L’Osservatore Romano detta legge alla Cassazione *
Altra ingerenza del Vaticano sulle decisioni della giustizia italiana. «È inaccettabile il relativismo dei valori, soprattutto se questi riguardano la conservazione o meno della vita». Così l’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, commenta la sentenza della Cassazione che ieri ha deciso di consentire un nuovo processo sul distacco del sondino nasogastrico ad Eluana Englaro, la ragazza in stato vegetativo dal 1992 a seguito di un incidente stradale.
«Accettare, pure nel vuoto legislativo, una tale posizione - scrive il giornale vaticano -, significa orientare fatalmente il legislatore verso l’eutanasia. Di più: introdurre il concetto di pluralismo dei valori significa aprire una zona vuota dai confini non più tracciabili. Significherebbe attribuire appunto ad ognuno una potestà indeterminata sulla propria esistenza dalle conseguenze facilmente immaginabili, anche solo ragionando dal punto di vista etico».
L’Osservatore Romano ricorda le motivazioni della sentenza della Cassazione: il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente, secondo la suprema corte, non incontra alcun «limite» anche nel caso in cui ne consegua «il sacrificio del bene della vita», poichè lo Stato italiano riconosce il pluralismo dei valori; lo stato di irreversibilità della sua condizione, «secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti».
«Premesse - sottolinea - che appaiono evidentemente confutabili. Nessun esperto potrebbe, allo stato attuale, dichiarare l’irreversibilità della condizione di stato vegetativo, se non in base ad una scelta puramente soggettiva. Sulla volontà di Eluana, poi, l’arbitrarietà appare palese. La dichiarazione di un momento non può evidentemente essere presa a parametro per presumere la volontà di una persona riguardo a scelte come quelle che riguardano la contrarietà o meno ad un trattamento che fra l’altro si pone al limite fra terapia e nutrizione».
«Dalla Cassazione una sentenza orientata al relativismo»: questo il titolo scelto dall’"Osservatore Romano" nell’articolo dedicato alla sentenza sul caso Eluana Englaro. Per il quotidiano d’Oltretevere le «premesse» della Suprema Corte «appaiono evidentemente confutabili». «Nessun esperto - chiosa il quotidiano vaticano - potrebbe, allo stato attuale, dichiarare l’irreversibilità della condizione di stato vegetativo, se non in base ad una scelta puramente soggettiva».
* l’Unità, Pubblicato il: 17.10.07, Modificato il: 17.10.07 alle ore 16.31
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EU-TANASIA: IL DIRITTO DI MORIRE. IL CORAGGIO DELLA PAROLA, NON LA TRAPPOLA DEL SILENZIO.
SALVIAMO LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA...
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO ... DEI "DUE SOLI". IPOTESI DI RILETTURA DELLA "DIVINA COMMEDIA".
"Deus caritas est": la verità recintata!!!
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
Quando la Chiesa detta legge allo Stato
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 17.10.2007)
«LO Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà»: così il celebre dictum del costituzionalista E.W. Böckenförde, assurto a manifesto ideologico di quanti sostengono l’incapacità delle democrazie liberali di sopravvivere a se stesse e la necessità della religione come loro presupposto. Attira la nostra attenzione l’uso del verbo "potere": "presupposti che non può garantire". Sono possibili due comprensioni: non può perché non ci riesce de facto, o perché non gli è lecito de iure. Nel primo senso, la proposizione è descrittiva; nel secondo, normativa. La differenza è notevole, anche rispetto alle conseguenze.
L’accento cade innanzitutto sull’impossibilità de facto e da cui deriva un fosco vaticinio. Il focus sta negli aggettivi liberale e secolarizzato. Lì si troverebbe la ragione del deficit delle forze che "tengono unito il mondo" e "creano vincolo" sociale, senza le quali lo Stato si troverebbe come appoggiato sul niente. Ecco un crescendo di interrogativi retorici: «Di che cosa vive lo Stato e dove trova la forza che lo regge e gli garantisce omogeneità, dopo che la forza vincolante proveniente dalle religione non è e non può più essere essenziale per lui? È possibile fondare e conservare l’eticità in maniera tutta terrena, secolare? Fondare lo Stato su una "morale naturale"? E se ciò non fosse possibile, lo Stato potrebbe vivere sulla sola base della soddisfazione delle aspettative eudemonistiche dei suoi cittadini?».
L’accenno alle "aspettative eudemonistiche", cioè alle aspettative di "bella vita", getta una luce particolare sul significato catastrofistico di queste domande.
Uno Stato basato sulla libertà, che non possa confidare in forze vincolanti interiori dei suoi membri, sarà indotto, per garantire la propria legittimità, ad accrescere illusoriamente le promesse di benessere, con ciò avvolgendosi da sé in una spirale mortale di aspettative d’ogni genere che, oltre un certo limite, non potrà più mantenere.
Non sono affermazioni originali. In una forma o in un’altra, le troviamo nella letteratura anti-liberale, anti-individualista e anti-ugualitaria, dall’Ottocento a oggi. Ora, però, l’impotenza dello Stato basato sulla libertà, come impotenza de facto, è ricondotta anche all’impossibilità de iure. Questo Stato non può cercare di rinsaldare l’ethos di cui ha bisogno percorrendo la strada a ritroso verso la res publica christiana.
Non può farlo perché così rinnegherebbe se stesso, la libertà, la laicità, la tolleranza, l’uguaglianza, il pluralismo: tutti principi dati per acquisiti. Dunque, l’impotenza di cui parliamo comprende entrambi i significati del "non può", l’esistenziale e il normativo. Le premesse di cui abbiamo bisogno devono prendere corpo non a opera dello Stato ma in seno alla società. Sono i cittadini, e tra questi ovviamente anche i cittadini cristiani in nome della loro fede, a dover assumere l’habitus etico necessario alla sopravvivenza dello Stato basato sulla libertà. Sono i cittadini a potere e dovere garantire gli impulsi e le forze di unificazione interiori di cui lo Stato ha bisogno; non può (in entrambi i sensi) essere lo Stato poiché, nelle sue mani, la religione diventerebbe instrumentum regni.
La ricezione di queste posizioni, attraverso una lettura semplificante del dictum sopra ricordato, non è stata però, prevalentemente, questa. Parlerei perfino di strumentalizzazione, se in quelle non ci fosse un certo margine di ambiguità. La ricezione è avvenuta nel senso che lo Stato basato sulla libertà - in quanto Stato, non in quanto società - non può di fatto, con le sue sole forze, darsi i propri presupposti, ma che può, sempre in quanto Stato, legittimamente cercarli altrove, nel cristianesimo.
Questa diversa interpretazione del "non può" è rappresentata in modo efficace dalle parole, scritte dal cardinale Joseph Ratzinger in un saggio del 1984: dalla tesi che l’attuale Stato liberale e secolarizzato non è più societas perfecta e perciò vive di presupposti «che esso stesso non può garantire» deriverebbe che esso ha bisogno di forze dall’esterno che lo sostengano. Le uniche forze disponibili sarebbero quelle del cristianesimo e con queste lo Stato potrebbe e dovrebbe stringere alleanza, un’alleanza, per sovrappiù, che assume il colore di una certa sottomissione: chi accetta che un altro getti le basi che garantiscono la sua esistenza non deve accettare anche la dipendenza da questo altro? La Chiesa pone la sua candidatura, in quanto afferma la propria "rilevanza pubblica assoluta" e rifiuta di farsi confinare nella dimensione privata dalle coscienza. Lo stesso Ratzinger, però, mette in luce la difficoltà: «ci troviamo di fronte a un’aporia: se la Chiesa rinuncia a questa pretesa, non è più per lo Stato quella di cui lo Stato ha bisogno, se però lo Stato l’accetta, smette di essere pluralistico e così sia lo Stato che la Chiesa perdono sé stessi». Poiché tuttavia "nell’attuale situazione generale della cultura il pericolo teocratico è scarso" - così prosegue Ratzinger - "la pretesa di riconoscimento pubblico della fede [cattolica] non può compromettere il pluralismo e la tolleranza religiosa dello Stato. Da qui (dal pluralismo e dalla tolleranza) non si potrebbe dedurre la piena neutralità dello Stato di fronte ai valori. Esso deve riconoscere che un patrimonio fondamentale di valori, fondati sulla tradizione cristiana, è il presupposto della sua consistenza. Deve in questo senso semplicemente, per così dire, riconoscere il proprio luogo storico". Onde, conseguentemente, la richiesta di uno status differenziato, a favore della religione cristiano-cattolica e della Chiesa, richiesta che inizia riguardando la questione dei simboli, ma si estende facilmente al sostegno delle scuole cattoliche, all’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, al finanziamento agevolato delle sue attività, per finire a una sorta di diritto d’ultima parola nelle questioni legislative che hanno rilievo per l’identità cristiana dello Stato.
Böckenförde dice di prendere le distanze. A me, sinceramente, non pare. L’ordine pubblico di una situazione costituzionale pluralista - dice - non può appiattirsi sull’ethos di una sola religione: tutte le religioni e confessioni devono essere incluse nel diritto di avere e proclamare, in pubblico e in privato, la propria fede. Ma, aggiunge, questo non deve comportare la pretesa di un livellamento dell’impronta religiosa che assicura l’identità dello Stato. "Livellamento" è una parola che suona male e, soprattutto, può significare una cosa che nessuno richiede: un’azione di forza che mai, in una società libera, sarebbe ammissibile. Se però sostituiamo livellamento con uguaglianza, ci si accorge che questo è per l’appunto ciò di cui abbiamo bisogno affinché l’ordine pubblico si apra al pluralismo. Nello Stato secolare fondato sulla libertà, tutte le fedi, tutte le religioni, tutte le credenze anche non religiose o antireligiose hanno lo stesso diritto di cittadinanza ed è questo che costituisce "l’impronta" di questo tipo di Stato. Rispetto a questa impronta, è contraddittoria e pericolosa l’affermazione di Böckenförde, che ha fatto su di me molta e negativa impressione, che «le minoranze religiose debbano vivere nella diaspora». Dire così significa negare l’esistenza di un comune e unico vincolo di cittadinanza e consentire status sociali, giuridici e politici differenziati, a favore dei membri della religione di maggioranza, secondo esperienze del passato di infelice memoria. Come si possa sostenere questo genere di posizioni e, al tempo stesso, non contraddire l’esigenza di "assoluta neutralità" dello Stato, esigenza che costituisce certamente il contenuto minimo necessario di qualsiasi concezione della laicità, e come in tal modo non si neghino i fondamenti dello Stato secolare basato sulla libertà è per me - lo confesso - un mistero.
Anche una seconda proposizione merita di essere indagata: «Fino a che punto i popoli uniti in stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere un legame unificante che preceda tale libertà?»
Qui, l’attenzione cade su quel "precedere". Se la garanzia precede la libertà, non può che essere un legame che viene da fuori, non dall’autonomia dei singoli: un legame in qualche modo indotto, se non imposto, per via di autorità. La Chiesa, ammesso ch’essa possegga la riserva delle risorse etiche, potrebbe allora legittimamente chiedere che le si assicurino i mezzi per farle valere vincolativamente. Questo ci dice quel "precedere". A me pare di vedere in questa offerta di collaborazione qualcosa di oltraggioso nei confronti della religione di Gesù di Nazareth, perché mi sovviene di Giovanni Botero, il teorico secentesco della ragion di Stato, dello Stato della Controriforma: «Tra tutte le leggi non ve n’è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de’ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri». «Questa è la ragion di Stato, fratel mio, obedir alla Chiesa cattolica», scriveva un discepolo di Botero, Giulio Cesare Capaccio, nel 1634.
Non risulta facilmente comprensibile come questa "precedenza" del legame unificante si accordi con l’altra affermazione di Böckenförde, questa sì pienamente conforme all’idea dello Stato secolare basato sulla libertà, che «la religione si dispiega [...] nella società civile e nel suo ordinamento» e che da lì, dalla società, potrebbe influenzare lo Stato, quale «organizzazione vincolante dell’umana convivenza». Se così fosse, non ci sarebbe infatti nessun bisogno di postulare un legame unificante che "preceda la libertà": esso si formerebbe infatti, precisamente, nella libertà.
È in questa "precedenza" che si annida la questione. Le fedi religiose non sono affatto un problema per la democrazia liberale - l’odierno Stato secolare basato sulla libertà -, anzi ne possono essere forza costitutiva nella misura nella quale i credenti si impegnino, sulla base delle loro credenze, nella sfera della società civile. Il problema non sono i credenti ma è la Chiesa, quando chiede e ottiene alleanza con lo Stato, per offrirgli "garanzie"; simmetricamente, il problema è anche lo Stato, quando offre alla Chiesa questa alleanza interessata. Noi, in Italia, conosciamo bene questo rapporto di reciproco sostegno e lo conosciamo nella forma più esplicita, quella del Cattolicesimo "religione di Stato", esistente fino a subito prima della Costituzione repubblicana, dallo Statuto Albertino fino al fascismo.
L’idea di un legame sostanziale unificante precedente la libertà corrisponde a un’idea di democrazia protetta, a sovranità limitata. E infatti, nelle discussioni odierne su problemi pubblici di pregnante contenuto etico, sui quali la Chiesa come tale chiede la parola, la loro dimensione costituzionale è totalmente trascurata o oltrepassata. Sulla disciplina delle relazioni familiari e dei legami interpersonali, tra persone di sessi diversi o anche del medesimo sesso; sui limiti della ricerca e della sperimentazione scientifica, in rapporto alla dignità dell’essere umano; sull’autodeterminazione delle persone sottoposte a trattamenti medici forzati, ecc., la Costituzione e la giurisprudenza della Corte costituzionale contengono indicazioni certo non trascurabili, per chi pensa che i fondamenti etici della convivenza siano da ricercare nella libertà; invece, essi sono ignorati da parte di chi ragiona "precedendo" l’esercizio della libertà che ha portato alla formulazione dei principi della Costituzione. Così come, più in generale, sono ignorati sia il principio di laicità sia i suoi contenuti, quali determinati dalla giurisprudenza costituzionale. Le divagazione su "nuove", "sane" ecc. laicità che provengono numerose da ambienti ecclesiastici e si riversano nelle audizioni parlamentari, tutte le volte in cui si discute di politica ecclesiastica, sembrano non conoscere o, almeno, non tenere in conto i vincoli costituzionali, come il principio di equidistanza e il divieto, per lo Stato, di ricorrere a obbligazioni religiose per rafforzare le obbligazioni civili e, al contrario, il divieto, per la Chiesa, di ricorrere a mezzi statali per rafforzare i vincoli religiosi. La proposta del cristianesimo come legame unificante precedente contraddice precisamente questa separazione.
Lo Stato secolare basato sulla libertà deve dunque, per così dire, reggersi e camminare con le energie spirituali che la società deve avere in sé, senza delegarle ad altri. E questo, naturalmente, è un problema che non può essere trascurato. Ma è un problema sociale, non politico o statale. Si dirà: il legame tra la religione e la politica e quindi lo Stato è un legame profondo, tutt’altro che accidentale. Lo si vede all’opera dalla preistoria fino quasi ai nostri giorni. E anche oggi, può apparire che lo Stato secolarizzato dell’Europa occidentale, rispetto al resto del mondo, sia soltanto una deviazione, un Sonderweg, secondo l’espressione di Jürgen Habermas, destinato in breve a rientrare. E perfino il più radicale movimento politico fondato sull’immanenza, la Rivoluzione francese, ha sentito l’esigenza di divinizzare il suo regime. Invece, le società secolari odierne basate sulla libertà pensano di farne a meno, per fondare i propri Stati. Ma la rinuncia a usare un Dio per i propri fini politici non è forse, precisamente, la grande sfida ch’esse hanno accettato "per amore della libertà"?
intervista a Gianni Vattimo
"Sulla dolce morte c’è ipocrisia in Italia molti casi nel silenzio"
a cura di Paolo Griseri (la Repubblica, 18 febbraio 2010)
L’unica cosa da evitare, in casi come questi, è l’ipocrisia. Il filosofo Gianni Vattimo sintetizza così il suo commento sulla vicenda Gosling: «La verità è che, anche in Italia, la libertà delle scelte dipende dalla classe sociale. Chi può si rivolge a un amico medico e nessuno sa nulla. Poi tutti discutono dei massimi principi».
Professor Vattimo, anni fa lei rivelò di aver fatto un patto con il suo compagno. Il caso Gosling è simile al suo?
«La principale differenza è che, a quanto risulta, il compagno di Gosling era lucido e cosciente. Noi avevamo stabilito che scelte di questo genere le avremmo compiute solo nel caso in cui uno dei due non fosse più consapevole».
Chi avrebbe dovuto materialmente compiere il gesto estremo?
«Ci siamo iscritti tutti e due ad un’associazione svizzera che si chiama Dignitas. Siamo andati a Zurigo e abbiamo aderito sapendo che sarebbe stato un ospedale di quella città ad accompagnarci nell’ultimo ricovero».
Una scelta che conferma oggi?
«Il mio compagno è morto nel suo letto, non abbiamo avuto bisogno di rivolgerci all’associazione. Ma io ho continuato a pagare la quota: ogni anno spendo 150 euro. L’obolo è l’occasione per riflettere. Ci sono momenti in cui mi immagino come un incubo di essere all’ingresso dell’ospedale di Zurigo ad accompagnare qualcun altro. Sono contento di non aver dovuto accompagnare il mio amico».
Lei è favorevole all’eutanasia?
«Assolutamente sì».
Si sarebbe comportato come Gosling?
«Non conosco il caso specifico ma certo se una persona che soffre mi chiedesse di farlo, credo che lo farei».
Lei continua a professarsi cattolico, nonostante queste sue posizioni?
«Certo».
Non c’è contraddizione tra questa sua posizione e la dottrina della Chiesa?
«Il fatto è che la morale cattolica è stata tutta virata sul tema della difesa della vita biologica. Una posizione strumentale, legata alle battaglie sull’aborto. Una posizione che contrasta con gli stessi insegnamenti della chiesa. La sopravvivenza biologica e la vita sono due cose diverse. Altrimenti non c’è differenza tra la masturbazione e il genocidio. Ma anche il martirio sarebbe in contrasto con quella dottrina. Da bambini ci indicavano come modelli i santi che avevano scelto il motto: "la morte ma non il peccato"».
Che cosa è cambiato da allora? Non è più vero? Lei sarebbe favorevole a una modifica dell’attuale legge italiana?
«Ovviamente. Altrimenti anche la mia iscrizione all’associazione svizzera rischia di diventare inutile».
Come mai?
«Perché in Italia l’omicidio del consenziente è vietato. E sarebbe trattato da complice di omicidio chi acconsentisse alla mia richiesta e mi trasferisse a Zurigo. Spero che, se fosse necessario, si trovi qualche amico disposto ad accompagnarmi almeno al confine. Spero soprattutto, ma temo che non succederà, che la legge italiana sia un giorno in grado di distinguere tra la sopravvivenza biologica e la vita».
In caso contrario?
«In caso contrario le cose continueranno ad andare come oggi: chi può trova un amico medico e chi non può soffre fino alla fine. Possiamo dirla così: le classi sociali più elevate se la cavano e gli altri si arrangiano».
la Repubblica, 29.03.2009
Englaro: la legge è un’offesa alla libertà dei cittadini
FIRENZE - «Più che un’offesa a Eluana, il ddl sul testamento biologico è un’offesa alle libertà fondamentali di tutti i cittadini». Lo ha detto Beppino Englaro durante una conferenza stampa a Firenze, città che domani gli conferirà la cittadinanza onoraria. Il padre di Eluana ha poi usato le parole del presidente della Camera Gianfranco Fini pronunciate dal palco del Pdl per affermare che il ddl sul biotestamento è «più da stato etico che laico».
