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Approfondimenti

Speciale su FRANCO BASAGLIA. OLTRE I VINCOLI DEL POSSIBILE. Un breve saggio di M.G. Giannichedda - a cura del prof. Federico La Sala

mercoledì 31 agosto 2005 di Emiliano Morrone
BASAGLIA
Oltre i vincoli del possibile
Un pomeriggio estivo del 1961 Franco Basaglia varcò per la prima volta i confini del manicomio di Gorizia. Da allora non avrebbe smesso di tormentarsi sulla forza di quella istituzione, e sulla necessità di smantellarne le mura, edificate prima di tutto dentro di noi
Alla fine di agosto di venticinque anni fa moriva lo psichiatra al lavoro del quale dobbiamo la legge 180. Per rendere accettabile il dolore mentale, smembrare i manicomi e terremotare la (...)

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>FRANCO BASAGLIA. OLTRE I VINCOLI DEL POSSIBILE. --- Gli anni di Gorizia. Intervista a Nico Casagrande (di Francesco Bollorino e Lisa Attolini)

venerdì 5 febbraio 2016

Intervista a Nico Casagrande:

Basaglia gli anni di Gorizia

di Francesco Bollorino, Lisa Attolini (Psychiatry On Line)

Il "periodo" di Basaglia a Gorizia secondo noi rappresenta veramente un momento rivoluzionario per la psichiatria mondiale. Ci interesserebbe sapere innanzitutto come Franco Basaglia è arrivato a Gorizia?

Franco era nell’università di Padova, una delle più potenti scuole neuropsichiatriche, perché allora non c’era la psichiatria separata dalla neurologia, infatti io stesso sono specialista delle malattie nervose e mentali.

A Padova ci si specializzava in neuropsichiatria. Franco si era sempre più occupato della parte psichiatrica più che di quella neurologica ed era uno dei più giovani della covata e come tu sai, l’università aveva delle regole ben precise, si andava in cattedra non per meriti scientifici ma per tutta una serie di altri motivi: se eri il più anziano, se eri quello di una certa parte, ecc. A Franco essendo uno dei più giovani, fu detto che difficilmente sarebbe arrivato in cattedra e che quindi gli conveniva andare a fare il direttore di ospedale psichiatrico. Fu così che nacque la scelta di direttore a Gorizia. Certo non credo che facesse molto piacere allora a Franco anche perché era uno studioso, era un fenomenologo, era stato quello che aveva portato la fenomenologia in Italia anche con articoli originali.

Quindi lui avrebbe continuato la ricerca, ma si trovò improvvisamente sbattuto in questa realtà del manicomio.

Io credo sia molto importante in questo l’esperienza personale di Franco, cioè Franco durante il periodo finale della guerra è stato messo in carcere a Venezia perché giovane socialista e aveva rischiato di essere fucilato, fu invece salvato. Però aveva fatto questo periodo di carcere alle spalle e quando è capitato nell’ospedale psichiatrico ha constatato che il manicomio era molto simile al carcere, non c’era nessuna differenza tra il carcere ed il manicomio allora ha cominciato ha farsi delle domande del tipo: " Cosa ci faccio qui?" ovvero ciò che viene ovvio pensare ad una persona sbattuta dal mondo universitario in un mondo clinico, in un mondo diverso, in una realtà così tragica. Bisogna inoltre tenere conto di una cosa di cui probabilmente non si tiene mai conto, ovvero che negli anni sessanta la realtà psichiatrica italiana era molto arretrata, c’era il manicomio da un lato e la clinica psichiatrica dall’altro, non c’era nient’altro in mezzo.

Io ricordo che ero alla clinica di Bologna e ricordo che avevamo il cortile del nostro reparto che confinava con l’ospedale psichiatrico. Noi sentivamo le persone urlare, pensavamo ad un mondo diverso ed invece erano le stesse persone che venivano ricoverate in clinica: quando andava bene tornavano a casa ma spesso andavano dall’altra parte del cortile. Non c’era situazione intermedia: Basaglia cominciò a pensare che o doveva venirne via o doveva cambiare quel mondo perché quel mondo non era la modalità terapeutica che poteva dare una risposta al malato, era una cosa diversa e la sua esperienza in carcere gli aveva fatto capire in che condizione erano queste persone, cosa potevano vivere queste persone nel mondo concentrazionario. Quindi il primo impatto è stato quello col mondo concentrazionario, cioè il manicomio come mondo concentrazionario.

