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Approfondimenti

Speciale su FRANCO BASAGLIA. OLTRE I VINCOLI DEL POSSIBILE. Un breve saggio di M.G. Giannichedda - a cura del prof. Federico La Sala

mercoledì 31 agosto 2005 di Emiliano Morrone
BASAGLIA
Oltre i vincoli del possibile
Un pomeriggio estivo del 1961 Franco Basaglia varcò per la prima volta i confini del manicomio di Gorizia. Da allora non avrebbe smesso di tormentarsi sulla forza di quella istituzione, e sulla necessità di smantellarne le mura, edificate prima di tutto dentro di noi
Alla fine di agosto di venticinque anni fa moriva lo psichiatra al lavoro del quale dobbiamo la legge 180. Per rendere accettabile il dolore mentale, smembrare i manicomi e terremotare la (...)

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>FRANCO BASAGLIA. OLTRE I VINCOLI DEL POSSIBILE. --- Un’analisi sulla sopravvivenza dei “manicomi giudiziari” (di Pier Aldo Rovatti - Perché Basaglia è ancora attuale).

venerdì 29 marzo 2013

Perché Basaglia è ancora attuale

Un’analisi sulla sopravvivenza dei “manicomi giudiziari”

di Pier Aldo Rovatti (la Repubblica, 29.03.2013)

Di solito, per tranquillizzare la nostra coscienza, pensiamo che l’epoca dei manicomi sia ormai conclusa. Come se fosse uno ieri molto lontano, ricordiamo pionieri come Franco Basaglia il quale abbandonò le stanze universitarie per andare a dirigere il manicomio di Gorizia: scoperchiò un sottosuolo infernale e i suoi resoconti sono depositati in scritti e immagini che hanno fatto il giro del mondo, fino al documento-racconto che la televisione pubblica ha diffuso in prima serata pochi anni fa.

Tuttavia, nella testa della gente, i manicomi sono ormai un capitolo finito e Basaglia, con la “sua” legge del 1978, dopo quasi un decennio di battaglie anti-istituzionali a Trieste, ne avrebbe sancito la definitiva estinzione. Certo non veniva chiuso il capitolo della salute mentale (anzi lo si apriva clamorosamente), ma i manicomi diventavano qualcosa come un brutto ricordo.

Non è così. Non solo perché nel mondo la realtà manicomiale continua a esistere, ma anche perché nel nostro stesso Paese essa mantiene, nonostante tutto, laceranti sopravvivenze.

Faccio solo l’esempio dei cosiddetti “manicomi giudiziari” (Opg): come si sa, dovevano sparire entro questo mese, ma è già stata decisa una proroga e ormai si dubita molto sulla loro conversione in “comunità protette”. La scadenza - non osservata - ha comunque richiamato l’attenzione sul tema della grande informazione: su questo stesso giornale è apparso un reportage di Adriano Sofri che si è calato nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), parlando con gli internati ed evocando di nuovo l’immagine dell’“inferno”.

Sono così riaffiorati alcuni aspetti cruciali, ferite istituzionali e culturali lontane dall’essere rimarginate: la connessione tra l’idea di “pericolosità sociale” e quella di disturbo mentale, un nodo terribile e persistente, evidente sopravvivenza di una questione mai sciolta nella sua barbarie sociale e civile.

Occorre però vedere come lì si è perpetuata la carriera dell’internato: nella prigione- manicomio si entra anche per episodi minori (un furto, una lite violenta) e poi ci si rimane sine die, e magari lì si muore (o si decide di farla finita) attraverso una sequela di conferme di persistente pericolosità. Perché è accaduto questo? Molto è dipeso dall’incapacità di adeguarsi allo stato di detenzione (e contenzione) e all’obbligatorietà di un regime farmacologico assai pesante e somministrato a semplice scopo sedativo.

Di cura vera e propria non c’è ombra, quindi niente riabilitazione né terapeutica né sociale. Nulla che assomigli a una “guarigione”. Dato che ti ribelli, convinto di essere oggetto di un’ingiustizia spaventosa, la tua ribellione diventa la prova che sei ancora “socialmente pericoloso”, e così, di due anni in due anni, la tua condizione di internato viene confermata.

Si dirà: per fortuna questi infernali manicomi giudiziari ce li stiamo lasciando alle spalle. In proposito, tuttavia, corrono parecchi e motivati dubbi. Nessuno sa ancora bene che cosa debba essere una struttura protetta, dove tali strutture sorgeranno, come vi si articoleranno il regime psichiatrico e quello giudiziario, chi vi verrà “accolto” oltre ai superstiti dei manicomi giudiziari. Se si può prevedere che in esse la psichiatria (ma quale?) avrà un ruolo prioritario, niente ci autorizza a pensare che l’elemento manicomiale, e in sostanza il problema della pericolosità, scompaia magicamente.

È più facile sospettare il contrario, e cioè che la cultura manicomiale possa trovare qui un ulteriore terreno per diffondersi, unificandosi a una quantità di altri segnali che provengono dalla “normale” gestione della pratica psichiatrica, nei reparti ospedalieri dei “Diagnosi e cura” e nella disseminazione già esistente di comunità di contenimento del disturbo mentale.

Credo che l’attenzione agli Opg abbia comunque lanciato un allarme che potrebbe propagarsi dentro l’intera istituzione psichiatrica.

Questo allarme si traduce in una drastica domanda: «Ma si può guarire, e come?». E soprattutto: «Dove?». Forse “guarire” è una parola che, nella sua evidente esplicitezza, potrebbe portarci fuori strada bloccandoci nella coppia malattia-salute, quando invece qui guarire non significa solo trovare la giusta diagnosi del disturbo e una soddisfacente risposta farmacologica.

Ma vuol dire soprattutto riemergere da una condizione di non-soggettività a una condizione di soggetti, liberi e dotati di diritti sociali. Una condizione di risveglio pratico della nostra soggettività che sarebbe l’unico vero antidoto alla cultura manicomiale ancora diffusa.

Mentre questa cultura è pur sempre incline a difendere la società dal disturbo mentale segregando i cosiddetti folli, la cultura del risveglio soggettivo va nella direzione opposta: vorrebbe eliminare ogni forma di contenzione e isolamento protettivo e restituire un corredo di soggettività a chi ne è privo o ne è stato privato.

Non è forse proprio questa l’eredità che ci ha lasciato Basaglia? E cioè, che non basta chiudere i manicomi per farla finita con la cultura manicomiale? Se è così, come credo, allora dobbiamo constatare che il messaggio è stato ascoltato molto parzialmente e solo localmente, e che adesso occorrerebbe una decisa volontà politica per compiere il grosso del lavoro.

Ho trovato molti e utili spunti in un libro appena pubblicato (Guarire si può. Persone e disturbo mentale di Izabel Marin e Silva Bon, introduzione di Roberto Mezzina, edizioni Alpha Beta Verlag di Merano), in cui si dà conto con testimonianze e riflessioni di una ricerca condotta a Trieste sulla recovery (che possiamo tradurre con “ripresa” o “riemersione” del soggetto). Questo libro è apparso in una collana nella quale era anche stata pubblicata la sceneggiatura del film televisivo di Marco Turco che ho ricordato all’inizio, C’era una volta la città dei matti.


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