Englaro ha poi replicato all’arcivescovo Giuseppe Betori che aveva criticato fortemente la decisione del Comune (22 voti contro 16) di nominarlo cittadino onorario. «Ho il massimo rispetto per le istituzioni religiose - ha commentato Englaro - ma penso che loro non abbiano il massimo rispetto per me».
Il padre di Eluana, ha ricevuto a Palazzo Vecchio a Firenze la cittadinanza onoraria. E’ stato accolto da un lunghissimo applauso dei politici e cittadini presenti. Contemporaneamente i consiglieri comunali del Pdl sono usciti dall’aula per protestare
La cittadinanza onoraria di Firenze consegnata oggi a Beppino Englaro è in realtà "stata consegnata ad Eluana, che era ribelle come è ribelle da sempre Firenze". Così il padre della ragazza morta dopo 17 anni di coma ha ringraziato il Consiglio comunale fiorentino che oggi, riunito in seduta straordinaria, gli ha consegnato il riconoscimento e il Giglio d’Oro. La cerimonia è stata presieduta dal presidente dell’ Assemblea Eros Cruccolini mentre la motivazione è stata letta dall’assessore alla cultura Eugenio Giani. Assente il sindaco Leonardo Domenici, a Roma per l’Anci. E assenza polemica anche dei consiglieri del centrodestra che sono usciti nel momento in cui Cruccolini ha dichiarato aperto il Consiglio straordinario.
All’arrivo di Englaro il pubblico ha cominciato a gridare ’bravo’ e ’c’è bisogno di persone cosi", mentre ai consiglieri del Pdl lo stesso pubblico diceva ’fuori’. Un uomo, medico, ha cercato di esporre un cartello con scritto ’Firenze inneggia alla morte’ ma è stato bloccato dai vigili.
Englaro: "Questa onorificenza è per Eluana". "L’irriducibilità per la libertà che è nel Dna dei fiorentini era anche nel Dna di Eluana - ha proseguito Beppino Englaro - e quindi lo spirito fiorentino e quella di mia figlia sono in perfetta armonia: sono irriducibili contro tutte le forme di oppressione e di autoritarismo", e soprattutto pronti a lottare per "la libertà contro tutti gli oppressori". Englaro nel suo intervento ha ringraziato il presidente del Consiglio comunale Cruccolini, il capogruppo del Ps, Alessandro Falciani, che aveva presentato la mozione per la cittadinanza onoraria, e anche il sindaco.
Il Pdl lascia l’aula. All’inizio della cerimonia i consiglieri comunali del Pdl sono usciti dall’aula per protestare contro il conferimento dell’onorificenza. I rappresentanti del gruppo in consiglio hanno consegnato a Beppino Englaro una lettera per spiegare le loro motivazioni. "Abbiamo rispetto - scrivono gli esponenti del centrodestra nella lettera - per il dramma personale da lei vissuto con grande sofferenza, ma non riteniamo che esso possa costituire titolo per l’ottenimento di una cittadinanza onoraria. La decisione assunta, a maggioranza, è stata improvvida e improvvisa. Il consiglio le conferirà la cittadinanza sulla base di motivazioni non condivise dall’intera città compiendo una forzatura che non ha altra spiegazione se non forse quella di voler apportare con un atto simbolico il proprio irresponsabile contributo alla campagna di legittimazione dell’eutanasia. La cittadinanza - conclude la lettera - sarà moralmente dimezzata".
"Per capire il dramma di Eluana occorre tempo". A chi gli chiedeva cosa pensasse dei consiglieri del Pdl che hanno abbandonato l’aula quando è iniziata la seduta straordinaria, mentre suonavano le chiarine, Beppino Englaro ha risposto: "Ho i massimo rispetto per queste persone, sono problematiche molto difficili e serve un approfondimento. Io stesso - ha aggiunto - ci ho messo molto tempo a capire. Non mi meraviglio, è l’argomento del fine vita che è tremendo e spacca le coscienze. Sarà il tempo a chiarire". Poi, al termine della cerimonia ha ricordato la gita fatta con la moglie e Eluana a Firenze "nell’89 o il ’90: Eluana era rimasta affascinata da Firenze - ha concluso - ma come si fa a non rimanere affascinati della nostra citta’".
* la Repubblica,/Firenze, 30 marzo 2009
Don Santoro: "Il Vangelo parla d’amore nel mio vescovo questo amore non l’ho visto"
Don Santoro lo saluta e dice: in questa chiesa non mi riconosco più. Un’ora di colloquio col sindaco Domenici che firma la cittadinanza. Incontri all’Isolotto, alle Piagge e al Puccini. Oggi in consiglio comunale
di Simona Poli
Le baracche di Enzo Mazzi all’Isolotto, quelle di don Santoro alle Piagge. E’ questa la Firenze che accoglie Beppino Englaro a cui a mezzogiorno in Palazzo Vecchio verrà data la cittadinanza onoraria firmata ieri dal presidente del consiglio comunale Eros Cruccolini e dal sindaco Leonardo Domenici, che con Englaro ha parlato per un’ora da solo nel suo studio, spiegando che oggi sarà assente per impegni istituzionali. Più di quella pergamena ufficiale, che porta con sé anche gli strascichi di una poco edificante polemica politica, vale forse il patto di alleanza che in questi giorni si è creato in modo spontaneo tra Englaro e la gente che gli è andata incontro per ascoltarlo. Generazioni, storie e destini diversi, uomini e donne che ciascuno a suo modo nella vicenda di Eluana trovano fonte di riflessione per ripensare se stessi. E’ il caso di Alessandro Santoro, che di fronte ad Englaro pronuncia la pubblica confessione di un prete che si sente smarrito: «Dopo questo baccanale osceno si può solo chiedere perdono come fece il figliol prodigo nella parabola raccontata da Gesù», dice nel silenzio perfetto della sala in cui sono sedute decine di persone. «Sono profondamente disturbato da questa ostentata onniscienza della Chiesa in cui non riesco più a riconoscermi. Di quel cristianesimo non so che farmene, il Vangelo di fronte alla vita usa solo la parola amore, che significa avvicinarsi all’altro e al suo mistero per riconoscersi. Nel mio vescovo questo amore non l’ho visto».
Englaro quasi non ci crede: «Ero un randagio che abbaiava alla luna, per tanto tempo nessuno mi ha voluto dare ascolto. E ora arrivo qui, a Firenze, e mi sento dire quelle parole semplici e dirette che sembrava impossibile poter udire». Lo ripete più volte, anche la sera al Teatro Puccini dove l’associazione "Liberi di decidere", che ha già raccolto tremila testamenti biologici certificati da un notaio, ha voluto invitarlo insieme a Paolo Flores d’Arcais per dare un segnale concreto di sostegno a una battaglia civile che era nata solitaria ed è ora diventata la battaglia di molti dopo l’approvazione al Senato del testo di legge sul fine vita.
Tantissime persone vicino ad Englaro, anche molto giovani. Alle dieci di mattina è già affollata la casetta in cui ogni domenica si riunisce la comunità dell’Isolotto per celebrare la sua "messa laica" col pane fatto in casa al posto dell’ostia e le preghiere scritte a mano sui fogli di carta al posto del breviario. E’ un dialogo ricco ma senza contrapposizioni, chi è venuto qui lo ha fatto per mostrare comprensione e affetto ad un padre costretto ad affrontare fin troppo dolore. Senza pregiudizi, senza nessuna voglia di attaccarlo, di giudicarlo.
Anzi. Tra i messaggi di solidarietà arrivano quelli di un monaco di San Miniato al Monte, Bernardo Francesco Maria, dell’ex prete operaio Renzo Fanfani, delle comunità cristiane di base, di don Fabio Masi della parrocchia di Santo Stefano a Paterno, del presidente del quartiere 4. A parte Cruccolini, due soli politici presenti, Valdo Spini e il consigliere dei Socialisti Alessandro Falciani, che è stato l’ideatore della proposta di cittadinanza e che ha accompagnato Englaro in ogni suo appuntamento fiorentino. «L’Eluana era la persona più libera del mondo, amava tutti e adesso sarà amata da tutti, lo dice sempre la sua mamma», racconta Beppino sorridendo. «Per noi in famiglia questi concetti erano chiarissimi, li avevamo approfonditi, li davamo per scontati. L’Eluana era convinta che la vita è libertà e non condanna a vivere. Non mi sarei mai immaginato di diventare l’unico a combattere per il rispetto di principi che a me sembrano incontestabili. Non avevo scelta, dovevo affrontare la questione pubblicamente perché sono convinto che la vera libertà è dentro la società».
Diciassette anni di solitudine e poi quella sentenza della Cassazione del 16 ottobre 2007: «Dobbiamo essere fieri della nostra magistratura, i giudici non si sono lasciati condizionare dalla politica, che pure ci ha provato in tutti i modi. Sono certo che quella sentenza verrà riletta, studiata e capita perché lì è finalmente tutto molto chiaro. Non si può imporre con la violenza un trattamento che tiene in vita una vita che non esiste in natura. La vicenda di Eluana non va contro nessuno».
Della capacità di accettare la morte e di come lo Stato debba garantire a ciascuno di poter scegliere in che modo essere o non essere assistito nella fase terminale della vita, Englaro parla per oltre un’ora col sindaco Domenici, in un colloquio privato che si conclude con la firma del documento per la cittadinanza onoraria. «Sul biotestamento c’è una questione di diritti, di libertà e di autodeterminazione delle persone e della loro volontà che deve essere affrontata - io me lo auguro - andando al di là della polemica o della contrapposizione tutta politica», dice il sindaco. «Non ci divide il fatto di considerare sacra la vita umana, almeno per quanto mi riguarda. Abbiamo punti di vista diversi sul modo di attuare e rispettare la dignità e, per certi versi, la stessa sacralità della vita». Englaro saluta con sollievo la notizia che anche Bondi si è schierato a fianco di Fini nella critica alla legge passata in Senato: «Non mi sorprende perché con Bondi avevo parlato e sapevo che certe cose erano state capite. Ci sono tutte le premesse perché il testo alla Camera venga modificato». La questione torna centrale sia durante il dibattito serale al Puccini che nel pomeriggio, quando don Santoro la affronta dal suo punto di vista di sacerdote. «Credo che per la Chiesa sia importante difendere la vita ma senza imporre nessuna verità. Mi riconosco nella chiesa di Gesù, in questa non riesco a starci. Lo dico davanti a te, Englaro, perché non ho l’arroganza di pensare di aver visto Dio ma l’unico Dio possibile che posso intravedere, eventualmente, è nel dolore composto, nella fede laica profonda della vita, in questa battaglia civile che tu hai deciso di portare avanti, affrontando attacchi strumentali e il baccanale osceno di persone che hanno ostentato preghiere, rosari e parole senza senso».
* La Repubblica/Firenze,30 marzo 2009
La nuova pillola si chiama sondino
La Chiesa e il bio-testamento
di Maurizio Mori, presidente Consulta di bioetica
(l’Unità, 22.02.2009)
Tanti oratori si susseguono nella piazza piena sino alle sette di sera. «La nostra non è una battaglia di parte, riguarda la libertà di tutti». È in difesa della Costituzione che garantisce l’inviolabilità della persona.
Perché i cattolici, in buona parte, insistono tanto nell’affermare che la alimentazione e idratazione artificiale sono solo una forma di “sostegno vitale” contro il parere delle associazioni scientifiche? Come ha dichiarato la Sinpe nel gennaio 2007 (la Sinpe è la Società italiana di nutrizione artificiale - parenterale ed enterale - e metabolismo) la nutrizione artificiale «è un trattamento medico a tutti gli effetti; non è una misura ordinaria di assistenza (come lavare o imboccare il malato non autosufficiente); si configura come la ventilazione meccanica o la emodialisi». La risposta alla domanda iniziale è semplice: se non è un trattamento medico come gli altri, allora non può essere oggetto di testamento biologico, atto che riguarda solo la sospensione di terapie mediche. Anche questa tesi è inconsistente, perché qualsiasi atto sulla persona è illegittimo senza il consenso. Ma perché puntare su un contrasto tanto palese e acuto?
Di solito lo si spiega con l’atteggiamento antiscientifico ancora diffuso. C’è molto di vero in questa spiegazione, che però non considera la mentalità sottesa all’altro modo di ragionare, in cui la nutrizione artificiale non va mai sospesa «per l’immenso valore simbolico» che avrebbe. Chi crede che sia un trattamento medico mette in campo dei fatti, mentre gli altri rimandano a simboli - aspetto che rivela come si parlino due lingue diverse.
L’immenso valore in gioco è la indisponibilità o sacralità della vita umana. Un tempo questo valore era insito nell’esistenza quotidiana, ora va affermato almeno solo a livello simbolico. Ma con determinazione fino all’intransigenza per evitare il ripetersi di ciò che è accaduto negli anni ‘60 con la riproduzione. L’incertezza nel condannare la pillola contraccettiva ha finito per avvallare la tesi che le persone hanno la facoltà di controllare le sorgenti della vita. Per contenere la frana c’è voluto il blocco sull’aborto prima e sull’embrione poi, ma la battaglia è partita in svantaggio per via degli iniziali dubbi.
Per la gerarchia ecclesiastica va evitato un errore analogo sul fine della vita. L’appello alla pietà nelle condizioni tragiche non deve diventare veicolo dell’autodeterminazione. Si può concedere che, in casi eccezionali, quando non c’è più niente da fare e il paziente è ormai uno straccio che non ce la fa proprio più, lo si lasci andare. Ma non deve essere lui a decidere, perché va sempre rispettato il ritmo sacro della vita e della morte. Va riaffermato il valore simbolico della nutrizione artificiale per lasciare il pungiglione della sacralità della vita nella nuova situazione del mondo, nella speranza di tempi migliori per ristabilire l’ordine ora perduto. Come si cerca di fare con la riproduzione.
Il corpo come luogo pubblico
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 22.02.2009)
Con il passare dei giorni si fa più netta la natura del conflitto intorno al tema del testamento biologico, che nella prossima settimana verrà discusso al Senato. Nel fuoco delle polemiche che hanno accompagnato le ultime giornate della vita di Eluana Englaro sembrava che una legge dovesse avere una finalità precisa, quella di risolvere le due questioni che avevano appassionato e diviso l’opinione pubblica: le modalità del testamento biologico, per eliminare ogni dubbio sull’effettiva volontà della persona; e l’ammissibilità della rinuncia all’idratazione e alla alimentazione forzata. Ma il disegno di legge della maggioranza ha reso manifesta un’intenzione diversa, più generale, e tanto più inquietante perché incide profondamente sui diritti fondamentali della persona, e così altera lo stesso quadro costituzionale.
Ciò di cui si discute è il rapporto della persona con il suo corpo, dunque l’area più intima e segreta dell’esistenza, alla quale la politica e la legge dovrebbero accostarsi con rispetto e prudenza, consapevoli che vi sono aspetti della vita che la Costituzione ha messo al riparo da ogni intervento esterno, che ha voluto intoccabili.
Negli ultimi anni, invece, in Italia si è venuto consolidando un orientamento diverso, che descriverei ricorrendo al titolo di un libro di Barbara Duden: Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita. Del corpo della donna il legislatore si è pesantemente impadronito con l’autoritaria e proibizionista legge sulla procreazione assistita, negando la libertà femminile e creando davvero quel far west legislativo che si diceva di voler combattere. Oggi, infatti, migliaia di donne emigrano ogni anno in altri paesi per sfuggire agli assurdi divieti di quella legge, obbligate a pesanti costi finanziari e umani, mettendo pure a rischio la salute loro e dei figli che nasceranno.
Ora si vuole far diventare "pubblico" il corpo di tutti noi. Il rifiuto di cure, diritto ovunque riconosciuto e caposaldo della stessa soggettività morale, viene sostanzialmente negato dalla proposta della maggioranza. La sorte del corpo nel tempo del morire è sottratta alla libera decisione dell’interessato, viene affidata ad un medico investito del ruolo di funzionario di uno Stato etico che, appunto, ha proceduto alla "pubblicizzazione" del corpo.
Il testamento biologico diviene un simulacro vuoto, una formula che contiene il suo opposto. Si obbligano le persone ad un infinito iter burocratico, con obblighi continui di recarsi dal notaio, di chiedere firme del medico, di effettuare rinnovi periodici. Tutto questo per approdare al nulla. Il delirio formalistico non produce una volontà da rispettare, ma un "orientamento" che il medico può ignorare del tutto. E non solo viene esclusa la possibilità di rinunciare a trattamenti come l’alimentazione e l’idratazione forzata. Si finisce con il sottrarre alla libera scelta delle persone materie nelle quali il rifiuto è stato finora riconosciuto, dalla trasfusione di sangue alla dialisi, all’amputazione di un arto, al ricorso a tecniche meccaniche e farmacologiche.
Non è di una vicenda specifica, sia pur rilevantissima, di cui dobbiamo preoccuparci. Siamo di fronte ad una ideologia riduzionista del senso e della portata dei diritti fondamentali, che vuole impadronirsi dell’intera vita delle persone. Del nascere si è già impadronita, ora vuole farlo per il morire, e pone pesanti ipoteche sul vivere, come accade quando si rifiuta ogni riconoscimento alle unioni di fatto.
Mettendo così le mani sulla vita delle persone, si mettono pure le mani sulla prima parte della Costituzione che, a parole, si continua a proclamare intoccabile. Si manipolano principi fondativi del nostro sistema, che la Corte costituzionale ha dichiarato immodificabili. E tutto questo avviene mentre tutte le rilevazioni ci dicono che la maggioranza dei cittadini interpellati ritiene che proprio le decisioni sulla vita debbano rimanere patrimonio dell’interessato e della sua famiglia. Si apre così non solo una questione di rispetto della Costituzione, ma di rappresentanza politica. Molti, sempre di più e più spesso, si riuniscono, scendono in piazza. In quali luoghi della politica ufficiale arriverà questa voce?
Beppino Englaro è intervenuto in audio al sit-in romano, poi da Fazio a "Che tempo che fa".
"Dobbiamo attenerci alla Costituzione"
"Per Eluana non hanno avuto rispetto lasciarsi morire è un nostro diritto"
"La mia battaglia da cittadino, chiunque potrebbe essere come mia figlia"
di C. P. (la Repubblica, 22.02.2009)
ROMA - Lo hanno chiamato boia, assassino. Ma Beppino Englaro ha sopportato in silenzio per mesi quelle accuse violente. «Ci sono riuscito solo perché ero a posto con la mia coscienza, sapevo che finalmente potevo rispettare le indicazioni di mia figlia Eluana. Per lei però mi sarei aspettato più rispetto». Lo ha raccontato ieri sera alla trasmissione «Che tempo che fa» con Fabio Fazio. Alla fine di una lunga giornata densa di parole. Con quei dieci lunghissimi minuti di applausi che da piazza Farnese sono saliti come un forte abbraccio quando si è sentita la sua voce al telefono da Milano. Dopo che il costituzionalista Rodotà lo aveva indicato come un «eroe civile». Con voce pacata ha ripetuto di non voler assolutamente entrare in politica, ma di voler far sì che la sua esperienza, i suoi «6233 giorni» di dolore possano essere utili per gli altri.
