiesa e questo suo modo di terrorizzare i cristiani. L’insistenza per tener viva Eluana è uno scandalo. Fin dallo stoicismo e dai martiri cristiani, l’uomo rinuncia alla vita che ritiene non degna di essere vissuta. Sostenere che la vita appartiene a Dio, e solo Dio può liberarti dall’agonia e dalla sofferenza, significa costruire un inferno tecnologicamente aggiornato».

Aldo Cazzullo

* Corriere della Sera, 04 febbraio 2009


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