Oggi a noi sembra ovvio tutto quello che c’è nell’assistenza psichiatrica, ovvio che ci sia il territorio, ovvio che ci sia l’SPDC, ovvio che ci siano le comunità, ci sembra normale, non viene neanche in mente che ci possa essere qualcosa di diverso. Franco si è trovato di fronte a due ovvietà: la prima ovvietà era quella che lui ha colto che gli sembrava ovvio che l’istituzione non funzionasse così come era perché era entrata in crisi anche per colpa degli psicofarmaci, ho l’impressione. L’altra ovvietà era che il mondo intorno a lui pensava che i manicomi avrebbero dovuto esserci per sempre. Vogliamo incominciare un po’ da qui...

Se vogliamo parlare di ovvietà, la prima ovvietà trasformare questo mondo concentrazionario, questa istituzione totale, questo carcere in ospedale. Questo è stato un passaggio ovvio di Franco Basaglia, cercare di dare una funzione, la sua vera funzione, quindi il primo passaggio l’umanizzazione di questa situazione. Ecco questo è stato il primo passaggio.

Quale è stato l’impatto interno di questa ovvietà, da parte del personale, prima ancora che dei ricoverati, lui ha trovato terreno fertile, una disponibilità oppure no? Ha dovuto combattere perché molti erano abituati a vivere in un certo modo l’istituzione e parlo del personale?

Ecco se io devo dire quale è stato il mio impatto su questo anche se è stato successivo, qualche anno dopo, però dava conto di chi c’era prima, bisogna dire che Franco è arrivato lì insieme ad Antonio Slavich come suo assistente giovane con l’aura di professore universitario quindi ben accettato e diciamo che l’impatto iniziale è stato di grande aspettativa ma di aspettativa di mantenimento della situazione: il luminare che arriva, giovane e di buone speranze con già un nome alle spalle.

So che allora c’era anche un assessore bravo che lo sosteneva che aveva capito un po’ le sue idee di rinnovamento che però poi è morto. Poi quando lui ha cominciato la sua azione ha cominciato ad avere le sue resistenze all’interno quando io sono arrivato le resistenze c’erano e c’erano eccome. Probabilmente erano maggiori nel periodo in cui siamo arrivati io, Pirella e Gervis; c’erano proprio due fronti: da un lato persone che avevano cominciato ad aver fiducia in Franco Basaglia come persona che avrebbe portato qualcosa di nuovo di interessante, di scientifico, di importante per cui ad esempio ricordo il caposala che quando veniva qualcuno a visitare l’ospedale e gli chiedevano cosa pensava di Franco diceva: "Sa noi non sappiamo dove vuole arrivare però lui lo sa!". Cioè non capivano bene la sperimentazione che c’era, lo vivevano come una persona che aveva un piano ben preciso e sapeva dove stava andando senza saper che il cambiamento che avveniva nell’ospedale psichiatrico non si sapeva dove potesse arrivare, perché non c’era nessuna esperienza tale che ci potesse predire il risultato. C’erano quelli che invece vivevano questa esperienza in modo molto intenso anche dal punto di vista politico e quindi aggregandosi a favore di questa esperienza e andando avanti fino a quando sono stato direttore io.

Pian piano si era organizzata anche la frangia contraria; i primi anni c’era un po’ questo disorientamento: da un lato l’uomo nuovo che arriva, senza sapere dove si poteva andare.

Quando io sono arrivato iniziava un discorso diverso: il momento dell’umanizzazione cioè il cominciare a dare delle risposte diverse, ad adoperare gli psicofarmaci in modo diverso, a diminuire l’intervento con l’elettroschok terapia: L’elettroschok terapia a Gorizia si è continuata a fare fino abbastanza avanti anche se man mano che noi in qualche modo conquistavamo i reparti, se così si può dire, si terminava con tale terapia. Certo c’erano anche dei medici tradizionali che continuavano a fare l’elettroschok e ad adoperare dei metodi costrittivi. Quando sono arrivato io però in Italia i metodi costrittivi erano praticamente terminati, ma l’elettroschok era ancora praticato: certo veniva fatto in un certo modo mentre prima venivano utilizzati dei metodi un po’ artigianali, comunque veniva fatto.

L’altro elemento erano gli ospiti. Che impatto ha avuto questa umanizzazione nei confronti dei ricoverati? Quale è stato l’impatto sugli ospiti, di questo arrivo e di questi cambiamenti?

Direi che gli ospiti sono stati molto più accettanti di quanto può essere stato forse il personale, ci sono stati dei problemi perché quando io sono arrivato c’erano ancora dei reparti chiusi. Agostino Pirella era in un reparto chiuso che era il più difficile in cui era concentrato un po’ di tutto poi ha aperto anche quello. Però direi che i pazienti amavano Basaglia.