Sul disegno di legge Calabrò in discussione al Senato ha pochi dubbi. «Sono sicuro che gli italiani non si faranno imporre questa legge che è incostituzionale e antiscientifica. È una barbarie: considera alimentazione e idratazione non terapie e quindi irrifiutabili. Così si impongono condizioni di vita che praticamente nessuno si sognerebbe di dover subire. Una barbarie, imposta dall’alto. Ci vuole invece una legge semplice che dia voce e garantisca le libertà fondamentali, di dire sì o no alle terapie, in anticipo per quando non potrà farlo».
E con i molti che da piazza Farnese hanno fatto appello alla Costituzione, all’articolo 32 che, come dice il senatore del Pd Marino «ci dà il diritto alla salute ma non all’obbligatorietà delle cure», Beppino è d’accordo. «Noi ci dobbiamo attenere alla Costituzione. Che poi ci siano altre ideologie è chiaro che vanno rispettate, non ci sogneremmo mai di non rispettarle. Quello che loro non riescono a rispettare siamo noi, che abbiamo una concezione diametralmente opposta. Noi non ci sogneremmo mai di imporre a loro questo. Se vogliono essere curati oltre ogni limite vanno curati e nessuno può togliere loro questo diritto. Ma nessuno può togliere agli altri il diritto di non curarsi, di lasciarsi morire».
E sull’idratazione? «Una volta che la sentenza della Corte Suprema di Cassazione chiarisce che l’alimentazione e l’idratazione forzata sono una terapia, noi sappiamo che la grande conquista del consenso informato, dell’autodeterminazione, è parte integrante della Costituzione italiana». E sull’eutanasia: «Dire di no ad una terapia salvavita non ha niente a che vedere con l’eutanasia, nella maniera più assoluta. È semplicemente lasciare che la natura faccia il suo corso. È quasi banale non capire questa situazione. Una cosa è chiedere un’iniezione letale, un’altra e chiedere di lasciarsi morire: l’ha chiesto anche Giovanni Paolo II». (c. p.)
"Con questa legge si torna al medioevo"
Fine vita, migliaia in piazza per dire no
Roma, manifestazione gremita contro il ddl. "Se passa, referendum"
Sotto il palco tanta gente comune, giovani, anziani e famiglie senza bandiere di partito
di Caterina Pasolini (la Repubblica, 22.02.2009)
ROMA - «Il commissario Montalbano sarebbe sicuramente qui, anche se è già chiaro chi è il colpevole: una maggioranza, con un Berlusconi prono ai voleri del Vaticano, che ha preparato una legge per impedire a ciascuno di vivere e morire come vuole. Io sono qui perché non voglio avere la vergogna di andarmene lasciando ai miei nipoti un’Italia senza libertà devastata nella morale pubblica e privata. Una qualsiasi legge che limiti la libertà di scelta sarà usata come grimaldello per leggi sempre più restrittive».
Un lungo applauso accoglie lo scrittore Andrea Camilleri in una piazza Farnese stracolma di gente. A migliaia sono venuti alla manifestazione indetta da Micromega contro il disegno di legge sul testamento biologico voluto dal centro destra, un ddl «medievale» spiega il suo direttore Paolo Flores d’Arcais. «Perché la vita non è della chiesa né dello Stato, è di chi la vive. Noi siamo per la libertà di scelta, c’è chi vorrà le macchine staccate come Welby e chi no». E da più parti arriva la promessa, l’impegno: «se passa questo disegno di legge si farà il referendum».
Sotto il palco tanta gente comune. Giovani, pensionati, impiegati, dipendenti di call center, amiche in gruppo, genitori con i figli ancora in carrozzina. Non hanno bandiere di partito, solo qualche cartello in difesa della laicità dello Stato e contro il Vaticano. Sono genitori con bambini, come Roberto Ledda e la moglie convinti di «voler decidere noi della nostra fine perché l’unico comandamento è non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». Cattolici e pensionati come Angela Vita, professoressa di Lettere persuasa «che l’esistenza non è un valore assoluto senza la dignità e la libertà di scelta». O femministe d’antan come Andreina Andreotti, 60 anni, col suo cartello «giù le mani dalla mia vita e dalla mia morte», che non pensava di ritrovarsi in piazza tanti anni dopo per dire ancora «io sono mia», né della chiesa né dello stato.
E sono forti gli applausi quando il costituzionalista Stefano Rodotà parla di legge truffa «perché non è vincolante il parere del cittadino ed è incostituzionale visto che nega il diritto a rifiutare le cure», quando palesa i suoi timori per «una deriva autoritaria fondamentalista contraria quel 75 % di italiani che vuole decidere di persona o in famiglia sulla propria fine». Il succo del problema lo sottolinea Furio Colombo, senatore Pd: «Il Vaticano parla ma negli altri paesi europei fanno leggi secondo la loro coscienza. Da noi riesce invece ad imporsi grazie al caos nella maggioranza e ad un’ opposizione spaccata». Dal congresso del Pd arriva Marino, ex presidente della commissione sanità. Lunedì presenterà gli emendamenti al ddl «perché ognuno possa decidere, perché ci si occupi di terapie del dolore, aiuti alle persone in difficoltà». E il nuovo segretario Franceschini, assicura, è sulla stessa linea.
In piazza Paolo Ferrero di Rifondazione - «no ad una legge che è tortura di stato» e anche Antonio di Pietro, dell’Idv: «Questa manifestazione è la risposta a tanti mister tentenna e ad un governo che anche sulla morte vuole decidere lui sostituendosi ai cittadini. Io sono cattolico e non se se avrei il coraggio di decidere di farmi staccare la spina, ma se c’è qualcuno che vuole farlo io non ho il diritto di decidere per lui. Questo è un momento caldo per la laicità dello stato e va affrontato con gli antibiotici». Poi chiama Beppino Englaro, e quando sente la sua voce la folla lo abbraccia con dieci minuti di applausi.
Eluana: ma che c’entra l’eutanasia
di Vittorio Angiolini, professore di diritto costituzionale *
Moderiamo il linguaggio. In tanti Paesi dell’Europa e dell’Occidente ciò che i Giudici hanno autorizzato per Eluana Englaro, non è considerato eutanasia, bensì interruzione dei trattamenti di cura invasivi dell’altrui persona, i quali, se possono essere rifiutati da chi è in grado di opporsi consapevolmente, non possono essere praticati ad oltranza su chi, incapace di autodeterminarsi, è più bisognoso di tutela.
Questo distinguo giuridico è talora liquidato come sofisma. L’interrompere la nutrizione di Eluana Englaro è stato da taluni paragonato a una iniezione letale, sulla premessa, in apparenza limpida, che occorra incondizionatamente aiutare ed essere solidali. Ma la distinzione tra l’uccidere, anche di “buona morte”, e l’interrompere la cura ha, in diritto, solide basi.
Al contrario dell’eutanasia come “suicidio assistito” (ammessa in quanto tale, ad esempio, in Belgio e in Olanda), l’interruzione di trattamenti anche di sostegno vitale non comporta che il medico sia chiamato a provocare la morte, ma semmai sottolinea che le sue competenze non possono dargli titolo per intromettersi nella sfera altrui. È stato sostenuto, anche per Eluana Englaro, che l’interruzione dei trattamenti sarebbe stata contraria a prudenza, per il carattere sempre perfettibile della verità scientifica; e si è dimenticato, però, che nutrendola senza esserne richiesti, i medici l’hanno costretta a vivere per lungo tempo in una condizione disperata.
La questione è se, nel dubitare, si debba assumere il punto di vista del medico curante oppure, come parrebbe più congruo, quello del paziente. Il punto di vista del medico curante, in nome della precauzione, ci fa correre il rischio di trasformare l’uomo di scienza in un essere sovrumano, chiamato a prendere sulla vita di un altro decisioni non sostenute dal suo sapere scientifico. Quando, come nel caso di Eluana Englaro, la scienza non dimostri di poter corrispondere alle esigenze di chi dovrebbe essere curato, il consegnare la decisione sul da farsi al medico significa dare al medico stesso, come uomo tra altri uomini, il pre-potere di decidere, senza ragione, sulla sorte e sulla vita altrui.
Il limite alla cura, e dunque l’interruzione di trattamenti anche di sostegno vitale, vanno stabiliti per lo stesso motivo per cui si reputa di dover vietare l’“eutanasia”. L’obiettivo è scongiurare che un uomo, qualsiasi uomo, con l’intento genuino di salvare si arroghi un potere arbitrario sulla vita di altre persone. Nel respingere la “cultura dell’abbandono” e nell’essere solidali, bisogna rendersi conto che la forma in apparenza più avanzata di solidarietà, tradotta in divieto assoluto di dismettere la cura, può finire per confondere la stessa cura dell’altro con l’opprimerne la personalità, la libertà individuale con il potere oppressivo della stessa, la decisione scientifica con la rivendicazione di onnipotenza.
* l’Unità, 19.02.2009
AGLI AMICI, PER UN BISOGNO DI CONFIDARSI I PENSIERI IN ORE DIVERSE DI UNO STESSO GIORNO
di don Angelo Casati (già parroco a Milano Città studi)
9 febbraio ore 18
Che cos’è questa apparente contraddizione che mi segna dolorosamente da giorni? Da un lato una repulsione, un disgusto per le parole che senza il minimo pudore, spudorate, stanno violando il mistero che avvolge la vita di Eluana. Repulsione, disgusto per le parole e bisogno incontenibile di silenzio.
Ho letto nella Bibbia ciò che è bene. Ho letto: "E’ bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore". Poi ho visto credenti non aspettare in silenzio. Loro non aspettano. Loro non hanno niente da aspettare. Loro sanno.
Bisogno incontenibile di silenzio e paradossalmente bisogno di parole che abbiano il sapore buono del pane, da spartire con gli amici. Con gli amici e con la cerchia sconfinata di coloro che ancora aspettano la salvezza: non l’hanno imprigionata nei loro fantasmi, dando ad essi il nome di verità. Piccola sorella verità, piccola mia sorella, dissacrata come Eluana.
Bisogno dunque di altre parole, di parole impastate paradossalmente di silenzio, il silenzio del confidarsi. Il bisogno di sentire una voce, prima ancora e più ancora che sentire parole. Quasi per un bisogno di sentire di esistere, dentro il vuoto. Un bisogno di sostenersi gli uni gli altri, dentro la depravazione. Mi colpì in questi giorni un amico. Squilla il telefono, mi dice: "Sentivo il bisogno della tua voce". Sono, questi, giorni in cui sentiamo il bisogno di voci, il timbro della voce.
Da povero uomo come sono, da povero cristiano in avventura, dentro l’avventura della vita, mi sono dato un punto di discernimento. Discutibile fin che vuoi, ma in qualche misura, penso, efficace. Non dico "infallibile", ma "efficace". Mi sono detto: "quando parlano, osservali, capirai dalla loro voce, capirai dai loro occhi capirai. Capirai dove vanno i pensieri che li muovono. Dal tono della loro voce, dalla piega dei loro occhi, capirai ciò che veramente sta loro a cuore".
Ti dirò di più: anche le pagine scritte, se le ascolti svelano la voce e gli occhi. Li ho sorpresi in alcuni scritti in questi giorni. Ma se non trovi pietà, un’umana pietà, né nella voce né negli occhi, non indugiare, cerca altrove.
Mi sono guardato intorno in questi giorni e mi sono ricordato di Gesù, vangelo di Giovanni. Era il giorno in cui aveva rischiato le pietre, le aveva rischiate, dentro lo spazio sacro del tempio, le aveva rischiate dagli uomini della religione, quelli che la fede l’avviliscono al rango grigio di un prontuario di norme. "Uscì dal tempio" è scritto, quasi a dire che quando la religione subisce un tale avvilimento, devi uscire. Cercare altrove.
E il racconto, il racconto della vita, continua per le strade: "e mentre passava, vide un uomo cieco dalla nascita. E i suoi discepoli lo interrogarono dicendo: Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori perché nascesse cieco?" (Gv 9,1-2). Il verbo "vedere" è al singolare. Giusto il singolare! Gesù lo vede. Non ditemi che i discepoli lo "videro".Quel povero cieco per loro era un caso, un caso su cui discutere. Nessuno di loro a misurare quel dolore degli occhi spenti, un dolore che aveva il tempo di una vita: dalla nascita. E lui Gesù, infastidito dalle discussioni teologiche, in cui Dio è assente, perché Dio o è il Dio della compassione o non è! Loro discutevano il caso. Lui guardava il cieco con compassione, quella che ti prende per fremito alle viscere.
Ti dirò che ho sentito in questi giorno uomini politici e uomini di chiesa parlare come quei discepoli: Eluana per loro è un caso, una bandiera senz’anima, senza più colori. Guardali, ascoltali: parlano con gli occhi asciutti. I teoremi contano più del dolore. Si permettono - e dovremmo tutti insorgere per sacra indignazione - parole oscene, dentro l’abisso del dolore.
Parole che feriscono, come lama, il cuore. Parlano senza sapere, senza il vero sapere che o è sposato alla vita, quella reale o non è. O è sposato alla compassione o non è. Parlano da fuori, dai palazzi, come nei giorni di Welby, senza aver visitato, senza essersi seduti ad ascoltare. Non conoscono case, inseguono disegni, i loro, difendono se stessi con la più spudorata delle menzogne. Agitano bandiere, senza colore, perché se una donna o un uomo li defraudi della libertà di decidere, hai tolto tu loro ogni goccia di sangue, ogni colore, hai tolto loro il sangue e il colore della vita.
Mi è capitato spesso di chiedermi, in giorni come questi che ci tocca di vivere, se, in assenza di certezze assolute, non dovremmo tutti batterci, come fa con spirito indomito - faccio un nome tra i tanti - un’amica Roberta De Monticelli, perché almeno sia salva quest’ultima e prima istanza, quella della libertà, senza la quale non si è viventi, ma manichini, in mano ai poteri e ai loro disegni, fantasmi e cortigiani del nulla.
Ho sentito parole oscene, ma ho anche visto immagini per me, dico per me, oscene. Ho negli occhi da giorni l’immagine di un’autolettiga che esce da una clinica, presa quasi d’assalto, quasi si trattasse di una preda da conquistare. Guardavo gli occhi erano induriti dal livore, ho cercato invano segni di una umana pietà. Si mescolano rosari a urla minacciose, una pietà senza pietà e dunque spietata. Non ho visto silenzio di pianto. Ho visto difesa di bandiere. Ho sentito rabbrividendo parole infami, come quelle di chi gridava: "lasciatela a noi" quasi si parlasse di una cosa da tenere, come se Eluana non avesse né padre né madre, come se toccasse ad altri un possesso, per disconoscimento di padre e di madre. Le grida mi parvero per un attimo oscene. Dopo tanti discorsi tesi a rivalutare la famiglia, ora siamo giunti all’esproprio. E, ancora una volta, a chiedermi che cosa sia mai accaduto per renderci maledettamente senza pietà.
9 febbraio, ore 21
Il conduttore del telegiornale ha dato la notizia: "Eluana è morta". Ho visto una piega di dolore nei suoi occhi... Ha chiuso la trasmissione. Beppino Englaro chiede il silenzio. Il capo dello stato chiede il silenzio. La Bibbia nel libro delle Lamentazioni (3,26) chiede il silenzio: "E’ bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore". Gli occhi sono sul Parlamento, il Senato è in presa diretta. Ha un’occasione di ultima dignità. Che sia nell’orizzonte, invocato da molti, il minuto di silenzio che viene chiesto ai senatori? Non fu vero silenzio. Un’occasione di dignità perduta. Perdonate, ma io non credo al silenzio di chi tace per il breve spazio di un minuto e poi violenta, né credo alla preghiera di chi mormora al suo Dio e immediatamente dopo insulta. E’ anche vero che non tutti hanno dato questo squallido esempio. Ma rimane lo spettacolo indecoroso.
Mi ritiro. Nel silenzio.
Ora mi chiedo perché, pensando a Eluana, nella mente mi ritrovi la preghiera di Adriana Zarri:
EPIGRAFE
Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua resurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri.
P.S. Ho sentito qualcuno dire che dobbiamo gratitudine a Eluana perchè con i suoi diciassette anni di coma in stato vegetativo ci ha indotti a riflettere su temi essenziali come la vita, la morte, la sofferenza, la natura, la scienza, la libertà, la coscienza... Mi è venuto spontaneo pensare che destinatari della gratitudine fossero altri, fossero in verità Beppino Englaro e sua moglie. Senza il loro coraggio, la loro forza, la loro integrità e la loro lotta avremmo ancora a lungo allontanati temi di grande rilievo. Anche questo dobbiamo loro. La gratitudine va a loro. Però è anche bello pensare che in questa gratitudine sia accomunata loro figlia con cui hanno condiviso pensieri e sogni.
don Angelo
Quando la psiche è condannata a vegetare
di Franco Cordero (la Repubblica, 14.02.2009)
Tristi riflessioni sulla sventurata in stato vegetativo da diciassette anni: lasciamola andare, chiede il padre; niente lo vieta, rispondono i vertici giurisdizionali; andava stabilito se sia lecito interrompere l’alimentazione coatta. Interviene la gerarchia ecclesiastica, soi-disante suprema istanza nelle questioni supreme, de vita ac morte (la dottrina dell’aldilà fonda poteri molto terreni), e sarebbe una questione onestamente discutibile se la campagna non reinnescasse anacronismi d’antica ferocia cattolica nello stile «vivamaria», scatenando conflitti costituzionali.
Il pirata re d’affari, padrone de facto del paese, veste livrea ateo-clericale: i preti gli vengono utili nella conquista del poco Stato che rimane; perciò tenta un coup de main dei suoi, cambiare le norme decretando sul tamburo l’obbligo assoluto d’alimentare ogni corpo umano che versi nello stato d’E. E.
Fallita la mossa, perché il Presidente delle Repubblica non promulgherebbe tale decreto, e in tal senso l’avverte, l’eversore permanente, truculento analfabeta, minaccia un pandemonio: la Carta era nata sotto insegna filosovietica; chiamerà il popolo a riscriverla. Nell’Italia 2009 l’uso del pensiero è ancora provvisoriamente libero. Approfittiamone distinguendo nel caso de quo idee, fantasie, affetti, interessi, cinismo politico, moti viscerali.
Il mondo è un teatro dagli spettacoli spesso cattivi: tali risultano secondo metri umani evoluti; e se la messinscena corrispondesse al cosiddetto Intelligent Design, sarebbe un’intelligenza alquanto debole o maligna. Tiene banco il caso della donna il cui cervello è inerte, spento da un trauma diciassette anni fa: vegeta, alimentata con una sonda; stato irreversibile; il risveglio ha le probabilità d’una ricrescita della testa al decapitato; non basterebbe un miracolo (Baruch Spinoza, ebreo scomunicato, notava ironicamente come i miracoli stiano sul filo delle cause naturali, nei limiti d’una modesta anomalia); semiviva, non pensa né sente.
Che abbia bell’aspetto, come racconta un Eminentissimo testimone, è battuta d’umorismo macabro: dopo gli anni d’immobilità quel povero corpo sa d’albero atrofico; e il padre chiede all’autorità tutelare un provvedimento che permetta la sospensione del nutrimento coatto. Lasciamola andare dove finiremo tutti. Corte d’appello e Cassazione rispondono in termini positivi.
Mater Ecclesia lancia anatemi: la paziente (termine improprio, visto che «non patitur», mancandole i sensi) è persona; ha un’anima; toglierle acqua e alimenti costituisce omicidio. Il caso tocca nervi scoperti. L’apparato ecclesiastico è l’ancora ragguardevole resto d’un impero fondato sull’aldilà: sacramenti, suffragi, indulgenze; quando la moneta tintinna nella cassa, l’anima purgante vola in paradiso, annuncia Johann Tetzel, 1517, domenicano, predicando l’indulgenza bandita nei domini tedeschi episcopali e Brandeburgo, i cui proventi Sua Santità Leone X spartisce con Alberto Hohenzollern e l’Imperatore Massimiliano.
