Le prime riprese della miniserie prodotta dalla Rai e da Claudia Mori sul «padre» della legge 180
Il ribelle Basaglia un eroe da fiction contro i manicomi
Fabrizio Gifuni nei panni dello psichiatra «Fu incompreso anche dai comunisti»
In tv le vicende di un reduce di guerra ridotto al mutismo e di un ex partigiano sottoposto a terapie crudeli
di Emilia Costantini (Corriere della Sera 24.06.2009)
OSTIA - «Non bisogna allungare il vestito, basta accorciare il degente ». «Sono spettinata, vorrei pettinarmi. Non possiedo un pettine. Ho diritto a un pettine!». Slogan, o piuttosto, appelli accorati, scritti sui muri da chi ha perso la dignità di essere umano: il malato di mente.
È dedicata a Franco Basaglia, colui che sconvolse il mondo dei manicomi, la miniserie prodotta da Rai Fiction con la Ciao Ragazzi di Claudia Mori, in onda su Raiuno nella prossima stagione. Fabrizio Gifuni è protagonista con Vittoria Puccini, per la regia e sceneggiatura di Marco Turco.
Prima c’era la città dei matti, il manicomio, con tutto il suo corredo di orrori piccoli e grandi. Letti di contenzione, camicie di forza, celle d’isolamento, elettrochoc punitivi. In tutto il mondo occidentale, nessuno aveva mai messo in discussione il manicomio. Almeno fino all’inizio degli anni ’60 quando, in una città di provincia del nord Italia, un giovane psichiatra ribelle provocò un incendio impensabile fino a qualche tempo prima.
Nella cittadina di Ostia, alle porte di Roma, nella vecchia residenza di una colonia estiva è ricostruita la casa Rosa Luxembourg, ovvero quella che era la residenza del direttore dell’ospedale di Trieste, dove Basaglia, alla metà degli anni ’70, creò la prima casa-famiglia, un altro passo verso quel radicale cambiamento che culminerà nella legge 180. «Ma l’avventura parte da prima - avverte Gifuni - la sua esperienza prende le mosse dallo choc che, nel 1961, il giovane medico subisce quando va a lavorare all’ospedale di Gorizia: lui non vede un luogo di cura, ma un lager nazista. Sbarre alle finestre, sevizie, torture. Per lui è una rivelazione ed entra in crisi profonda. Basaglia è indignato. E si sente impotente: cosa può fare per cambiare tutto questo? La risposta è una sola: il manicomio va distrutto».
Il giovane psichiatra si trova di fronte «casi» come quello di Boris, reduce da una guerra terribile che lo ha ridotto al mutismo, che viene «curato » con l’elettrochoc. Oppure Furlan, ex partigiano, sottoposto a terapie crudeli. E poi c’è Margherita (interpretata dalla Puccini): una ragazza bella e piena di vita, con l’unica «tara» di avere una madre ossessionata dalla colpa di averla concepita con un soldato americano, che poi l’ha abbandonata. Un «peccato» che la madre scarica sulla figlia, abbandonadola in un istituto di suore che, per domare il carattere ribelle della ragazza, la fanno ricoverare in un ospedale psichiatrico, dove Margherita, diventata ingovernabile, viene tenuta in una gabbia come una bestia feroce. Interviene la Puccini: «Il mio personaggio, realmente esistito come gli altri, oggi verrebbe definito una borderline. Ma a quell’epoca, gente così veniva considerata matta e riunchiusa. Ho visto un’intervista che è stata fatta in tempi recenti a Margherita, che ora ha circa 60 anni e vive tranquilla con due amiche: parlando di Basaglia, si commuoveva, le si illuminavano gli occhi, lo descriveva come il suo salvatore».
La realtà che si trova di fronte Basaglia, dunque, è terrificante. E con la moglie Franca Ongaro, donna coraggiosa che diventerà in seguito parlamentare, decide di cambiare quella realtà. Spiega il regista: «Comincia a scardinare i cancelli della psichiatria e a liberare una ad una le persone rinchiuse, cancellando per sempre dai loro corpi e dalle loro menti il duplice marchio del pericolo e dello scandalo, che le leggi e la mentalità dell’epoca conferivano alla follia». E nel 1973, quando Basaglia si trova già a Trieste, i «matti» escono dall’ospedale e invadono la città con Marco Cavallo, una macchina teatrale costruita dentro l’ospedale, una sorta di cavallo di Troia, nella cui pancia ogni degente aveva riposto le proprie speranze, desideri, aspirazioni. «Il suo principale obiettivo - riprende Gifuni - è rimettere al centro l’uomo, il paziente. E il medico non deve esercitare il suo potere, ma il suo sapere, mettendosi al servizio del suo ruolo pubblico. Il suo pensiero è da ’eretico’ della psichiatria di quel tempo. Un pensiero che non viene compreso neanche dal Partito Comunista. C’è una scena nel film, realmente avvenuta, in cui Basaglia parla nell’aula del gruppo parlamentare a Montecitorio e i comunisti lo guardano come fosse un matto».
Al di là del medico, che tipo di uomo era? «Era dotato di carisma, ironico, sempre sorridente, uno spirito arguto che spiazzava l’interlocutore. La sua formazione scientifica era rigorosissima, ma arricchita da una formazione filosofica: l’unico maestro che riconosceva era Sartre». Un egocentrico? «Aveva la giocosa irresponsabilità del bambino e dell’artista, che poteva apparire egocentrismo, data la forte personalità. Ma in realtà era tutto il contrario: ha dedicato la sua vita agli altri».