Alcuni episodi siano stati episodi importanti: C’era un certo C. che era nel reparto dove c’era Slavich che era considerato il peggiore paziente perché aveva una forza non indifferente: se lo chiudevano in un bagno lui sradicava il lavandino, era uno di cui tutti avevano paura. Poi ha cominciato a essere liberato e è diventato una persona gentile, una specie di vecchio saggio; questi sono stati episodi molto importanti anche per gli altri ricoverati. Se devo dire nel corso del tempo c’erano i maniacali che erano i più difficili perché erano coloro che tendevano a "mangiare lo spazio" in tempi e in modi così intensi che "mangiavano" anche il personale nel senso che per non recludere le persone c’era bisogno di avere persone; c’era bisogno di avere delle persone vicino e questi cercavano sempre di alzare il prezzo della loro richiesta stancando il personale.

Ecco un’altra situazione significativa: una persona mandata in manicomio criminale, a un certo punto facciamo la riunione con Pirella e con gli infermieri che dicevano: "Non ce la facciamo più, questo ha fatto delle cose, che le sconti come è giusto che faccia", allora è andato in manicomio criminale poi dopo sei mesi è tornato e quando è tornato la prima cosa che ha fatto è ringraziarci perché solo stando in manicomio criminale aveva capito quali sforzi avevamo fatto noi per lui ed è diventata una persona diversa. Dico di questi due casi perché se ancora oggi si parla con gli operatori di Gorizia, li ricordano tutti. I pazienti sono quelli che hanno reagito meglio di tutti che hanno capito meglio di tutti, proprio questo S. una volta in una riunione disse: "Basaglia ha infilato le chiavi nella porta, noi le abbiamo girate". Ecco come veniva vissuto Franco Basaglia che non era il papà buono diciamo, non era il liberatore, era la persona che aveva dato l’opportunità.

Dicevamo che oggi i giovani, ma spesso la gente comune non sa cosa era il manicomio e non sa nemmeno cosa era successo in un epoca tra l’altro in cui si agiva in barba alla legge, perché voi agivate nelle pieghe della legge italiana che vi permetteva di fare certe cose perché era una legge vecchia ma non era poi tanto malaccio rispetto al resto del mondo. Ecco vediamo un attimo questi passi: parlavamo di rivoluzione quali sono stati i passi topici di questa rivoluzione goriziana.

Il primo passo è stato l’umanizzazione, quindi all’interno del manicomio era cambiare i rapporti umani o se vogliamo il potere dal potere medico; Franco lo scrive in un articolo del 64: si passa ad un rapporto più comunitario, più paritario: siamo insieme abbiamo un problema comune da risolvere, naturalmente uno è medico , l’altro paziente e su questo non credo ci fossero dubbi. Questa è una fase che però è ancora prima di quello che sarebbe il dire che la porta ha una serratura ma poi il passaggio successivo sarebbe quello di mettere la chiave dentro e insieme girare e aprire.

Ecco quali sono stati i momenti importanti?

Allora due cose, primo mi rifarei un attimo alla legge, la legge era una legge abbastanza precisa, parlava di cura e custodia; allora il manicomio era la rappresentazione della custodia non della cura ma della custodia intesa in un certo modo e questo allora è stato il primo passo: l’umanizzazione ha dovuto agire all’interno di questa contraddizione cioè riportare l’ospedale alla cura e interpretare diversamente la custodia; custodia non vuol dire che io per custodire una persona devo chiuderlo dentro; per custodire una persona mi devo prendere cura di lui, anziché chiuderlo gli metto una persona vicino. L’umanizzazione è stata questa: rivalutare la cura e interpretare diversamente la custodia custodia come prendersi cura e non come reprimere. Questo direi che è stato il momento cruciale che ha portato a cosa, all’abbattimento delle mura dei cortili quindi alla liberazione all’interno dell’ospedale delle persone.

Che non stavano più chiuse nei reparti e potevano muoversi

Il primo muro di cinta che è stato abbattuto...ricordo che, abbattuto questo muro, c’era un paziente che continuava a girare per il cortile non andando oltre il muro abbattuto finché piano piano ha incominciato a mettere un piede dall’altra parte e a guardarsi attorno ma non nella stessa giornata, in giornate successive finché ad un certo punto ha visto che andando al di là non succedeva niente e ha cominciato ad andare: è la riconquista della libertà però non può bastare, l’abbattimento del muro è un momento importante, è un simbolo che tutti colgono e la persona ricomincia a riconquistare il proprio spazio insieme ad altre cose.