Lutero, monaco agostiniano, contesta lo pseudocristiano affarismo papale. I cultori del potere non demordono e la Chiesa romana perde mezza Europa. Cinque secoli dopo perdurano logiche profonde: interessi molto terreni spiegano l’anacronismo cattolico; scendono in campo rumorosi vivamaria; sfila l’ateismo clericale e presto piangeranno le Madonne. Ma vediamo la questione teologale.
«Anima», dal greco ánemos, vento. Iliade e Odissea non dicono cosa sia, finché il corpo vive: poi esce dalla bocca o attraverso la ferita mortale; non era il principio vitale; chiamiamo «vita» le operazioni d’un corpo vivo, finite le quali la psyché vola via, ombra o éidolon. Il rogo la separa definitivamente dal mondo: e sono residui fatui quelle che Odisseo evoca alle porte d’Ade; solo dopo avere bevuto il sangue delle vittime riacquistano un’effimera identità cosciente. In dottrina orfica diventa l’autentica persona, chiusa nel corpo (prigione o tomba) e destinata a reincarnarsi finché riti salutari la liberino dal ciclo. Platone insegna un’immortalità individuale: l’anima appartiene al mondo soprasensibile, come le idee (tale parentela costituisce un punto oscuro della fantasmagoria platonica); la filosofia diventa metodo della morte salutare.
Aristotele ne distingue tre: vegetativa, sensitiva, intellettiva; le prime due sono un ectoplasma verbale, operazioni dell’organismo vivo (qui l’autore ragiona da fisiologo); l’ultima è indipendente dal corpo; agisce ab extra, immortale, divina, impersonale (secondo Alessandro d’Afrodisia e Averroè). Sant’Agostino la concepisce nel senso platonico, sub-stantia, ma rimane perplesso su come venga al mondo, creata singolarmente da Dio o connessa al processo genetico, «ex traduce».
San Tommaso assimila Aristotele fin dove i dogmi lo permettono: ogni tanto gioca sulle parole; qui postula il «demonstrandum», che l’organismo vivo contenga un quid distinto dallo stesso. Mosse simili violano una regola capitale d’economia del pensiero, formulata dall’inglese Guglielmo d’Occam, francescano ribelle (1280-1349 circa), ma l’applicavano e l’applicano d’istinto tutti i ragionatori seri: mai presupporre più del necessario; se A e B spiegano C, ogni premessa in più confonde i discorsi o produce schiume verbali vaniloque, mai innocue.
Il corpo nel quale siano attive date funzioni, ora surrogabili dal lavoro d’una macchina, vegeta: attribuire tale stato all’anima vegetativa è abuso verbale; idem la sensitiva, né le cose stanno diversamente rispetto all’intellettiva; chiamiamo vita psichica date situazioni organiche implicanti midollo, cervello, nervi, ghiandole, organi percettivi.
Dal lavoro scientifico emergono quadri causali indefinitamente perfettibili: l’ipotesi cade quando il fenomeno in questione manchi, presente l’asserito fattore; o ricorra sebbene manchi lo stesso; i termini ridondanti la mistificano, tanto più quando non significhino niente o discendano da livelli mentali primitivi, come se, dovendo dire cosa siano i temporali, oltre a vapori, temperatura, cariche elettriche, tirassimo in ballo Jovem pluvium.
Così discorre san Tommaso: avendo stabilito che debba esservi un’«anima rationalis», ne disegna la storia: la crea Dio attraverso innumerevoli interventi nel tempo, tanti quanti furono, sono, saranno gli animali umani. In qual modo la crea? Infondendola al corpo: «haereticum est» dire che venga dal seme, un’opinione sfiorata da sant’Agostino in fraterna polemica con san Girolamo.
Situata al grado infimo delle «substantiae intellectuales», diversamente dagli angeli «non habet» un’innata «notitiam veritatis»: l’acquista attraverso cognizioni fornite dai sensi; bisognava dunque che fosse legata al corpo, ma «est incorporea», incorruttibile, immortale, i quali ultimi due predicati implicano una scissione dalla materia organica con gravi paradossi; siccome informa l’intero corpo, non risiede in una singola parte; né cambia mai involucro. Tuttavia esistono anime separate: uno stato «quodammodo contra naturam», transitorio perché alla fine i corpi risorgono; e separandosi subisce una mutazione; ormai è fissa nel senso buono o cattivo; «habet voluntatem immobilem» (Summa Theologiae, Commento a Pier Lombardo, Opuscula). Secondo i metri dell’empiricamente plausibile, la fiaba tomista segna un regresso dalla visione omerica degli éidola.
Su tali fondamenti, piuttosto esigui, l’apparato ecclesiastico ha aperto una campagna trovando alta udienza. Non stupisce, visto che governa l’Italia un pirata, re d’affari: ateo come tutti i caimani, veste livrea clericale; da trent’anni spaccia oppio televisivo e aborre l’intelligenza ma non sbaglia un colpo nei calcoli del tornaconto; sostenuto dai preti, occuperà i rimasugli dello Stato; perciò voleva scardinare la res iudicata imponendo il nutrimento coatto con norme penali decretate d’urgenza. Dal Quirinale arriva un avviso: l’eventuale decreto non sarebbe promulgato; e lui minaccia rendiconti plebiscitari.
Ventiquattr’ore dopo insulta il padre d’E. E. spiegando a milioni d’italiani che vuol disfarsi della figlia scomoda (l’aveva già detto un monsignore): la proclama idonea a gravidanza e parto; farfuglia torvo d’una Carta da riscrivere; vuol legiferare da solo, mediante decreti, in una corte dei miracoli tra asini che dicano sì muovendo la testa.
Siccome siamo in tema d’anime, ripuliamola con l’ultima strofa dei Poèmes antiques: «Et toi, Divine Mort, où tout rentre et s’efface,/ accueille tes enfants dans ton sein étoilé;/ affranchis-nous du temps, du nombre et de l’espace,/ et rends-nous le repos que la vie a troublé». Leconte de Lisle, 1818-1894, aveva gusti fini e sentimento caritatevole.
Chiedete scusa a Beppino Englaro
di ROBERTO SAVIANO *
DA ITALIANO sento solo la necessità di sperare che il mio paese chieda scusa a Beppino Englaro. Scusa perché si è dimostrato, agli occhi del mondo, un paese crudele, incapace di capire la sofferenza di un uomo e di una donna malata. Scusa perché si è messo a urlare, e accusare, facendo il tifo per una parte e per l’altra, senza che vi fossero parti da difendere.
Qui non si tratta di essere per la vita o per la morte. Non è così. Beppino Englaro non certo tifava per la morte di Eluana, persino il suo sguardo porta i tratti del dolore di un padre che ha perso ogni speranza di felicità - e persino di bellezza - attraverso la sofferenza di sua figlia. Beppino andava e va assolutamente rispettato come uomo e come cittadino anche e soprattutto se non si condividono le sue idee. Perché si è rivolto alle istituzioni e combattendo all’interno delle istituzioni e con le istituzioni, ha solo chiesto che la sentenza della Suprema Corte venisse rispettata.
Senza dubbio chi non condivide la posizione di Beppino (e quella che Eluana innegabilmente aveva espresso in vita) aveva il diritto e, imposto dalla propria coscienza, il dovere di manifestare la contrarietà a interrompere un’alimentazione e un’idratazione che per anni sono avvenute attraverso un sondino. Ma la battaglia doveva essere fatta sulla coscienza e non cercando in ogni modo di interferire con una decisione sulla quale la magistratura si stava interrogando da tempo.
Beppino ha chiesto alla legge e la legge, dopo anni di appelli e ricorsi, gli ha confermato che ciò che chiedeva era un suo diritto. È bastato questo per innescare rabbia e odio nei suoi confronti? Ma la carità cristiana è quella che lo fa chiamare assassino? Dalla storia cristiana ho imparato ha riconoscere il dolore altrui prima d’ogni cosa. E a capirlo e sentirlo nella propria carne. E invece qualcuno che nulla sa del dolore per una figlia immobile in un letto, paragona Beppino al "Conte Ugolino" che per fame divora i propri figli? E osano dire queste porcherie in nome di un credo religioso. Ma non è così. Io conosco una chiesa che è l’unica a operare nei territori più difficili, vicina alle situazioni più disperate, unica che dà dignità di vita ai migranti, a chi è ignorato dalle istituzioni, a chi non riesce a galleggiare in questa crisi. Unica nel dare cibo e nell’essere presente verso chi da nessuno troverebbe ascolto. I padri comboniani e la comunità di sant’Egidio, il cardinale Crescenzio Sepe e il cardinale Carlo Maria Martini, sono ordini, associazioni, personalità cristiane fondamentali per la sopravvivenza della dignità del nostro Paese.
Conosco questa storia cristiana. Non quella dell’accusa a un padre inerme che dalla sua ha solo l’arma del diritto. Beppino per rispetto a sua figlia ha diffuso foto di Eluana sorridente e bellissima, proprio per ricordarla in vita, ma poteva mostrare il viso deformato - smunto? Gonfio? - le orecchie divenute callose e la bava che cola, un corpo senza espressione e senza capelli. Ma non voleva vincere con la forza del ricatto dell’immagine, gli bastava la forza di quel diritto che permette all’essere umano, in quanto tale, di poter decidere del proprio destino. A chi pretende di crearsi credito con la chiesa ostentando vicinanza a Eluana chiedo, dov’era quando la chiesa tuonava contro la guerra in Iraq? E dov’è quando la chiesa chiede umanità e rispetto per i migranti stipati tra Lampedusa e gli abissi del Mediterraneo. Dove, quando la chiesa in certi territori, unica voce di resistenza, pretende un intervento decisivo per il Sud e contro le mafie.
Sarebbe bello poter chiedere ai cristiani di tutta Italia di non credere a chi soltanto si sente di speculare su dibattiti dove non si deve dimostrare nulla nei fatti, ma solo parteggiare. Quello che in questi giorni è mancato, come sempre, è stata la capacità di percepire il dolore. Il dolore di un padre. Il dolore di una famiglia. Il "dolore" di una donna immobile da anni e in una condizione irreversibile, che aveva lasciato a suo padre una volontà. E persone che neanche la conoscevano e che non conoscono Beppino, ora, quella volontà mettono in dubbio. E poco o nullo rispetto del diritto. Anche quando questo diritto non lo si considera condiviso dalla propria morale, e proprio perché è un diritto lo si può esercitare o meno. È questa la meraviglia della democrazia. Capisco la volontà di spingere le persone o di cercare di convincerle a non usufruire di quel diritto, ma non a negare il diritto stesso. Lo spettacolo che di sé ha dato l’Italia nel mondo è quello di un paese che ha speculato sull’ennesima vicenda.
Molti politici hanno, ancora una volta, usato il caso Englaro per cercare di aggregare consenso e distrarre l’opinione pubblica, in un paese che è messo in ginocchio dalla crisi, e dove la crisi sta permettendo ai capitali criminali di divorare le banche, dove gli stipendi sono bloccati e non sembra esserci soluzione. Ma questa è un’altra storia. E proprio in un momento di crisi, di frasi scontate, di poco rispetto, Beppino Englaro ha dato forza e senso alle istituzioni italiane e alla possibilità che un cittadino del nostro Paese, nonostante tutto, possa ancora sperare nelle leggi e nella giustizia. Sarebbe bello se l’epilogo di questa storia dolorosa potesse essere che in Italia, domani, grazie alla battaglia pacifica di Beppino Englaro, ciascuno potesse decidere se, in caso di stato neurovegetativo, farsi tenere in vita per decenni dalle macchine o scegliere la propria fine senza emigrare. È questa l’Italia del diritto e dell’empatia - di cui si è già parlato - che permette di rispettare e comprendere anche scelte diverse dalle proprie, un’Italia in cui sarebbe bellissimo riconoscersi.
© 2009 by Roberto Saviano Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency
* la Repubblica, 12 febbraio 2009
Lettera
Frammenti di riflessione dopo Eluana
di Sergio Paronetto *
Cari amici, condividendo la bella lettera di d. Angelo Casati, diffusa da d. Alberto e da d. Renato, aggiungo due elementi più "freddi" del Magistero, utili forse per la riflessione in atto, difficilissima e delicatissima.
Nel "Catechismo della Chiesa cattolica", 1992, parte terza, sezione seconda: ’I dieci comandamenti’, capitolo 2, articolo 5, n.1, ’L’eutanasia’, al n. 2278 si scrive: "L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’ ’accanimento terapeutico’. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente".
Al numero 65 della "Evangelium vitae" (1995) di Giovanni Paolo II si invita a "valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento" e si afferma che "la rinuncia a mezzi straordinari e sproporzionati... esprime l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte"
Per la stesura di testi riguardanti il "testamento biologico", ricordo che ne sono circolati alcuni, tra i quali quello dei vescovi spagnoli del 1986 (chiamato "testamento vitale") e quello dei vescovi tedeschi, diffuso assieme al Consiglio delle Chiese evangeliche, del 2008.
Un caro saluto pensando alla speranza che è stata seminata in noi.
Sergio Paronetto
* IL DIALOGO, Mercoledì 11 Febbraio,2009 Ore: 15:58
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FANGO E GRIDA DAVANTI ALLA MORTE È UN’ITALIA CHE NON MI APPARTIENE
di DON PAOLO FARINELLA
Ringraziamo don Paolo Farinella per averci messo a disposizione questo suo articolo pubblicato su la Repubblica Ed. Genova del 11-02-2009 Pagina 14 *
Come credente e prete cattolico amo la morte con la stessa passione con cui celebro la vita. Anzi, la desidero. Seduto ai bordi del sepolcro dove avevano seppellito il Signore per piangere la sua morte, un angelo mi ha detto: Perché cerchi tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto! (cf Lc 24,5-6).
So bene che se Cristo non fosse risorto, futile sarebbe la fede mia (cf 1Cor 15,17). Per me credente, la morte è la soglia, il velo che separa dalla visione, dall’amplesso d’amore con il Dio che evoca la vita e chiama alla morte. Crediamo nella risurrezione, inneggiamo a Cristo risorto e fuggiamo dalla morte come se fosse una tragedia infausta. Non siamo credenti, siamo solo materialisti verniciati esteriormente con una mano di religione scadente e scaduta che, assumendo il volto di circostanza e le grisaglie luttuose, si nutre del rito vuoto delle «condoglianze».
Ogni giorno ringrazio il mio Dio in anticipo perché potrebbe essere l’ultimo giorno e gli rendo lodi previe in caso non avessi la possibilità di farlo con coscienza. Amo «sorella morte» che aspetto come il culmine della mia vita, l’atto supremo che svelerà la pienezza della mia umanità. Ho visto morire mia mamma, ridotta a un urlo di dolore così atroce da non potere più essere nutrita nemmeno col Pane disceso dal cielo per alleviare le piaghe che avevano devastato la bocca; e due tumori come una tenaglia l’hanno stritolata in una morsa indicibile. Impotente davanti a lei, avevo solo la forza di pregare e supplicare che morisse, e subito. Chi potrebbe dire che volevo togliermi un fastidio? Volevo che mia mamma morisse perché l’amavo con tutto il cuore e oltre la parvenza di vita, oltre «i principi» che erano maciullati in quella bocca che non poteva avere una goccia di acqua refrigerante. Chi potrebbe accusarmi di averla fatta morire di fame e di sete?
Ho rivissuto la morte di mia mamma nella morte di Eluana. Anche questa, come quella, alla fine si è trasformata in un magistero di vita, svelando le pieghe nascoste della falsità e della strumentalizzazione. Il proprietario del governo che tiene al guinzaglio il parlamento si è accreditato come paladino della vita e ha accusato i suoi avversari politici di essere propugnatori di morte. Ha aggiunto che la «Costituzione è ispirata a quella sovietica».
Spregiudicato e amorale più del solito, ha usato la solenne austerità della morte e il dolore di una famiglia per incrinare gli assetti istituzionali dello Stato, cercando di scaricare sul Presidente della Repubblica la responsabilità della morte. Le bugie però hanno le gambe corte. Viene resa pubblica una lettera speditagli dalla famiglia Englaro nel 2004 per chiedere l’intervento della politica. Lui nega, come suo solito, anche di fronte alla ricevuta postale di ritorno. Per cinque anni non gli è interessato nulla di Eluana e quella lettera non ha avuto risposta.
Ora all’improvviso contingenta il parlamento per una decretazione d’urgenza, da spendere come viatico per una nuova e intima alleanza con mondo clericale, trasformare il sodalizio già consistente in un «patto d’acciaio», usando come una clava il corpo inerte e crocifisso di Eluana. I preti cadono nel tranello, sapendo di cadervi e si trovarono sul banco degli accusatori della Presidenza della Repubblica. Troppo ghiotta è l’occasione per allargare l’influenza confessionale su uno Stato che per volontà del suo governo è diventato un parterre di sacrestia. Don Sturzo si rivolta nella tomba. Intanto la sua tv non interrompe il "Grande fratello", lupanare di sentina, perché il guadagno e la pubblicità vengono prima della morte di Eluana. Un gesto politico di grande coerenza.
Chi ha gridato «assassino» allo sventurato padre di Eluana che, muto per amore di sua figlia riceve anche questo fango, sono gli stessi che urlano contro gli immigrati che vorrebbero rimandare indietro nei loro paesi di morte a morire di fame e di sete. Sono gli stessi che gridano contro le moschee nelle nostre città, uccidendo così la preghiera e la fede di chi ha diritto di credere e pregare nel proprio Dio. Sono gli stessi che hanno partecipato convinti ad una guerra preventiva (Iraq), sapendo di non averne diritto e sapendo che avrebbero ucciso e sarebbero stati uccisi. Non esiste coerenza senza verità e non esiste verità senza coerenza.
Come cittadino mi sento estraneo in questa patria alla deriva; come prete mi sento fuori da una casta clericale che supplisce la perdita di autorevolezza e di consensi con alleanze diaboliche di potere tra potenti; come credente aspetto con gioia la miaora, dichiarando find’ora che nessuno, per nessun motivo e con qualsiasi mezzo deve ritardare il mio incontro col Signore. La morte è per me l’atto più umano della vita umana e il vertice della mia solitudine. La profondità del mistero della vita.
Una persona, un Paese
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 10.02.2009)
Nel caso di Eluana Englaro gli avvoltoi, che di solito si gettano sui morti, si sono accaniti su una persona viva ancorché morente; il tragico, irresolubile problema di quando smettere di difendere la vita di un individuo è stato empiamente usato per un disegno di sovversione politica, inteso a colpire - ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere - le regole dello Stato di diritto, doverosamente difese dal presidente della Repubblica, uno dei cui principi fondamentali è che l’esecutivo non può modificare o annullare con decreti quanto è stato deciso in via definitiva da un tribunale, si apprezzi o meno la sentenza. In tal modo si lede scandalosamente quella divisione di poteri su cui si fonda ogni democrazia liberale.
Il problema, esemplificato dal caso di Eluana Englaro ma che coinvolge tante altre persone il cui dramma passa sotto silenzio, è tragico. A differenza dalla sua fase iniziale, in quella finale la vita non conosce un punto preciso in cui essa possa considerarsi conclusa; si sa quando si abortisce, quando si interrompe la vita di un individuo, ma non si sa quando sia lecito o pietoso staccargli la spina. Non è un criterio la qualità della vita, che può essere valutata solo dall’interessato, l’unico autorizzato a decidere sulla propria vita e sulla propria morte e ad uscire di scena quando crede, come facevano con serenità gli antichi, condizionato solo dalla sua eventuale responsabilità verso altre persone.
