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Approfondimenti

Speciale su FRANCO BASAGLIA. OLTRE I VINCOLI DEL POSSIBILE. Un breve saggio di M.G. Giannichedda - a cura del prof. Federico La Sala

mercoledì 31 agosto 2005 di Emiliano Morrone
BASAGLIA
Oltre i vincoli del possibile
Un pomeriggio estivo del 1961 Franco Basaglia varcò per la prima volta i confini del manicomio di Gorizia. Da allora non avrebbe smesso di tormentarsi sulla forza di quella istituzione, e sulla necessità di smantellarne le mura, edificate prima di tutto dentro di noi
Alla fine di agosto di venticinque anni fa moriva lo psichiatra al lavoro del quale dobbiamo la legge 180. Per rendere accettabile il dolore mentale, smembrare i manicomi e terremotare la (...)

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> Speciale su Basaglia ---- Il ribelle Basaglia un eroe da fiction contro i manicomi. Le prime riprese della miniserie prodotta dalla Rai (Emilia Costantini)

mercoledì 24 giugno 2009

Le prime riprese della miniserie prodotta dalla Rai e da Claudia Mori sul «padre» della legge 180

Il ribelle Basaglia un eroe da fiction contro i manicomi

Fabrizio Gifuni nei panni dello psichiatra «Fu incompreso anche dai comunisti»

In tv le vicende di un reduce di guerra ridotto al mutismo e di un ex partigiano sottoposto a terapie crudeli

di Emilia Costantini (Corriere della Sera 24.06.2009)

OSTIA - «Non bisogna allungare il vestito, basta accorciare il degen­te ». «Sono spettinata, vorrei pettinar­mi. Non possiedo un pettine. Ho dirit­to a un pettine!». Slogan, o piuttosto, appelli accorati, scritti sui muri da chi ha perso la dignità di essere umano: il malato di mente.

È dedicata a Franco Basaglia, colui che sconvolse il mondo dei manico­mi, la miniserie prodotta da Rai Fic­tion con la Ciao Ragazzi di Claudia Mori, in onda su Raiuno nella prossi­ma stagione. Fabrizio Gifuni è prota­gonista con Vittoria Puccini, per la re­gia e sceneggiatura di Marco Turco.

Prima c’era la città dei matti, il ma­nicomio, con tutto il suo corredo di orrori piccoli e grandi. Letti di conten­zione, camicie di forza, celle d’isola­mento, elettrochoc punitivi. In tutto il mondo occidentale, nessuno aveva mai messo in discussione il manico­mio. Almeno fino all’inizio degli anni ’60 quando, in una città di provincia del nord Italia, un giovane psichiatra ribelle provocò un incendio impensa­bile fino a qualche tempo prima.

Nella cittadina di Ostia, alle porte di Roma, nella vecchia residenza di una colonia estiva è ricostruita la casa Rosa Luxembourg, ovvero quella che era la residenza del direttore del­l’ospedale di Trieste, dove Basaglia, al­la metà degli anni ’70, creò la prima casa-famiglia, un altro passo verso quel radicale cambiamento che culmi­nerà nella legge 180. «Ma l’avventura parte da prima - avverte Gifuni - la sua esperienza prende le mosse dallo choc che, nel 1961, il giovane medico subisce quando va a lavorare all’ospe­dale di Gorizia: lui non vede un luogo di cura, ma un lager nazista. Sbarre al­le finestre, sevizie, torture. Per lui è una rivelazione ed entra in crisi pro­fonda. Basaglia è indignato. E si sente impotente: cosa può fare per cambia­re tutto questo? La risposta è una so­la: il manicomio va distrutto».

Il giovane psichiatra si trova di fronte «casi» come quello di Boris, re­duce da una guerra terribile che lo ha ridotto al mutismo, che viene «cura­to » con l’elettrochoc. Oppure Furlan, ex partigiano, sottoposto a terapie crudeli. E poi c’è Margherita (interpre­tata dalla Puccini): una ragazza bella e piena di vita, con l’unica «tara» di avere una madre ossessionata dalla colpa di averla concepita con un sol­dato americano, che poi l’ha abbando­nata. Un «peccato» che la madre scari­ca sulla figlia, abbandonadola in un istituto di suore che, per domare il ca­rattere ribelle della ragazza, la fanno ricoverare in un ospedale psichiatri­co, dove Margherita, diventata ingo­vernabile, viene tenuta in una gabbia come una bestia feroce. Interviene la Puccini: «Il mio personaggio, real­mente esistito come gli altri, oggi ver­rebbe definito una borderline. Ma a quell’epoca, gente così veniva consi­derata matta e riunchiusa. Ho visto un’intervista che è stata fatta in tempi recenti a Margherita, che ora ha circa 60 anni e vive tranquilla con due ami­che: parlando di Basaglia, si commuo­veva, le si illuminavano gli occhi, lo descriveva come il suo salvatore».

La realtà che si trova di fronte Basa­glia, dunque, è terrificante. E con la moglie Franca Ongaro, donna corag­giosa che diventerà in seguito parla­mentare, decide di cambiare quella realtà. Spiega il regista: «Comincia a scardinare i cancelli della psichiatria e a liberare una ad una le persone rin­chiuse, cancellando per sempre dai lo­ro corpi e dalle loro menti il duplice marchio del pericolo e dello scanda­lo, che le leggi e la mentalità dell’epo­ca conferivano alla follia». E nel 1973, quando Basaglia si trova già a Trieste, i «matti» escono dall’ospedale e inva­dono la città con Marco Cavallo, una macchina teatrale costruita dentro l’ospedale, una sorta di cavallo di Troia, nella cui pancia ogni degente aveva riposto le proprie speranze, de­sideri, aspirazioni. «Il suo principale obiettivo - riprende Gifuni - è rimette­re al centro l’uomo, il paziente. E il medico non deve esercitare il suo po­tere, ma il suo sapere, mettendosi al servizio del suo ruolo pubblico. Il suo pensiero è da ’eretico’ della psichia­tria di quel tempo. Un pensiero che non viene compreso neanche dal Par­tito Comunista. C’è una scena nel film, realmente avvenuta, in cui Basa­glia parla nell’aula del gruppo parla­mentare a Montecitorio e i comunisti lo guardano come fosse un matto».

Al di là del medico, che tipo di uo­mo era? «Era dotato di carisma, ironi­co, sempre sorridente, uno spirito ar­guto che spiazzava l’interlocutore. La sua formazione scientifica era rigoro­sissima, ma arricchita da una forma­zione filosofica: l’unico maestro che riconosceva era Sartre». Un egocentri­co? «Aveva la giocosa irresponsabilità del bambino e dell’artista, che poteva apparire egocentrismo, data la forte personalità. Ma in realtà era tutto il contrario: ha dedicato la sua vita agli altri».


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