Noi abbiamo dato dei tavolini per porre le proprie cose, degli armadietti, abbiamo imbandito le tavole, dato i coltelli, cioè tutti passaggi che sono stati importanti per l’umanizzazione, che sono stati il recupero dello spazio e del tempo della persona quindi direi un momento fondamentale, quindi umanizzazione ha voluto dire questo riconquista di uno spazio e di un tempo perduto. Quindi avviene la necessità di un secondo movimento cioè come gestire questa situazione: sono incominciate le riunioni di reparto, le prime furono quelle del reparto di Slavich, sono incominciate per discutere su cosa fare durante la giornata, su come si mangiava, su come tener pulito...

Queste persone che hanno continuato a tacere per vent’anni come si sono trovate nel momento in cui hanno avuto questa possibilità?

Parlando di cose così concrete le persone parlavano, hanno cominciato a occuparsi di queste cose: se si mangiava male a protestare e non solo... Pian piano si costruivano dei gruppi con dei leader, pian piano si proponevano e direi che pian piano è sorta una dinamica abbastanza simile. I primi a venir fuori erano le personalità psicopatiche erano quelli che si ponevano come leader che poi distruggevano loro stessi la leadership e poi venivano fuori gli psicotici, a distanza venivano fuori loro come vere persone. Era abbastanza particolare come tipo di situazione e direi che questo è stato un momento molto importante perché ha fatto partecipare della vita dell’ospedale molte persone, cioè allora si è dato un po’ gambe a quello che era uno slogan. Viviamo tutti sullo stesso piano, siamo tutti uguali, viviamo tutti sullo stesso piano pur nella diversità dei ruoli, cerchiamo di far scomparire queste situazioni di disuguaglianza almeno all’interno della situazione, logicamente nell’ambito sociale bisogna tacere, cercando di cogestire la situazione. Allora viene messa in crisi la figura dell’infermiere, qui cominciano le grosse resistenze: " Voi tenete più conto del paziente e non dei nostri problemi", data la situazione bisogna dire che noi siamo qui per i pazienti. È facile dirlo oggi, ma in passato questo ha portato non solo discussioni, sindacati... oggi è una cosa normale ma non lo poteva essere in quei tempi, non avevamo esempi. Direi quindi che il momento delle assemblee di reparto è stato un momento molto importante che ci ha posto di fronte ad un problema: il problema psicoanalisi si o no.

Leggiamo queste dinamiche attraverso una lettura psicodinamica solo? ma nessuno di noi era psicoanalista, oppure anche noi cresciamo insieme a questa esperienza? E questa è stata la nostra scelta, la diversità...

In quel periodo io e Pirella facevamo dei gruppi, li facevamo insieme perché nessuno dei due era analista e scoprivamo un po’ le cose che trovava Laing dall’altra parte. Però con delle diversità, cioè avevamo visto che il fantasma persecutorio che descriveva Laing, nel momento in cui noi avevamo aperto il reparto scompariva, allora ci siamo resi conto che eravamo noi i persecutori, non erano fantasmi era la realtà, aperto il reparto non c’era più il fantasma persecutorio.

Noi continuiamo a tener conto del momento psicodinamico ma anche del metro sociale, sociale e politico: il fatto di domandarsi chi siamo, quale compito abbiamo, la psichiatria cos’è, noi psichiatri siamo dei medici, dei curatori o siamo delle persone che anche recludono, opprimono? La psichiatria è una scienza medica, una scienza che cerca di spiegare la malattia oppure è una scienza del controllo? Queste sono le domande che venivano fuori pian piano e noi abbiamo dato la nostra risposta fino a dire: " Basta l’ospedale deve essere chiuso" però a quel punto lì non è più Gorizia ma diventa Trieste. Direi che Gorizia è il momento che ci impone queste domande e ci dà queste risposte. A un certo punto a Gorizia scopriamo che la comunità terapeutica non ci basta nel senso che la comunità terapeutica rischia di far diventare il manicomio un bel manicomio ma riperpetuare la necessità del manicomio, cioè un posto buono dove stare. L’umanizzazione, la compartecipazione e quindi la comunità terapeutica, la scoperta che l’ospedale comunque è un luogo di malattia e non di cura, è un luogo di oppressione, di allontanamento e allora la malattia deve essere riportata nel suo luogo naturale, dove nasce.

In realtà a Gorizia Franco fa la rivoluzione, immagina giustamente di riportare il malato nel luogo dove vive, un principio che per noi è normale, ma...

Non era per nulla normale allora


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