Non è certo un criterio il lasciare libero corso alla natura, la quale produce pure lo tsunami e le epidemie, alle cui vittime dobbiamo prestare soccorso. La Chiesa se la cava condannando l’accanimento terapeutico, concetto in sé vago, perché non si sa quando esso inizi; di per sé, ogni lotta contro la morte è accanimento terapeutico e guai se non fosse così, perché il primo dovere è quello di difendere ogni individuo.
In assenza di un’esplicita volontà espressa - il testamento biologico, in questo senso, è un fondamentale aiuto per affrontare il problema - ci si può affidare solo a un vago e sempre fallibile buon senso, che nel caso di Eluana Englaro sembra indicare come fosse tragicamente comprensibile lasciarla morire. Ossia aiutarla a morire, perché in questo campo non sono lecite ipocrisie: togliere cibo o altre sostanze necessarie per vivere significa togliere la vita; pure chi, seguendo la Chiesa che condanna l’accanimento terapeutico, smette di fornire al paziente le cure per la sua sopravvivenza deve sapere che egli lo abbandona alla morte e in certo senso gli dà la morte, perché ritiene sia, in quella circostanza, la cosa meno inumana. Naturalmente il buon senso - che non è né la morale, né la scienza, né la fede, né la politica, bensì un umanissimo, prezioso ma talora pure pericoloso e pasticcione stato d’animo - può sbagliare e in questo caso lo sbaglio è tragico.
Ma questo buon senso è, almeno per ora, l’unica precaria frontiera lungo la quale muoversi, perché altrimenti si cade in astrattezze ideologiche o in una truce concezione eutanasica dell’esistenza intera, la quale si arroga il diritto di stabilire il criterio della qualità della vita e il diritto di vita e di morte.
Conosco uomini e donne che da anni continuano a vivere con persone amate ridotte a una condizione che impedisce loro ogni reazione e ogni comunicazione, ma non impedisce una misteriosa e concreta comunicazione affettiva; per usare una vecchia parola - la più antica, difficile del mondo, direbbe Saba - l’amore.
Ora Eluana Englaro è in quella grande oscurità che, diceva il teologo gesuita Karl Rahner, è l’incomprensibile mano di Dio che raccoglie ogni destino; oscurità la quale non è forse meno importante della vita che va amata e protetta ma non idolatrata. Restano le ferite che la sua morte ha inferto a chi l’ama e quelle che l’indecente attacco, in suo nome, ai principi elementari dello Stato, ha inferto al Paese, alla qualità della vita di tutti.
Anche un Paese può essere costretto a fare testamento.
Il Presidente Napolitano sull’epilogo della tragica vicenda di Eluana Englaro: "Profonda partecipazione al dolore dei familiari e di quanti le sono stati vicini"
"Dinanzi all’epilogo di una lunga tragica vicenda, il silenzio che un naturale rispetto umano esige da tutti può lasciare spazio solo a un sentimento di profonda partecipazione al dolore dei familiari e di quanti sono stati vicini alla povera Eluana", lo ha dichiarato il Presidente della Repubblica nell’apprendere la notizia della morte di Eluana Englaro.
Fonte: www.quirinale.it
Ciao Eluana
di Giovanni Sarubbi *
Eluana Englaro è morta.
Occorre silenzio e rispetto.
Taccia il Governo che ha strumentalizzato la sua vicenda per dare un colpo alla nostra democrazia.
Taccia la Chiesa Cattolica che ha diviso profondamente il paese e la stessa chiesa, mostrando il suo volto peggiore e negando persino la sua stessa dottrina, come ha ricordato il vescovo emerito di Foggia e il teologo Hans Kueng. Ciò che in Germania viene pacificamente praticato in Italia diventa impossibile.
Solidarietà a Peppino Englaro e a sua Moglie Saturna. Profondo rispetto e ammirazione per Eluana che ci ha lasciato come testamento un pensiero profondamente evangelico: “La morte, ci spiegò, per lei era parte integrante, naturale dell’esistenza, non andava combattuta a ogni costo, non era il male peggiore. Quel posto lei lo riservava alla sopravvivenza senza più alcuna consapevolezza e autonomia”. Così scrive il padre Peppino nel suo libro. E con queste parole vogliamo ricordarla nel nostro cuore.
Ciao Eluana.
Intervista a El Pais del padre di Eluana. Che rivela: "Ebbi messaggi
da Ciampi e dal presidente del Senato". Palazzo Chigi smentisce
Beppino: "Nel 2004 chiesi aiuto
Berlusconi non mi ha mai risposto"
Sul ruolo della Chiesa: "Non mi può imporre i suoi valori"
ROMA - Beppino Englaro rivela di aver scritto, nel 2004, una lettera alle istituzioni, in cui chiedeva di trovare "gli atti opportuni per dare uno sbocco alla vicenda di nostra figlia Eluana che da 4.430 giorni è costretta da istituzioni e medici a una non vita".
Anche Berlusconi, all’epoca premier, ricevette la lettera, così come l’allora presidente Ciampi. "Ma non ebbi risposta", dice il padre di Eluana, "e dal momento che la politica non fece nulla e nemmeno il governo, mi rivolsi ai giudici. Chiesi loro aiuto ed essi fecero il loro dovere". Ma Palazzo Chigi smentisce il padre di Eluana: "Alla segreteria del presidente del Consiglio non risulta una richiesta di intervento da parte del signor Englaro nell’anno 2004", si legge in una nota.
Beppino Englaro a questo punto è costretto a intervenire ancora e precisare: "Ho inviato quell’appello in diverse copie, tra gli altri, al presidente della Repubblica, a quello del Senato, al presidente del Consiglio e al ministro della salute: mi risposero solo Ciampi e il presidente del Senato". "Feci diverse raccomandate con ricevuta di ritorno e ho tutta la documentazione - prosegue padre di Eluana - Mi arrivò la risposta di Ciampi che mi esprimeva la sua vicinanza, aggiungendo però che non poteva fare altro che interessare del caso gli organismi competenti".
Nella stessa intervista, Englaro risponde anche sul ruolo che le gerarchie vaticane stanno giocando nella vicenda di sua figlia. "La Chiesa - dice - non ha nulla a che vedere con questa questione. Non mi può imporre i suoi valori". Così Beppino Englaro torna a far sentire la propria voce, nei giorni più difficili, quelli dello scontro e di una legge, di fatto ad personam, in arrivo.
In un’intervista sulla prima pagina del quotidiano spagnolo El Pais il padre di Eluana dice di "sentire un grande rispetto verso la Chiesa, e spero lo stesso per me da parte della Chiesa. Spero che sappiano quello che dicono e che fanno, ma non polemizzo con loro": ma, aggiunge Englaro, "il magistero della Chiesa è morale, lo Stato è laico e in esso convivono anche i cattolici. Quello che dice la Chiesa riguarda solo loro, non noi che non professiamo questa confessione".
Nel 2004 la famiglia scrisse alle più alte cariche della Repubblica spiegando
la situazione e chiedendo aiuto per rispettare la volontà della donna in coma
"La non vita che Eluana non voleva"
La lettera degli Englaro allo Stato *
Ecco il testo (dal sito www.desistenzaterapeutica.it ) della lettera che Beppino Englaro e sua moglie Saturna Minuti, scrissero alle più alte cariche dello Stato compresi l’allora presidente Ciampi e l’allora premier Berlusconi nel 2004. Nella lettera spiegavano nei particolari la situazione di Eluana e chiedevano quello che per anni hanno continuato a chiedere allo Stato senza avere risposte. Solo Ciampi rispose.
Al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi
Al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi
Al Presidente del Senato Marcello Pera
Al Presidente della Camera Pier Ferdinando Casini
Al Ministro della Salute Girolamo Sirchia
Al Presidente della Federazione Nazionale Ordine dei Medici Giuseppe Del Barone
Ci rivolgiamo a Lei, signor Presidente della Repubblica e agli altri destinatari di questa lettera aperta per portare a Vostra conoscenza quanto è accaduto, e continua ad accadere, al bene personalissimo "vita" di Eluana.
Noi siamo i suoi genitori: Saturna e Beppino Englaro. E quel che segue è la sintesi d’una storia fatta di dolori, battaglie, illusioni, in nome di una libertà fondamentale che ci pare negata e maltrattata.
Tutto è cominciato la mattina del 18 gennaio 1992, quando nostra figlia Eluana a bordo della sua automobile è entrata in testacoda e si è schiantata contro un muro.
L’impatto violentissimo le ha causato un gravissimo trauma encefalico e spinale: Eluana non era più in grado di intendere e di volere e versava in uno stato di coma profondo. Dal momento in cui è giunta in queste condizioni all’Ospedale di Lecco è scattato un inarrestabile meccanismo di tutela del bene "vita" di Eluana, meccanismo che noi genitori abbiamo considerato inumano ed infernale.
I medici dell’Unità Operativa di Rianimazione dell’Ospedale di Lecco, diretta dal professor Riccardo Massei, in assoluta ottemperanza al giuramento di Ippocrate, hanno dato inizio alla rianimazione ad oltranza di Eluana.
Diamo atto ai medici che l’assistenza data a Eluana è corrisposta ai criteri della più evoluta letteratura scientifica internazionale e si è svolta in una struttura perfettamente adeguata, con il massimo sostegno possibile ed immaginabile da parte di tutte le persone ritenute idonee ad essere chiamate in causa per il bene di Eluana, genitori compresi.
Il prof. Massei fu da subito molto umano, semplice e chiaro, tanto che ci disse che il sapere scientifico, per un caso grave come quello di Eluana, era di poco superiore allo zero per quanto concerneva la sua evoluzione futura. La rianimazione non poteva in alcun modo essere sospesa per volontà di nessuno al mondo, finché non fosse avvenuta la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo di Eluana, ovvero finché non fosse intervenuta la sua morte cerebrale.
Eluana non è morta: è caduta in uno stato vegetativo persistente e, dopo due anni, in uno stato vegetativo permanente nel quale si trova tuttora. Oggi è in un letto d’ospedale, senza alcuna percezione del mondo intorno a sé: non vede, non sente, non parla, non soffre, non ha emozioni, insomma, è in uno stato di morte personale. Ha bisogno d’assistenza in tutto e per tutto: viene lavata, mossa, girata, nutrita ed idratata da una sonda supportata da una pompa.
I medici sono riusciti a salvarle la vita, ma la vita che le hanno restituito è quella che lei aveva sempre definito assolutamente priva di senso e dignità.
Eluana, sin da bambina, in più occasioni ci aveva manifestato un concetto molto definito della libertà e della dignità, che l’adolescenza e la maggiore età avevano sempre più rafforzato e reso limpido. La libertà di disporre della propria vita secondo la sua coscienza e la sua ragione era un valore irrinunciabile per Eluana, il quale non sarebbe mai potuto venir meno perché faceva parte, per così dire, del suo DNA.
Il tema del bene personalissimo "vita" era stato affrontato in famiglia molte volte, anche in occasione di svariate situazioni-limite che i mezzi di comunicazione avevano portato alla ribalta pubblica.
Era così emerso un valore di fondo molto forte ed univoco: solo la coscienza e la ragione di Eluana, di Saturna e di Beppino potevano decidere se le rispettive vite fossero da considerare ancora vite e se avessero un senso ed una dignità.
Il caso ha voluto che la nostra famiglia approfondisse anche il tema della rianimazione senza ripresa di coscienza dopo giorni e settimane, come pure quello dell’essere tenuti in vita in stato vegetativo permanente. La sospensione dei sostegni vitali per queste due estreme condizioni, in modo da non essere tenuti in vita forzatamente oltre determinati limiti di tempo e così poter finalmente essere lasciati morire, era per Eluana, Saturna e Beppino la cosa più ovvia e naturale del mondo.
L’orrore di vedere uno di noi tre privo di coscienza, tenuto in vita a tutti i costi, invaso in tutto e per tutto da mani altrui anche nelle sfere più intime, non sarebbe stato in alcun modo sopportabile e ammissibile: Eluana ha sempre considerato ciò una barbarie.
Questa era la volontà di Eluana e noi genitori volevamo e vogliamo che venga rispettata. Mettere al corrente i medici della volontà di nostra figlia, purtroppo, non è stato sufficiente, perché proprio loro che avevano fatto di tutto per tenere in vita Eluana, non avevano più il potere di sospendere i trattamenti.
Siamo stati costretti ad iniziare una lunga battaglia legale: ci siamo rivolti ai giudici affinché, nel rispetto della volontà di Eluana, autorizzassero i medici a sospendere i trattamenti di sostegno vitale. Riteniamo semplicemente contro lo spirito della nostra Costituzione venire così palesemente discriminati del diritto inviolabile alla libertà di terapia e cura fino alle più estreme conseguenze, possibile nella condizione personale capace di intendere e di volere, ed impossibile in quella non più capace di intendere e di volere.
A oltre 10 anni dallo scioglimento della prognosi nel senso dell’irreversibilità delle condizioni di Eluana, la seconda sentenza della Corte d’Appello di Milano, pronunciata nel dicembre 2003, ha ritenuto inammissibile e da rigettare la richiesta di sospensione delle misure di sostegno vitale, con la quale il papà Beppino (che ne è il tutore) dà semplicemente voce a quanto Eluana avrebbe deciso nel caso le fosse capitato di trovarsi in una simile situazione.
Già in seguito alla prima sentenza della Corte d’Appello di Milano, che risale al dicembre 1999, il Ministro della Salute Umberto Veronesi si era reso conto che le istituzioni avevano dei precisi doveri per arrivare al chiarimento dei problemi irrisolti e si era mosso con l’atto concreto di istituire una Commissione di studio che ha prodotto un importante documento pubblicato nel maggio 2001 (Gruppo di Studio Oleari). Noi genitori di Eluana ci aspettiamo che le istituzioni si muovano di nuovo in tal senso, anche dopo la seconda sentenza della Corte d’Appello di Milano, che non ha neanche ritenuto doveroso approfondire il concetto di dignità della vita che aveva Eluana. Concetto, in questo dramma, per nulla secondario.
Competenza, chiarezza e trasparenza, documentate e documentabili da parte di tutti, non sono mai venute meno dal lontano 18 gennaio 1992 durante tutto l’iter clinico, umano e giuridico che riguarda Eluana.
Pertanto tutti dovranno assumersi le loro responsabilità fino in fondo, senza nessuna possibilità di eluderle. Ci auguriamo che Lei, Signor Presidente, e gli altri destinatari di questa lettera, vogliano trovare gli atti opportuni per dare uno sbocco alla vicenda di nostra figlia Eluana, che da 4.430 giorni è costretta dalle istituzioni e dai medici a una non-vita. Chiediamo in particolare al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi di essere ricevuti, per poter esporre meglio la nostra situazione.
I nostri rispettosi saluti.
Lecco, 4 marzo 2004
Saturna Minuti Beppino Englaro
Il padre della donna in coma decide di scrivere a Berlusconi e Napolitano
"Sulle condizioni di mia figlia si sono diffuse notizie lontane dalla realtà"
"Venite a vedere come sta Eluana"
Beppino invita premier e presidente
dal nostro inviato PIERO COLAPRICO *
UDINE - L’appello del padre arriva nel pomeriggio, mentre nella clinica si sono susseguite le visite degli ispettori, poi c’è stato un tentativo per chiedere un commissariamento, poi i Nas. Una giornata concitata, con manifestazioni di piazza ovunque in Italia e anche in Friuli e con Silvio Berlusconi che, in Sardegna, ha continuato a parlare di Eluana raccontando dettagli irreali sulla sua salute.
LA LETTERA DI BEPPINO ENGLARO
Sono il tutore di Eluana Englaro, ma in questo momento parlo da padre
a padre,
rivolgendomi al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano,
ed al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per invitare entrambi,
ed essi soli, a venire ad Udine per rendersi conto, di persona e
privatamente,
delle condizioni effettive di mia figlia Eluana, su cui
si sono diffuse notizie lontane dalla realtà che rischiano di confondere
e deviare ogni commento e convincimento.
7 febbraio 2009
Il tutore e padre della Sig.ra Eluana Englaro, Beppino Englaro
Papà Beppino non ne può più. Non tanto delle polemiche e delle strategie politiche "sulla pelle di sua figlia", come gli dicono gli amici. Non ne può più delle mistificazioni, dei resoconti che parlano dei capelli ricci di Eluana sparsi sul cuscino (li ha cortissimi) o del suo colorito roseo (è terrea).
E allora chiama l’avvocato Vittorio Angiolini, che a sua volta chiama l’avvocato Giuseppe Campeis, si tratta solo di dire pochi semplici concetti, contenuti in un’unica frase. E cioè "Sono il tutore di Eluana Englaro, ma in questo momento parlo da padre a padre, rivolgendomi al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e al presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, per invitare entrambi, ed essi soli, a venire a Udine per rendersi conto, di persona e privatamente, delle condizioni effettive di mia figlia Eluana, su cui si sono diffuse notizie lontane dalla realtà, che rischiano di confondere e deviare ogni commento e convincimento".
Messaggio chiaro, ma traducibile ancora di più aggiungendo pochi dettagli. La cartella clinica di Eluana è, come quella di altri malati in stato vegetativo, ricca di documenti e di firme di medici. Nessuno di questi, contrariamente a quanto va raccontando il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, ha mai previsto la possibilità per Eluana di essere nutrita, se non con il sondino nasogastrico.
Inoltre, papà Beppino da sempre tiene in grande considerazione la privacy di sua figlia e, anche in queste ore, c’è chi lo chiama per consigliargli di mostrare Eluana, in modo che quelli che parlano di vita capiscano meglio la situazione. Lui non ci sta. Anzi, minaccia di querelare chiunque pubblichi un’immagine della figlia. Difficile forse che presidente della Repubblica e del Consiglio, soprattutto quest’ultimo che ha parlato della possibilità di restare incinta di Eluana, vengano a Udine.
Ma il padre parla da padre e resiste, evita parole troppo dure, e anche la curatrice Franca Alessio vuole lasciar parlare i fatti, in giorni in cui molte parole sono - e questo è purtroppo vero - "scollegate" dalla realtà umana e medica di una donna di 38 anni di nome Eluana.
L’ora della nostra tristezza
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 04.02.2009)
Tutte le grida perentorie, che cingono come fasce di pietra Eluana e il suo viaggio nell’aldilà; tutti gli insulti, e le accuse di assassinio pronunciate da politici che non nomineremo per non appiattire quel che deve restare profondo: questo è triste, nelle ore in cui Eluana, assistita dalla legge, giace nella clinica che l’aiuterà a morire com’era nelle sue volontà, dopo diciassette anni di coma vegetativo permanente.
Tristezza è lo sgomento che irrompe quando ci si trova in una situazione senza uscita: la parola vien meno, a soccorrere non c’è che il balsamo del silenzio oppure quel sottile mormorio che si chiama amore ed è più forte, San Paolo lo sapeva, di ogni altra virtù: fede, speranza, dono della profezia e della lingua, conoscenza delle scienze, perfino sacrificio di sé, delle proprie ricchezze (1 Corinzi 13).
Quando s’affievoliscono fede e speranza, si può sempre ancora amare: in particolare il sofferente, il morente. Nel momento in cui non sai più guardare un altro essere con amore già sei nel biblico sheòl, scivoli nel nulla. Tristi son dunque le grida dei politici e anche dei vescovi: quando urlano all’omicidio.
E quando s’indignano con la magistratura e i medici, che hanno preso in mano il volere di Eluana per il semplice motivo che altra via non le era offerta. Non c’era una legge sul testamento biologico, non ci son state parole pudiche di comprensione, né una politica che tace invece d’infilarsi fin dentro la camera, privata, dov’è la soglia per entrare nel mondo o uscirne.
Non è la sola tristezza, che ci accompagna dal 2006, quando Welby ci parlò dal suo letto di non vita e non morte. C’è la tristezza di non potersi parlare gli uni con gli altri, di non poter guardare in faccia insieme il proliferare straordinario di paure, primordiali e moderne, legate alla morte. Quasi fin dalla nascita esse ci visitano: chi ha memoria dell’infanzia ricorda quei mesi, quegli anni, in cui il pensiero della morte d’un tratto ci attornia come acqua alta, in cui sembra inverosimile e atroce che i genitori possano morire, che anche noi passeremo di lì, che per ognuno verrà il turno. Il pensiero s’insinua come ladro nelle notti alte dei bambini, per poi lasciarli in pace qualche anno. Poi s’installa la paura del morire, più che della morte: naufragare in dolori insopportabili, o non riuscire a morire malgrado la fine sia lì accanto, ineludibile epilogo di mali incurabili. E infine la paura moderna: terribile, prossima al panico. La paura di non padroneggiare la vita e il morire, perché ambedue sono stati affidati a forze esterne. Il diritto al morire nasce dal dilemma fondamentale: chi è proprietario della morte? Come difendere gli espropriati: che siamo noi ma sono anche la natura e - per alcuni - Dio?
La scienza e la tecnologia medica hanno compiuto progressi che hanno stravolto il morire, essendo diventati i veri proprietari della soglia. Non si moriva così, restando per decenni nella vita-non vita, quando non esisteva il gigantesco potere che prolunga artificialmente la vita con tubi, macchine, farmaci. Non c’era bisogno di fissare limiti all’accanimento terapeutico o all’idratazione-alimentazione di pazienti che non patiscono più sete e fame. Non c’era il fossato scandalosamente enorme tra l’individuo cosciente, che può invocare la libertà di cura prevista dalla Costituzione (art. 32), e chi non ha più diritti essendo appeso alle macchine, e possiede una biografia uccisa in nome del diritto alla vita.
La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria mutazione che viviamo, rinominata. Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza. Questa strada è sottratta alla capacità dell’uomo di darsi sue leggi (di darsi auto-nomia), ma non è sottratta solo a lui. La proprietà passa a macchine che trasformano l’uomo in un mezzo, che si sorveglia e punisce allo stesso modo in cui son sorvegliati, nelle celle d’isolamento, i prigionieri. La prigione della tecnica che s’accanisce in nome di valori morali è terrorista: taglia le ali alla preparazione della morte, che è nostra intima e nobile aspirazione; tratta l’individuo non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo docile e utile per la politica, l’ideologia: quale che sia l’ideologia. Welby e Eluana dicono l’indisponibilità, assai meno prometeica delle macchine, all’esser docile, utile mezzo. È qui che insorge il panico: non solo di chi vuol staccare le sonde ma anche di chi, con amore eguale, non lo fa. La morte in sé non mette spavento: essa è terribile per chi sopravvive, Epicuro è saggio quando ricorda che «la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi». Il panico dell’espropriato insinua il sospetto: può accadere che quando ci sarà lei (la morte) anche noi ci saremo, ma morti-viventi.
È un panico cresciuto mostruosamente: per questo urge riprendersi la morte. Non è un diritto che spossessa la natura, il sacro. Se fossero loro ad agire, moriremmo senza respiratori. Quel che vediamo è il trionfo della tecnica umana sull’umanità, la natura, il divino. L’autonomia del morente restituisce naturalezza e sacralità a un’esperienza inalienabile, sia che si stacchi la sonda sia che il malato non voglia farlo. L’etica del morire è una difesa della vita, perché risponde all’estendersi del bio-potere con la forza, vitale, della responsabilità. Risponde con il testamento biologico, per evitare che il paziente senza coscienza sia ucciso in vita. Risponde col rifiuto dell’accanimento terapeutico e, se il corpo non sente più fame e sete, dell’alimentazione-idratazione forzata. Risponde anche al timore di chi - non meno solitario - mantiene la sonda.
Anche questa solitudine va ascoltata: anche la paura dell’eutanasia, della morte della persona accelerata non per amore, ma in nome di volontà collettive, politiche. È già accaduto nella storia, e se esiste un tabù sull’eutanasia non è senza ragione. Non se ne può parlare leggermente (neppure dell’aborto si può): è talmente incerto il confine con il crimine. Chi decide infatti se una vita debba considerarsi indegna d’esser vissuta? Il malato o la società, la legge? Se decide il collettivo, il rischio è grande che non avremo la bella morte ma la morte utile alla società, alla razza, alla nazione, o alle spese sanitarie. L’eutanasia può estendere il bio-potere anziché frenarlo. Può snaturare la missione del medico, che vedrebbe i propri poteri ingigantiti non solo nel bene ma anche nel male. Ogni medico diverrebbe per il paziente una sfinge, scrive Hans Jonas: obbedirà a Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per una sua idea di pietà o convenienza?
Scrive la Bibbia che la parola divina sorprese Elia in modo inaspettato, sul monte Oreb. Il vento soffiava ma la parola non era nel vento. Sopravvenne un terremoto ma la parola non era nel terremoto. S’accese un fuoco ma il Signore non era nel fuoco. Infine apparve: era una voce di silenzio sottile. È a quel punto che Elia si prepara all’incontro: non con discorsi prolissi ma coprendosi il volto col mantello (1 Re 19,11). Forse la voce di silenzio sottile si sente a malapena perché viene da dentro, dalla nostra coscienza. Se solo si potesse parlare così delle questioni essenziali, del vivere e morire. Sforzandosi di capire il diverso, scoprendo quel che è comune nelle paure. Scoprendo l’aporia, che è la condizione dell’esistenza in cui manca la via d’uscita, il dubbio s’installa, e d’aiuto sono il senso del tragico o il mormorare sottile. Lì stiamo: non da una parte il popolo della vita e dall’altra la cultura della morte, da una parte i credenti dall’altra gli atei. Ma tutti egualmente confusi, sperduti, assetati, poveri di parole.
EUTANASIA
«Il mio compagno voleva farla finita Ma morì in viaggio tra le mie braccia»
Il filosofo Vattimo racconta la storia di Sergio: era incurabile, stavamo andando in una clinica in Olanda
MILANO - «Ho ringraziato Dio, o la sorte, che Sergio sia morto tra le mie braccia, e non in quella clinica. Per avergli detto addio in volo, il sabato di Pasqua, sull’aereo che lo portava in Olanda, anziché consegnarlo a un medico. Per averlo tenuto abbracciato fino a quando non lo sentii freddo, anziché affidare il suo corpo vivo all’eutanasia. Capisco l’angoscia del signor Englaro, per averne vissuta una diversa ma forse persino più grande. Più grande perché Eluana in realtà è morta diciassette anni fa, mentre Sergio camminava, parlava, era consapevole, aveva scelto di morire, e mi aveva chiesto di stargli accanto, di far sì che accadesse. Un compito terribile, che mi terrorizzava. Ma l’avrei fatto. Così come ritengo abbia il diritto di farlo Beppino Englaro».
Gianni Vattimo non è soltanto il filosofo italiano più noto all’estero, che da sempre ragiona sulla vita e sulla morte. È un uomo che ha molto amato e sofferto, e si è trovato a dover affrontare l’eutanasia di una persona cara. Una storia che racconta oggi per la prima volta, con voce bassa, raccomandando solo di scriverla fedelmente, «senza troppi piagnistei». «Era un volo New York-Francoforte-Amsterdam. Pasqua 2003. Sergio, il mio compagno da undici anni, aveva scoperto tre mesi prima di avere un tumore al polmone sinistro. Inoperabile. Incurabile. Mi disse che aveva già perso una sorella in quel modo. L’aveva vista che smagriva e si spegneva ogni giorno, era ridotta a una larva, eppure non moriva mai. Piuttosto che finire così, disse, meglio l’eutanasia. Ne parlai con i amici medici. Ci iscrivemmo all’associazione Dignitas, in Svizzera, che garantisce assistenza; ma scoprimmo che si limitava a fornire la pillola, da prendere poi a casa propria. Non ce la siamo sentita. Poi presi contatto con un medico olandese, di origine italiana. Ci propose: venite qui. Non si trattava ovviamente di uccidere Sergio in un secondo, ma di non farlo soffrire, di affrettarne la fine in una situazione meno tesa che in Italia. Accettammo. Sergio chiese solo, prima di andare ad Amsterdam, di fare un ultimo viaggio insieme, in America, per realizzare il suo sogno di storico dell’architettura: vedere la casa sulla cascata che Lloyd Wright aveva costruito in Pennsylvania».
«Sergio andò a prendere congedo dalla madre, a Torino. Fu un momento molto doloroso, ma lui era sereno, e convincente. Disse che la sua vita era stata felice, che a 47 anni aveva visto mezzo mondo; e in effetti insieme eravamo stati dappertutto, in India, in Africa, in Sud America. Ci mancava quell’ultimo viaggio. Arrivammo a Los Angeles, passammo in California qualche giorno, ma lui la notte stava male, non riusciva a dormire, e procurarsi antidolorifici era complicato. Poi volammo a Pittsburgh, e in due ore di macchina eravamo nella casa sulla cascata. Era il venerdì santo. Un posto bellissimo, in cui però non tornerei per nulla al mondo. Sergio non riuscì neppure a salire al secondo piano, tanto era debole. Partimmo verso New York. Il volo Lufthansa per Francoforte-Amsterdam decollava sabato pomeriggio. Sergio mi disse che voleva vedere per l’ultima volta Manhattan e comprare un vaso Anni ’30 di Scarpa, il suo designer preferito; lo trovammo, ma quel giro lo stancò molto».
«All’imbarco era molto debole. Chiesi agli steward di portare a bordo dell’ossigeno, mi dissero che non era possibile. Fingemmo di star bene e ci imbarcammo, lui reggendosi al bastone. Avevamo i biglietti di business, nelle prime file. Dopo due ore di volo Sergio andò in bagno, e non uscì più. Forzai la porta. Lo trovai che respirava appena. Tentai di rianimarlo, a bordo c’era un medico che provò la respirazione bocca a bocca, ma non c’era più nulla da fare. L’ho tenuto stretto fin quando non l’ho sentito freddo. E ho trovato consolazione in un solo pensiero, non doverlo accompagnare in quella clinica». «Sergio aveva un coraggio da leone: voleva morire, e morire bene. Accanto a me aveva assistito a una lunga agonia: quella del mio primo compagno, Gianpiero Cavaglià. Sergio Mamino era venuto a vivere da noi nel 1977, quand’era studente universitario e io preside di facoltà. Eravamo una famiglia allargata... Nell’86 Gianpiero scoprì di avere l’Aids. Anni di patimenti, complicazioni, malattie sopravvenute, tra cui l’epilessia. Ingoiando l’intera confezione di pastiglie contro l’epilessia, il mattino di Pasqua del 2002, Gianpiero tentò di suicidarsi. Lo salvammo, e mentre io chiamavo l’ambulanza Sergio faceva sparire un biglietto che avevo appena intravisto, in cui Gianpiero chiedeva di essere perdonato. Un medico mi disse che avrei fatto meglio a lasciarlo andare. Ma qualche sera dopo, vedendo un film insieme, gli chiesi se era felice di esserci ancora. Mi rispose che era sereno. Gli restavano sei mesi. Si spense alla fine dell’anno».
«Credo che nessuno possa condannare la scelta del padre di Eluana. Tanto meno la Chiesa. Io mi sono formato nell’Azione Cattolica, sono credente da sempre, piuttosto che diventare come Odifreddi e Flores d’Arcais crederei pure a Fatima; ma sono sempre più critico verso la Chiesa e questo suo modo di terrorizzare i cristiani. L’insistenza per tener viva Eluana è uno scandalo. Fin dallo stoicismo e dai martiri cristiani, l’uomo rinuncia alla vita che ritiene non degna di essere vissuta. Sostenere che la vita appartiene a Dio, e solo Dio può liberarti dall’agonia e dalla sofferenza, significa costruire un inferno tecnologicamente aggiornato».
Aldo Cazzullo
* Corriere della Sera, 04 febbraio 2009
Ansa » 2008-10-08 20:42
ELUANA: CONSULTA, INAMMISSIBILI RICORSI DI CAMERA E SENATO
ROMA - La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili i ricorsi di Camera e Senato con i quali si chiedeva l’annullamento delle sentenze della Corte di Cassazione e della Corte di Appello di Milano sull’interruzione del trattamento che tiene in vita Eluana Englaro, la donna in stato vegetativo permanente dal gennaio del 1992.
I giudici costituzionali, al termine di una lunga camera di consiglio presieduta da Franco Bile, non sono entrati nel merito del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dalle Camere, ma si sono limitati a valutare se c’erano i presupposti perché la causa potesse arrivare al vaglio della Consulta. I motivi della decisione di inammissibilità, discussi da stamani fino a pochi minuti fa, si conosceranno non appena sarà depositata l’ordinanza scritta dal giudice costituzionale Ugo De Siervo.
Nei due ricorsi, Camera e Senato sostenevano che l’autorità giudiziaria, con la sentenza della Cassazione dell’ottobre 2007 e con l’ordinanza della Corte di Appello di Milano dello scorso luglio, avrebbe esercitato le attribuzioni proprie del potere legislativo o, comunque, avrebbe interferito con tale potere, stabilendo termini e condizioni per l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale che mantengono in vita Eluana. In mancanza di una legge sulla materia, la magistratura - a detta del Parlamento - avrebbe colmato il vuoto "mediante un’attività che assume sostanzialmente i connotati di vera e propria attività di produzione normativa".
Lasciamo che Eluana riposi in pace
Documento di cattolici sul caso Englaro
Pensando ad Eluana Englaro i nostri primi sentimenti sono di affettuosa amicizia e di solidarietà nei confronti della sua mamma e del suo papà. Esaminando invece la situazione che si è determinata e scrivendo dall’interno della nostra Chiesa cattolica, non possiamo che esprimere il nostro sconcerto e la nostra amarezza per quanto riguarda la posizione dei vertici ecclesiastici che contribuisce a suscitare un grande e inopportuno clamore mediatico intorno ad una persona crocifissa su un letto da sedici anni.
Ci sembra che la pietà sia dimenticata e che non ci sia serenità nell’esaminare la situazione di fatto, avendo come riferimento le parole di speranza del Vangelo. Dio è il signore della vita e della morte e ad ogni essere umano tocca affrontare la conclusione dell’esperienza terrena, che è solo una fase della vita, accompagnato da chi lo circonda con dolcezza e rispetto, verso il futuro di felicità che ci prefigura la nostra fede. Ci sembra invece che ci si accanisca nei confronti di Eluana e che non si rispettino le sue precedenti accertate dichiarazioni di volontà prima dell’incidente, secondo la testimonianza dei genitori e di altri, e che non si prenda atto della sua attuale perdita definitiva della coscienza.
Ci sembra che, in questa vicenda, si manifesti una concezione meccanicistica e materialista della vita che è ben diversa da quella fondata sui sentimenti e sui valori spirituali vissuti coscientemente che caratterizza la visione cristiana della persona umana. Non ci può essere contrapposizione tra “principi” e “fatto” : il principio astratto della vita e il fatto di una “vita non vita”. Anche la scolastica insegna che “contra factum non valet argumentum” che si potrebbe tradurre con : “i fatti sono incontrovertibili”.
Ci sembra criticabile il consenso al conflitto formale (prima sollecitato e poi applaudito) che si è aperto, in modo del tutto inconsueto, tra il potere legislativo ed il potere giudiziario in relazione alle sentenze della Corte di Cassazione e della Corte d’Appello di Milano; questo consenso è la conseguenza di una mobilitazione propagandistica che ignora i principi dello Stato di diritto su cui si fonda la Costituzione repubblicana.
Ci sembra anche che l’impegno a difesa della vita non debba manifestarsi, principalmente o solo, sulle modalità del suo inizio e della sua fine naturale, ma con attenzione alla sua qualità e al percorso terreno di ogni donna e di ogni uomo. Così l’impegno dei cristiani e della Chiesa dovrebbe, anzitutto e soprattutto, prestare attenzione alla vita concreta dei tanti che fanno fatica a vivere e la cui esistenza vita è sempre a rischio o addirittura è violentemente interrotta.
Sarebbero quindi necessarie forti campagne di opinione, con le mobilitazioni conseguenti, oggi, qui, nel nostro paese, nelle nostre parrocchie, nelle nostre comunità religiose come nei movimenti, nelle associazioni e nelle comunità cristiane di base a favore di chi rischia gli infortuni sul lavoro, per i clandestini nel canale di Sicilia, per le donne che subiscono violenze, per quanti, militari o civili, soffrono in Iraq, in Afghanistan o in Georgia o sono coinvolti nelle tante guerre dimenticate sparse nel mondo, per chi vive nel Darfur o in Somalia, per i milioni di bambini che sono privi di assistenza e di istruzione.
Perché poi cercare di creare, nell’immaginario del nostro popolo, una contrapposizione tra l’identità “cattolica” che, da sola e sempre, difenderebbe la vita e quella “laica” che spregiudicatamente sarebbe disposta a facili cedimenti etici ? I credenti, senza erigersi a maestri, potrebbero offrire a tutti la ricchezza della loro vita spirituale e della loro sensibilità morale per dialogare sui problemi della vita e della morte come si pongono ora e per cercare insieme le risposte delle istituzioni a problemi nuovi e complessi che la scienza pone oggi all’inizio del terzo millennio. Nel mondo cattolico sono ormai tanti quelli che condividono il punto di vista secondo cui l’identità del credente sta nelle parole di speranza, di misericordia e di vita della Parola di Dio e non nelle campagne o nelle crociate.
Lasciamo che Eluana vada in silenzio e in pace nel Regno della Vita. Per lei e per la sua famiglia.
Primi firmatari : Vittorio Bellavite, Milano; Paolo Farinella, Genova; Giancarla Codrignani, Bologna; Giovanni Avena, Roma; Grazia Villa, Como; Enzo Mazzi, Firenze; Teresa Ciccolini, Milano; Albino Bizzotto, Padova; Giovanni Sarubbi, Avellino; Lisa Clark, Firenze; Alberto Simoni, Pistoia; Rosa Siciliano, Bari; Giovanni Franzoni, Roma; Carla Pessina, Milano; Marcello Vigli, Roma; Andrea Gallo, Genova; Margherita Lazzati, Milano; Piero Montecucco, Voghera; Gustavo Gnavi, Ivrea; Domenico Basile, Lecco; Chiara Zoffoli, Lecco. Catti Cifatte,Genova.
Roma, 8 ottobre 2008
Si può aderire al documento firmando su : http://appelli.arcoiris.tv/Eluana_Englaro/
Si possono raccogliere adesioni su carta con le stesse modalità di quelle on-line (nome, cognome, professione, residenza) da inviare poi a “Firme sul caso Englaro”, Via Vallazze 95 20131 Milano
I giudici: «Si può staccare la spina di Eluana» *
L’alimentazione forzata che tiene in vita Eluana Englaro, la giovane in coma da sedici anni, può essere interrotta. La Corte d’Appello di Milano, infatti, non ha accolto la richiesta della Procura che aveva chiesto di sospendere l’autorizzazione a mettere fine alle cure forzate su Eluana. Insomma, Beppino Englaro, suo padre, può decidere di mettere la parola fine al coma irreversibile che da una vita non fa aprire gli occhi di sua figlia. Nonostante tutto, Beppino però ha ancora la forza di non fare scelte affrettate. E ha deciso che aspetterà comunque che sul caso di sua figlia, ci sia il pronunciamento definitivo della Corte di Cassazione, in programma per il prossimo 11 novembre.
L’autorizzazione a sospendere l’alimentazione forzata, la stessa Corte d’Appello di Milano, l’aveva data già mesi fa. Ma subito dopo, la Procura del capoluogo lombardo, aveva chiesto che fosse sospesa. E il caso è finito in Cassazione. Per questo la richiesta di sospensione dell’esecutività del provvedimento con cui si autorizzava l’ interruzione all’alimentazione per Eluana, come ha spiegato l’avvocato Franca Alessio, curatrice speciale della donna, «non è stata rigettata né congelata. Abbiamo concordato anche con il Pg - spiega - che non era il caso di insistere in quanto con la fissazione dell’udienza in Cassazione non ci sono più le esigenze di urgenza».
Comunque, Beppino Englaro si dice soddisfatto: «Tutto sta andando come deve andare, cioè nella direzione giusta - ha detto - ci sono princìpi di diritto molto chiari al fine di rispettare le persone».
* l’Unità, Pubblicato il: 08.10.08, Modificato il: 08.10.08 alle ore 15.51
I ragionamenti di Adriano Pessina
Il direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica, riguardo al caso di Eluana Englaro, scrive su Famiglia Cristiana (n. 43 - 28 ottobre): "Ogni violenza fatta al corpo umano è anche una violenza fatta alla persona...L’abbandono assistenziale e terapeutico è più crudele della stessa eutanasia...E non si parli di diritto a morire, perché la sfera dei diritti tutela la possibilità di usufruire di beni fondamentali per la vita...". Ragionamento che sembra non fare una piega. Però ugualmente non fa una piega il seguente, che afferma il contrario: "Ogni violenza fatta al corpo umano è anche violenza alla persona...L’interruzione delle cure assistenziali e terapeutiche in determinati casi è più umana della stessa eutanasia...Ed è giusto parlare di diritto a morire, giacché la sfera dei diritti va sempre a vantaggio della persona...".
E allora? Allora è necessario mettersi d’accordo sul significato di violenza e crudeltà. Per moltissime persone che non ragionano come Pessina, costringere con mezzi artificiali una persona a non morire, andando palesemente contro la sua volontà, è violenza. Nel caso di Luana Englaro non si può parlare di crudeltà, giacché non soffre; se ne può invece parlare se ricordiamo la sofferenza di Piergiorgio Welby. E vale la pena riportarne il significato: "Spietata insensibilià...nei confronti dell’altrui dolore o avvilimento" (Devoto - Oli).
Renato Pierri
Eluana e il monopolio dell’etica
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 18/10/2007)
Era scontato l’attacco frontale dell’Osservatore Romano contro la sentenza della Cassazione che riapre il «caso Eluana», la giovane che da quindici anni si trova in coma irreversibile. La sentenza accoglie la possibilità che, con il consenso del padre, si fermi la macchina che tiene Eluana in vita vegetativa.
Ma quello che non è scontato è il silenzio e l’imbarazzo dei responsabili politici italiani di fronte all’attacco vaticano contro la magistratura, accusata di «orientare il legislatore verso l’eutanasia». Più in generale la magistratura è accusata di promuovere «il relativismo dei valori», che ormai è l’anatema del nuovo millennio.
Di fronte a queste accuse, dove sono i vocalissimi leader del neonato Partito democratico? Perché lasciano diffamare il pluralismo dei valori - fondamento della laicità - come «zona vuota dai confini non più tracciabili»?
In realtà è la gerarchia cattolica che non lascia tracciare a nessuno, tanto meno alla magistratura «i confini», perché ritiene di avere essa soltanto il monopolio dell’etica. Confonde il difficile e complesso problema della contemperanza dei vari criteri di giudizio etico - come nel caso di Eluana - con la mancanza di moralità. Eleva una concezione della vita umana sostanzialmente biologicistico-vegetativa a criterio etico unico e univoco, da cui discendono soltanto giudizi diffamatori per ogni altra visione della vita.
Eppure nei toni dell’ultima denuncia vaticana si nota una regressione rispetto ad altre più attente e meditate considerazioni fatte dagli uomini di Chiesa in tema di «accanimento terapeutico» o di inutile sofferenza. Perché questa regressione?
Ha ragione l’organo vaticano a segnalare un inaccettabile «vuoto legislativo» in Italia. Ma non lo si riempie imponendo una (legittima) visione della vita legata ad una determinata fede religiosa, a chi ha una visione diversa (altrettanto legittima), anche se ad essa in Italia non viene riconosciuta pari dignità etica.
Nel nostro Paese non esiste un vuoto di valori - come ripetono i clericali - ma una paradossale ricchezza di valori che sono spesso in contrasto tra loro. Questo contrasto viene fuori in situazioni particolari, che si fanno sempre più frequenti con le trasformazioni dei comportamenti, delle mentalità, delle esperienze. Si va dai casi relativamente semplici, eppure inutilmente esasperati e quindi irrisolti come il riconoscimento delle coppie di fatto, ai casi difficili come quello di Eluana.
Ciò che manca nel nostro Paese è una cultura e una politica laica, degna di questo nome. Una politica che governi davvero il pluralismo dei valori, di cui tutti i politici si riempiono la bocca. Che prenda decisioni legislative difficili, che tracci «confini» nel senso di tenere presenti tutti i criteri morali che entrano in gioco nelle scelte che contano. Anche a costo di scontrarsi con la Chiesa. Di tutto questo non vedo tracce attendibili nei fiumi di parole sentite in queste settimane, dentro e fuori il Partito democratico.
L’elenco delle decisioni legislative da prendere con urgenza non è lungo, ma qualificante. Per rimanere in tema, ci sono le questioni catalogate sotto la voce «testamento biologico». Esse riguardano sia direttamente la persona interessata, sia indirettamente i criteri per individuare chi dev’essere autorizzato a decidere in nome e per amore dell’interessato. Non si tratta di evocare «una potestà indeterminata sulla propria esistenza» - come scrive con toni drammatici l’organo vaticano - . Si tratta semplicemente di mettere le persone in grado di anticipare e di reagire con ragionevolezza a uno stadio di irreversibile disumanizzazione della propria esistenza.
Rimangono infine sul tappeto i problemi legati ai «Dico», al riconoscimento delle unioni di fatto di varia natura. A questo proposito, era appena iniziato un dibattito poi bruscamente interrotto, per evidenti ricatti politici. Se è vero che nel centro sinistra si respira aria nuova, perché non rimettere mano a queste iniziative?
ELUANA ENGLARO: IL MIO FUNERALE
Si Invita la S.V. a partecipare ai miei funerali che si svolgeranno, mi auguro il più a lungo possibile, per volontà di mio padre il giorno , bontà sua, che lui sceglierà. Nè fiori e nè opere di bene.
Ma che bravi questi Radicali! Se un Radicale è l’uomo che sostiene tutte le libertà e lotta contro tutte le ingiustizie, io sono un Radicale. Se un Radicale è colui che lotta contro la pena di morte, io sono un Radicale. Se il Radicale dice non uccidete Saddam, io sono Radicale. Ma se un Radicale sostiene il diritto di morire, io non lo condivido pur rimanendo sempre un Radicale che sostiene un suo diritto di opinione. Sempre secondo me i Radicali hanno mille ragioni ed un solo torto: avere inventato il diritto di morire. E solo in questo hanno vinto. Licenza di uccidere; chiedila alla cassazione. Ciò che l’uomo non conosce è la cosa più preziosa che ha: la mente profonda. In quella "domus magna" non esiste il suicidio, nè l’eutanasia e men che meno la licenza di uccidere concessa ai genitori dalla cassazione. La morte è un evento naturale e...sacro come la vita. L’ arroganza dell’uomo - figlia dell’ignoranza - ne ha fatto un diritto. Il diritto di morire - l’eutanasia. Il diritto di uccidere - la pena di morte. Il diritto della morte dignitosa - sofferenza e pietà. Il diritto del farsi suicidare - welby. Ora il diritto della volontà dei congiunti - per non soffrire loro. Il diritto di vivere è inconciliabile col diritto di morire. Il primo è sacro il secondo un delitto. E LA CHIESA NON C’ENTRA PER NIENTE IN QUESTE MIE RIFLESSIONI. Su 100 commenti 99 sono a favore della la “cassazione”, così come su 100 persone 99 sconoscono la cosa più preziosa che hanno. Come può un cieco guidare altri ciechi? Diritto o delitto che l’UOMO rifletta. IL DIRITTO DI UCCIDERE Si spara al cavallo azzoppato - tanto non serve più. Si prendono i polipi con le mani - tanto al mercato ce ne sono a quintali. Si avvelenano gli orsi - forse perché azzannano qualche pecora. Il cacciatore spara con tanto di licenza - per scaricare le sue “tensioni” Ora l’uomo per continuare il suo atavico istinto s’è inventato il Diritto di morire, la morte dignitosa, il testamento biologico, dando diritto di uccidere ai medici, quanto prima alle istituzioni e persino ai familiari. Siamo passati dalla fobia della razza ariana (Hitler) alla follia della "razza sana". Ma che bravo quest’uomo del 21° secolo!
Ansa» 2007-10-18 16:31
WELBY: GUP, IL RIFIUTO DEI TRATTAMENTI E’ UN DIRITTO COSTITUZIONALE
ROMA - "La condotta di colui che rifiuta una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo riconosciutogli in ottemperanza al divieto di trattamenti sanitari coatti, sancito dalla Costituzione". E’ quanto scrive il gup del Tribunale di Roma, Zaira Secchi nelle 60 pagine della motivazioni della sentenza sul caso Welby che ha prosciolto il 23 luglio scorso l’anestesista Mario Ricco dal reato di omicidio del consenziente. "L’imputato Mario Riccio - scrive il gup - ha agito alla presenza di un dovere giuridico che ne discrimina l’illiceità della condotta causativa della morte altrui e si può affermare che egli ha posto in essere tale condotta dopo aver verificato la presenza di tutte quelle condizioni che hanno legittimato l’esercizio del diritto da parte della vittima di sottrarsi ad un trattamento non voluto". Il gup ha prosciolto Welby, perché il fatto non sussiste, sulla base dell’articolo 51 del codice penale che disciplina l’esercizio di un diritto e adempimento di un dovere. Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare degenerativa, morì la sera del 20 dicembre dello scorso anno, dopo sedazione e interruzione della ventilazione assistita.
"Il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari - si legge ancora nella sentenza del gup Secchi depositata oggi - fa parte dei diritti inviolabili della persona di cui all’articolo 2 della Costituzione e si collega strettamente al principio di libertà e di autodeterminazione riconosciuto all’individuo dall’articolo 13 del dettato costituzionale". Il gup dà atto che sia il giudice civile (al quale ricorse invano Welby per poter farsi ’staccare la spina) sia il primo gup, che chiese l’imputazione coatta per l’anestesista Mario Ricco sono partiti da un dato "di fondamentale importanza nelle loro riflessioni: il riconoscimento dell’esistenza di un diritto alla persona di rifiutare o interrompere le terapie mediche discendente dal secondo comma dell’articolo 32 della costituzione secondo il quale ’nessuno puo’ essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di leggé". Il gup, come avevano fatto in precedenza altri giudici e segnatamente il giudice Angela Savio del Tribunale civile di Roma, che pur riconoscendo il diritto costituzionale di Welby ne precluse l’ammissibilità del ricorso ex articolo 700, cita nella sentenza la convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo che richiama i principi del consenso libero e informato ai trattamenti sanitari.
BAGNASCO: EUTANASIA ANCHE CAMUFFATA E’ INACCETTABILE
"Ogni forma di eutanasia, falsa o camuffata, è inaccettabile" per i cattolici sia "come credenti che come cittadini". Lo ha detto il presidente della Cei mons. Angelo Bagnasco, interpellato sulla recente sentenza della Cassazione, in un incontro con la stampa prima dell’inaugurazione della Settimana sociale dei cattolici. "Appare chiara - ha detto il vescovo in risposta alla domanda su Eluana - la ineludibilità del tema della vita" e la società deve essere in grado "di affermare che la vita non è disponibile" e deve saperla difendere.
IL RIFIUTO DELLA TERAPIA DEVE ESSERE CHIARO ED ATTUALE
"Il rifiuto di una terapia salvavita può essere revocato in qualsiasi momento e quindi deve persistere nel momento i cui il medico si accinge ad attuare la volontà del malato". Cita una pronuncia della Corte di Cassazione, il gup Zaira Secchi, quando, in un altro passaggio della sentenza sul caso Welby con la quale ha prosciolto l’anestesista Mario Riccio, si sofferma sul diritto costituzione del no da parte del paziente a rifiutare le terapie. Sembra quasi riferirsi a casi attuali (come quello di Eluana Englaro) il gup quando spiega che: "E’ necessario che il rifiuto - oltre che essere autentico, non apparente, consapevole e quindi informato - sia reale e, segnatamente, sia compiutamente e chiaramente espresso e non sia desumibile semplicemente dalle condizioni di sofferenza o dalla gravità del male". Altro importante requisito a parere del gup Secchi è costituito "dall’attualità del rifiuto non essendo sufficiente che la persona abbia espresso precedentemente la sua volontà in tal senso in quanto, il rifiuto di una terapia salvavita può essere revocato in qualsiasi momento".
"E’ evidente - scrive ancora il gup Secchi nella sentenza depositata oggi - che il rifiuto delle terapie rappresenta, nell’esperienza comune, soprattutto se è causativo di morte, un fatto eccezionale in quanto è ben radicato nell’uomo l’istinto di conservazione e che in ogni caso la relativa manifestazione di volontà per essere valida deve possedere una serie di requisiti non sempre presenti, soprattutto nelle persone che si trovivo a fruire di terapie salvavita e quindi in condizioni estreme". Coerentemente con queste premesse il gup spiega quindi, ed è il caso dell’anestestista Mario Riccio, che "sul medico incombe, in ragione della professione esercitata e dei diritti-doveri scaturenti dal rapporto terapeutico instauratosi con il paziente, il dovere giuridico di consentire l’esercizio del rifiuto della terapia". "Con la conseguenza - osserva il giudice del Tribunale di Roma - che, se il medico in ottemperanza a tale dovere, contribuisse a determinare la morte del paziente per l’interruzione di una terapia salvavita, egli non risponderebbe penalmente del delitto di omicidio del consenziente, in quanto avrebbe operato alla presenza di una casua di esclusione del reato e segnatamente quella prevista dall’articolo 51 del codice penale". Secondo il gup "la fonte del dovere per il medico quindi, risiederebbe in prima istanza nella stessa norma costituzionale che è fonte di rango superiore rispetto alla legge penale".
ELUANA: L’OSSERVATORE ROMANO, "SENTENZA INACCETTABILE" "E’ inaccettabile il relativismo dei valori, soprattutto se questi riguardano la conservazione o meno della vita". Così l’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, commenta la sentenza della Cassazione che ieri ha deciso di consentire un nuovo processo sul distacco del sondino nasogastrico ad Eluana Englaro, la ragazza in stato vegetativo dal 1992 a seguito di un incidente stradale.
"Accettare, pure nel vuoto legislativo, una tale posizione - scrive il giornale vaticano -, significa orientare fatalmente il legislatore verso l’eutanasia. Di più: introdurre il concetto di pluralismo dei valori significa aprire una zona vuota dai confini non più tracciabili. Significherebbe attribuire appunto ad ognuno una potestà indeterminata sulla propria esistenza dalle conseguenze facilmente immaginabili, anche solo ragionando dal punto di vista etico".
L’Osservatore Romano ricorda le motivazioni della sentenza della Cassazione: il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente, secondo la suprema corte, non incontra alcun "limite" anche nel caso in cui ne consegua "il sacrificio del bene della vita", poiché lo Stato italiano riconosce il pluralismo dei valori; lo stato di irreversibilità della sua condizione, "secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti". "Premesse - sottolinea - che appaiono evidentemente confutabili. Nessun esperto potrebbe, allo stato attuale, dichiarare l’irreversibilità della condizione di stato vegetativo, se non in base ad una scelta puramente soggettiva. Sulla volontà di Eluana, poi, l’arbitrarietà appare palese. La dichiarazione di un momento non può evidentemente essere presa a parametro per presumere la volontà di una persona riguardo a scelte come quelle che riguardano la contrarietà o meno ad un trattamento che fra l’altro si pone al limite fra terapia e nutrizione".
La sentenza della Cassazione se confermato quanto riporatto nella nota, conterrebbe errori tecnici madornali, parlando di irreversibilità dello stato di coma. Il concetto di irreversibilità non esiste a livello scientifico tanto e vero che la definizione diagnostica è quella di stato vegetativo PERSISTENTE.
La definizione di stato vegetativo PERMANENTE si riferisce invece ad una prognosi ossia ad una previsione che è ontologicamente sottoposta a margini di errore.
Non ci sono criteri validati e condivisi sulle modalità per accertere la cosiddetta irreversibilità. Dunque, apparentemente i giudici avrebbero stabilito più un principio astrattamente giuridico che non una prassi da seguire, poiché nessun criterio potrà mai garantire al 100 per cento la condizione di "irreversibilità". L’ennesima prova , se mai ce ne fosse bisogno, è il caso dell’italiano Salvatore Crisafulli l’uomo di Catania definito il Terri Schiavi italiano che, dopo due anni di stato vegetativo ("irreversibile"?) proclamato dalla scienza medica di mezza Europa si è risvegliato, dichiarando addirittura che nel suo "silenzio" sentiva e capiva tutto. Quest’uomo per colpa di un incidente in moto, per i medici era in uno stato di totale incoscienza, in mondo suo fatto solo di silenzio, ma non era cosi. Sarebbe stato condannato ad una vita vegetativa che lo avrebbe portato alla morte. Consiglio pure di leggere il suo Blog. www.salvatorecrisafulli.blo.kataweb.it
Come se non bastasse, ecco un altro caso: Polonia Jan Grzeb-ski polacco che nel 1988, è precipitato in uno stato di totale incoscienza per un trauma cranico. si è risvegliato dopo 19 anni di Stato Vegetativo Permanente (irreversibile?).
Ma la storia della giurisprudenza ci insegna a diffidare dei principi poichè essi vengono spesso stiracchiati. Così dal 100 per cento di probabilità si potrebbe arrivare (come già avvenuto per altre questioni) ad una "forte" probabilità e poi ad una "ragionevole" probabilità e così via lungo una china scivolosa che in fondo porta all’eutanasia bella e buona.
Lasciare morire di fame e sete è inoltre atto profondamente disumano e crudele, che può acuire la sofferenza, allora è molto meglio una "dolce" iniezione letale.
Ma veniamo alla vexata questione del secondo punto posto dalla cassazione ossia l’accertamento della volontà del paziente, facendo ricorso addirittura al vissuto del paziente circa la sua presunta volontà sull’interruzione delle cure.
Sempre se venisse confermato dalla lettura integrale della sentenza quanto stabilito sarebbe un concetto gravissimo, sulla base della stessa logica si potrebbe affermare che qualunque patrimonio (cosa ben meno importante della vita) potrebbe passar di mano in base a sentito dire, testimonianze di 20 anni prima ed amenità di tal genere.
Sarebbe concetto talmente grossolano, da indurre a considerarlo più come una provocazione piuttosto di una tragica realtà.
L’accertamento della volontà del soggetto pone tremende problematiche e non può certamente ridursi nella frettolosa compilazione burocratica di alcuni moduli, stile domanda per rilascio passaporto", con cui alcuni vorrebbero liquidare la questione. Figurarsi se può essere desunto da testimonianze di amici e parenti.
Ma c’è un altro tema sul tappeto.
Se il paziente viene ritenuto già morto da chi ne chiede l’interruzione della nutrizione, perchè mai ci si dovrebbe scaldare tanto ? Se costoro ritengono che il paziente sia una cosa e non più un essere, incapace di provare alcunché, compreso il dolore, allora perché continuare ad interessarsene? Chi lo accudisce fornendogli assistenza e cibo certo non lo disonora, dunque perché preoccuparsene? Se il convincimento di coloro che chiedono l’interruzione delle cure è questo e se le cure prestate non ledono la dignità del ricordo della persona perché ci si preoccupa tanto, fatto salvo per le questioni pecuniarie?
La verità è che è del tutto abnorme che giudici decidano di decidere su questioni di tal genere arrogandosi diritti che nessuno potrà mai delegare, almeno in uno stato di diritto di tradizione liberale occidentale.
Da anni a colpi di sentenze è in opera un’azione di rimodellamento della società in base a convinzioni di alcune persone non elette dal popolo e che, di fatto, non rispondono a nessuno del loro operato.
La ragazza è in coma da 15 anni, il padre aveva denunciato l’accanimento
"Con la sentenza di oggi finalmente un sussulto di umanità e libertà"
Cassazione, nuovo processo per Eluana
"Ecco quando si può staccare la spina"
I paletti dei giudici: coma vegetativo e chiara volontà del malato
La Cei ribadisce la contrarietà della Chiesa: "La vita va difesa sempre, fino alla fine"
ROMA - La Corte di Cassazione ha disposto un nuovo processo per il caso di Eluana Englaro, la ragazza in coma da 15 anni e per la quale il padre chiede la sospensione dell’alimentazione artificiale. Ribaltando la richiesta del sostituto procuratore generale della Cassazione Giacomo Caliendo che aveva chiesto il rigetto del ricorso presentato dal padre della ragazza.
E’ "un sussulto di umanità e di libertà verso una vittima sacrificale del codice deontologico dei medici e della legge", ha commentato son sollievo Beppino Englaro, il papà di Eluana.
Ora a decidere sarà sempre la Corte d’appello di Milano, ma una diversa sezione rispetto a quella che si è pronunciata per il no al distacco del sondino alla ragazza.
La Corte ha deciso che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzare l’interruzione soltanto in presenza di due circostanze concorrenti: che sia provata come irreversibile la condizione di stato vegetativo e che sia accertato che il convincimento etico di Eluana avrebbe portato a tale decisione se lei fosse stata in grado di scegliere di non continuare il trattamento.
"Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione - sottolinea ancora la Cassazione - dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa".
A rendere l’importanza del pronunciamento dell’Alta Corte sono le parole del legale di Beppino Englaro, il padre di Eluana, l’avvocato Vittorio Angiolini. "La Cassazione - ha chiarito - ha messo un bel paletto a tutela di chi si trova nelle condizioni di Eluana: quelle di chi ha avuto un trauma grave non superato con la rianimazione e che, in base alle sue convinzioni, mai avrebbe voluto essere mantenuto in vita in uno stato vegetativo. La Suprema Corte, con una decisione apripista, fissa le condizioni alle quali il giudice può e deve ordinare lo stop alla somministrazione di trattamenti sanitari nei confronti di chi non è più in grado di esprimere la propria volontà".
Una scelta che ribalta una sentenza pronunciata appena due anni fa, quando la Cassazione aveva dichiarato inammissibile il ricorso del padre della ragazza, che chiedeva il distacco delle macchine che tengono in vita la ragazza in stato di coma vegetativo. Adesso questa nuova pronuncia potrebbe cambiare le cose.
Il pronunciamento dell’Alta corte ha inevitabilmente riaperto il dibattito sull’eutanasia, riproponendo gli schieramenti favorevoli e contrari. La chiesa cattolica, per bocca di monsignor Betori, segretario della Conferenza episcopale italiana, ha ricordato la sua ferma contrarietà: "Noi vescovi ribadiamo la difesa della vita sempre, fino alla sua naturale conclusione e il riconoscimento dell’idratazione indotta come diritto della persona alla vita e non come accanimento terapeutico".
Soddisfatta del verdetto della Cassazione sul caso di Eluana, è invece Mina Welby, la vedova di Piergiorgio Welby, il malato terminale al centro lo scorso anno di un lungo caso. A suo avviso "rappresenta un nuova importante vittoria nella battaglia per riaffermare la volontà di chi non è più capace di esprimersi e lo fa attraverso un tutore che in questo caso è il padre della giovane". "Non parlerei di evento storico - ha aggiunto - ma mi auguro che questo pronunciamento possa essere un aiuto, affinché il Parlamento affronti con concretezza il tema del testamento biologico".
Posizioni divergenti, infine, anche tra gli esperti di bioetica. Secondo Demetrio Neri, membro del Comitato nazionale di bioetica (Cnb), si tratta di una sentenza "importante che apre una strada", mentre per Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore è una decisione che "suscita diverse e gravi perplessità".
* la Repubblica, 16 ottobre 2007
Ansa» 2007-10-29 18:34
ABORTO E EUTANASIA: IL PAPA, OBIEZIONE DI COSCIENZA DEI FARMACISTI
CITTA’ DEL VATICANO - L’obiezione di coscienza è un "diritto riconosciuto" anche per i farmacisti in caso di medicine "con scopi immorali", come aborto ed eutanasia. C’é poi da ribadire un diritto alle cure che è di tutti, e va garantito soprattutto agli indigenti e ai Paesi più poveri. Lo afferma il Papa, chiedendo inoltre che scienza e ricerca siano per il "benessere" delle persone, prima che per il progresso scientifico. Benedetto XVI ha trattato ad ampio raggio questi temi nell’udienza che ha concesso ai partecipanti al congresso internazionale dei farmacisti cattolici, nel giorno in cui in Cile il ministero della Salute ha imposto una multa di 33 milioni di pesos a tre catene farmaceutiche che non vendono la pillola abortiva.
L’obiezione di coscienza del farmacista, ha dunque rimarcato il Papa, è diritto riconosciuto quando si tratti di fornire medicine "che abbiano scopi chiaramente immorali, come per esempio l’aborto e l’eutanasia". E i farmacisti, importanti "intermediari tra i medici e i pazienti", "facciano conoscere le implicazioni etiche di alcuni farmaci".
"In questo campo - afferma il Papa - non è possibile anestetizzare le coscienze, per esempio circa gli effetti di molecole che hanno lo scopo di evitare l’annidamento di un embrione o di cancellare la vita di una persona". "Il farmacista - sostiene Benedetto XVI - deve invitare ciascuno a un sussulto di umanità, perché ogni essere sia protetto dalla concepimento fino alla morte naturale e perché i farmaci svolgano davvero il proprio ruolo terapeutico".
Le parole del Papa sono giudicate "apprezzabilissime" dal presidente della Federazione degli ordini dei farmacisti italiani (Fofi), Giacomo Leopardi, che si augura che il ddl in merito, fermo alla Camera, "venga approvato al più presto". Secondo Leopardi, infatti, in Italia "molti farmacisti ritengono di essere equiparabili ai medici quanto a diritto all’obiezione di coscienza, ma nei fatti le cose vanno diversamente" perché se c’é una prescrizione del medico il farmacista deve consegnare il farmaco.
Il perseguimento di un bene per l’umanità non può essere fatto a detrimento del bene delle persone trattate", ha detto papa Ratzinger a proposito dei motivi della ricerca. "Le differenti strutture farmaceutiche, dai laboratori ai centri ospedalieri alle industrie, così come l’insieme dei nostri contemporanei" per il Papa dovrebbero avere "la preoccupazione della solidarietà nel campo terapeutico, per permettere un accesso alle cure e ai medicinali di prima necessità a tutti gli strati della popolazione e in tutti i Paesi, soprattutto alle persone più povere".
A questo proposito il presidente di Farminundustria, Sergio Dompé, commenta che i brevetti non sono un ostacolo alla solidarietà: obiettivo deve essere risolvere "una difficile equazione; far convergere il valore sociale e scientifico del farmaco, traducendo questo in un valore economico per la collettività". A suo avviso si può arrivare alla "solidarietà in campo terapeutico", ma allo stesso tempo occorre "creare le condizioni per rafforzare la possibilità di sviluppo e di ricerca".
Viste le "implicazioni etiche" di questi temi il Papa ha auspicato una mobilitazione di quanti lavorano in tutte le professioni della sanità, cattolici e "persone di buona volontà", perché si approfondisca "la formazione non solo sul piano etico, ma anche in ciò che concerne le questioni bioetiche". "L’essere umano - ha ribadito papa Ratzinger - deve essere sempre al centro delle scelte biomediche" e "le scienze biomediche sono al servizio dell’uomo; se ciò non fosse, sarebbero fredde e inumane".
FEDERFARMA, E’ OBBLIGO GARANTIRE QUELLI PRESCRITTI - "E’ un obbligo per i farmacisti, così come previsto dalla legge, garantire ai cittadini di trovare in farmacia i medicinali prescritti dal medico": è il segretario di Federfarma, Franco Caprino, a spiegarlo commentando l’appello del Papa a favore dell’obiezione di coscienza per i farmacisti nella vendita di medicinali come la pillola del giorno dopo. Caprino sottolinea così il ruolo delle farmacie che per altro non possono fare obiezione così come previsto dalla legge.
ELUANA ENGLARO PROCESSATA IN CONTUMACIA
Ieri, 14 febbraio a RAI 2, nel “tribunale” di RICOMINCIO DA QUI si è celebrato l’ennesimo processo in contumacia su Eluana Englaro, colpevole di continuare a vivere contro tutto e tutti. Se innocente è chi lotta per la vita e colpevole è chi vuole toglierla, in questo processo sono intervenuti tutti favore del pubblico ministero per la pena di morte e nessuno a difesa per il diritto alla vita. PRESIDENTE in video conferenza: prof. Stefano Rodotà PUBBLICO MINISTERO: Alda D’Eusanio TESTI A CARICO interrogati : Beppino Englaro, Avv. Vittorio Angiolini, e la psicologa Luana De Vita TESTI A CARICO in video conferenza: Dott. Riccardo Massei, Dott. Mario Riccio, Prof. Stefano Rodotà PROVE A CARICO: Lettera in video di Piergiorgio Welbi, diagnosi poetica in video del corpo di Eluana del Dott. Carlo Alberto Del Fante, poesia della figlia morta alla madre la scrittrice Isabella Aliente, TESTI A CARICO citati: Avv. Maria Cristina Morelli, Prof. Veronesi, ed altri COLLEGIO DELLA DIFESA - Nessuno DIFENSORE D’UFFICIO - Nessuno GIURIA - Nessuno PUBBLICO - Tutto di parte Alda D’Eusanio si è prodigata da vera attrice in domande di morbosità inaudite, dal tenore drammatico teatrale ottenendo risposte della stessa tonalità. Ha persino chiarito tra l’altro il concetto di vita e non vita: il primo quando si beve dal bicchiere e si mangia dal piatto e il secondo quando si beve per fiala e si nutre per sonda. Si è persino parlato di “patto di sangue a tre” la dove la serenità di due dipenderebbe dalla morte del terzo. ALLA DOMANDA FINALE DI RITO: Da dove ricominci? La Risposta è stata immediata: dalla sentenza della Corte d’Appello che equivale, a dopo l’esecuzione.
Il Prof. Raffaele Morelli, eminente psichiatra e psicoterapeuta, direttore dal 1979 della rivista RIZA PSICOSOMATICA, il 15 dicembre da Costano a SKYSTELLA ad una mia domanda sul libero arbitrio rispondeva testualmente: “Se noi vogliamo indagare all’interno, ci vogliono le chiavi giuste per la serratura giusta e quindi quando noi parliamo di libero arbitrio, se stiamo ben attenti veramente di libero non c’è quasi niente. Il nostro cervello è il 94/95% e anche di più condizionato. Condizionato da quello che ci hanno trasmesso i nostri genitori, da quello che ci ha dato la cultura in cui siamo stati inseriti. Noi vediamo il mondo non per quello che è ma per come siamo stati in qualche modo abituati a guardare. Certo su quei grandi temi l’eutanasie ecc. io penso, che anche lì noi commettiamo degli abusi tremendi .....”
PER TORNARE AL PROCESSO: LA PAROLA ALLA DIFESA CHE NON C’ERA, Rimando i lettori ad alcuni scritti nel mio blog < http://michelangelok.spaces.live.com > Eluana Englaro il mio funerale; un granello di sabbia per Piergiorgio; una bara bianca; ho pianto per Piergiorgio; Welby: Mina e il Cardinale ..... Per un approccio, invece, alla problematica di un pensiero etico- filosofico, né fideista né ateo, ma che giustifica le mie riflessioni sulla ricerca del vero libero arbitrio attraverso la scoperta delle infinite e immense virtualità della Mente Profonda, “domus magna” dell’essenza vitale la cui matrice non può non essere divina, due miei saggi-conferenze, l’una propedeutica dell’altra: “Il Divino ragionato ed “il travaglio dello Spirito nel periodo pre e post-mortem” , anch’essi nel blog.
A BEPPINO ENGLARO "Com’é pesante la VERITÀ, com’é pesante".
E al padre si dica. E non si può davvero pensare di confrontarsi con se stesso senza che ciò causi dolore, angoscia, smarrimento. Ma ci si può spezzare, e questo ancora sa chi troppe volte si vide sul punto di spezzarsi, e sì che si debba temere e, per lui temendo, per il "Sé discutibile" come per il "Sé che conta", che il "confronto tra i due Sé” è "sopra tutto": che il confronto tra "il padre e il figlio", ed è per l’ambivalenza del tempo della "dipartita" i cui fini van l’uno per il "principio" e l’altro per la "fine".
Io dico che è tempo di "portare a termine" il "confronto": il fondo di te davvero NON è inarrivabile. Il "libro aperto della tua coscienza" NON turbi oltre la tua ANIMA né quella di tua figlia Eluana. Quel che vi si può "leggere", in quel libro aperto, l’ANIMA davvero NON può scalfire. Ti serva: che fosti "scelto" per quel che “SARA’ REALMENTE” non per quel che vorresti che si fosse. Cessi dunque il conflitto in te che il Cielo altro NON vuole, acquieta le tue paure, se vuoi DAVVERO, "NASCERE DALLE TUE STESSE CENERI" per raccontarlo al MONDO. Altro non dico a Te.
A ELUANA
E alla figlia si dica: "La prima "caduta" i tuoi piedi vide nel "fango". La seconda "Testa e Cuore" vide separati e contrapposti nella duplice esperienza del "perdere il cielo nonostante la Ragione" e del "perdere la ragione nonostante il Cielo", in quell’anima, trascinando, esplose in innumerevoli frantumi. "la Mia separazione per la vostra congiunzione” se tu potessi dire diresti, e tuttavia NON si ebbe la chiarezza: "Quando Io dovrò andarmene, dovrò andarmene. Ecco il "DOPO" che, aldilà delle confuse aspettative, si sta preparando. "Lei si sta preparando da anni", al Suo Spirito riferito, ed ecco che il "DOPO", che ora ben poco si conosce, è la CONDIZIONE indispensabile acciocché la "dipartita" sia resa POSSIBILE al tempo suo e di nessun altro. E non si può davvero pensare, che l’umano rimanendo tale "ad ogni effetto", con tutto ciò che comprende "il rimanerlo ad ogni effetto", possa intraprendere "siffatto viaggio" deciso da altri. Dunque, è d’uopo che questo si comprenda: dipartirsi è separarsi, è Andare, e "dove e come" Io ora lo dico che serve ripeterlo: "In tale "viaggio", l’Azione "nasce" dalla mente e si evolve in guisa che, evolvendosi Essa "inventa se stessa", e sì che da ciò il "viaggiatore stesso vien MUTATO, via via, fino al "trapasso". "Ecco, , quel che rende l’esperienza INCONCILIABILE con l’esigenze dell’umana vita: il "TRAPASSO". E in ciò si configura la "DIPARTITA" nel suo precipuo valore e in tutto il suo peso Il "Trapasso" è "l’intersezione di fine e principio nella Psiche", è quel che si definì "punto di sottrazione del mistero tra i due piani d’energia, l’uno fisico e misurabile e l’altro psichico e non misurabile. E’, per intenderci, il confine dell’Io ipotizzato, e NON conosciuto, che dell’Io troppo si suppone e troppo poco si sa. Il "Trapasso" è lo stato del "silenzio di sé", la sublime condizione di "annullamento di tutte le esperienze"; il "momento intermedio", nell’esistenza del "viaggiatore", nel quale l’esistenza stessa è sospesa, "immobilizzata", come "ricondotta alla Sostanza Ideale", a "pura Energia e ciò fa sì che dell’uomo si possa dire "Non è più" che, pur essendo in vita biologicamente, egli NON è, in verità, "quel che dell’uomo si sa e ci si aspetta" quando è in vita. Quel che di lui si riconosce è l’umana sembianza e null’altro, poiché, nel frangente del "trapasso", nel "viaggiatore" NON v’è l’uomo, la cui esistenza, come s’è detto, s’è "involata" e "modificata", e in quanto a quel che ESISTE è un corpo sorretto in vita dalle essenziali funzioni vegetative. Ciò si ha nel frangente del "TRAPASSO" e che a nessuno è dato determinare, che è quel che s’è detto "momento intermedio", che definisce lo stadio di superamento dell’umana condizione, ove si ha, dunque, che "non v’è coscienza, non v’è sensibilità e non v’è mobilità volontaria", che non v’è l’uomo, s’è detto, la cui esistenza, nel senso di "possibilità completa" di rapporti con la realtà, sia essa spirituale che materiale, è "immobilizzata", è, s’è detto come "ricondotta alla Sostanza Ideale", "pura Energia": ciò che vuol dire che nel frangente del "TRAPASSO" rimane dell’uomo unicamente l’ESSERE la cui significanza "ORA" non è in rapporto alle intrinseche SUE qualità, essendo "ORA" non più, dato il "frangente", "particolare" e, in ciò, "relativo al tempo e allo spazio", ma UNIVERSALE: ciò che fa del "viaggiatore", nel frangente del "TRAPASSO". "ELUANA: COLEI CHE NON E’ PIÙ’, EPPURE E’ NON ESSENDO ANCORA".
Deprecabile violenza sul corpo di Eluana *
Il decreto legge appena varato dal governo per impedire l’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione artificiale di Eluana Englaro ci colpisce proprio nel momento in cui progettiamo le celebrazioni dei centodieci anni di vita dell’Unione Femminile Nazionale e ci induce a riflettere che, oggi come allora, viene calpestato il pensiero autonomo di una donna su se stessa e sulla propria vita.
Con questo decreto sono violati in un sol colpo il diritto all’autodeterminazione di ogni donna e di ogni persona, la sofferenza di una famiglia per un lutto congelato nel tempo e straziato dalla continua esposizione mediatica, il rispetto del bilanciamento dei poteri istituzionali.
Deprechiamo la violenza fatta dal governo sul corpo di Eluana. Come donne e come cittadine chiediamo il ripristino dello Stato di diritto. Che sia rispettata la volontà di Eluana, di cui la famiglia è tramite. Che si dia attuazione alle sentenze emesse.
Ai genitori di Eluana va tutta la nostra solidarietà, affetto e sincera partecipazione.