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Approfondimenti

Speciale su FRANCO BASAGLIA. OLTRE I VINCOLI DEL POSSIBILE. Un breve saggio di M.G. Giannichedda - a cura del prof. Federico La Sala

mercoledì 31 agosto 2005 di Emiliano Morrone
BASAGLIA
Oltre i vincoli del possibile
Un pomeriggio estivo del 1961 Franco Basaglia varcò per la prima volta i confini del manicomio di Gorizia. Da allora non avrebbe smesso di tormentarsi sulla forza di quella istituzione, e sulla necessità di smantellarne le mura, edificate prima di tutto dentro di noi
Alla fine di agosto di venticinque anni fa moriva lo psichiatra al lavoro del quale dobbiamo la legge 180. Per rendere accettabile il dolore mentale, smembrare i manicomi e terremotare la (...)

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> Speciale su Basaglia - --- Il dottor Hester, la signora Anna, e l’ elogio della follia (di Oliver Sacks).

sabato 2 gennaio 2010

Il dottor Hester, la signora Anna, e l’ elogio della follia

di Oliver Sacks (la Repubblica, 31.12.2009)

QUANDO udiamo la parola "manicomio", siamo portati a pensare a posti orribili, fosse di serpenti straboccanti di squallore, miseria, brutalità. La maggior parte è oggi chiusa e abbandonata. Ricordiamo con un brivido di terrore quei poveretti che un tempo erano costretti a vivere in simili posti.

È dunque salutare ascoltare la voce di una paziente, una certa Anna Agnew, giudicata malata di mente nel 1878 - da un giudice, non da un medico - e rinchiusa nell’ Ospedale per malati di mente dell’ Indiana.

Anna venne ospedalizzata dopo diversi tentativi di uccidere se stessa e uno dei suoi figli. Anna si sentì sollevata quando le porte dell’ ospedale si chiusero dietro di lei e trasse sollievo dal fatto che la sua malattia era stata riconosciuta. Come lei stessa lasciò scritto: «Dopo solo una settimana di soggiorno nell’ ospedale, avvertivo un senso di appagamento quale non sentivo da più di un anno. Non perché mi fossi riconciliata con la vita, ma perché avevano capito il mio stato mentale, ed ero trattata di conseguenza. Ero circondata da altri nelle mie condizioni, turbati e confusi, e mi ritrovai a provare interesse per le loro miserie, il mio senso di simpatia umana si risvegliava. Al tempo stesso, ero trattata come una donna malata, con una gentilezza che nessuno mi aveva mostrato prima di allora. Il dottor Hester fu la prima persona abbastanza gentile da rispondere alla mia domanda: "Sono matta?", "Sì signora. Lei è pazza e molto ...".E continuò: "Ma vogliamo aiutarla in ogni modo, e la nostra speranza è che questo posto possa farlo"».

Il vecchio termine per indicare gli ospedali per malati di mente era in inglese "lunatic asylum", e "asilo", nella sua accezione originaria, significava rifugio, protezione, santuario. A partire dal IV secolo dell’ era Cristiana, i monasteri e le chiese erano luoghi d’ asilo. A questi si aggiunsero gli asili laici, creati, come Foucault ha suggerito, utilizzando le strutture ormai inutili dei lebbrosari per ospitare gli indigenti,i criminaliei malati di mente.

Nel suo famoso libro Asylums, Erving Goffman li classificava tutti- ospedali religiosi e laici, manicomi e ospizi - come "istituzioni totali", luoghi dove la distanza tra il personale e i degenti era immensa, dove rigidi ruoli e altrettanto rigide regole impedivano ogni forma di solidarietà e di simpatia, dove i ricoverati erano privati dell’ autonomia, della libertà e della dignità, ridotti a numeri senza volto o identità.

Negli Anni 50, quando Goffman conduceva le proprie ricerche presso l’ ospedale St. Elizabeth di Washington, le cose stavano proprio così, almeno nella maggior parte dei manicomi. Eppure, non erano queste le finalità che si erano prefissi quei filantropi e bravi cittadini che avevano fondato i primi manicomi in America, tra gli inizi e la metà del XIX secolo.

In mancanza di trattamenti specifici per la malattia mentale, il "trattamento morale" veniva visto come l’ unica alternativa possibile: ci si occupava dell’ individuo nel suo insieme, come espressione di una potenzialità di salute fisica e mentale, e non solo di quella parte del suo cervello che sembrava non funzionare.

I primi manicomi statali erano spesso veri e propri palazzi con soffitti alti, finestre grandi e giardini, dove l’ aria e la luce non mancavano, si faceva molto esercizio fisico e il vitto era variato. Molti manicomi erano autosufficienti, e coltivavano gran parte delle risorse che consumavano. I pazienti lavoravano spesso nei campi o nelle stalle e il lavoro era considerato come una cruciale forma di terapia, oltre che di sostentamento.

Il senso di comunità e la solidarietà erano importanti, vitali per i pazienti, che si sarebbero altrimenti sentiti isolati nei loro mondi mentali, vittime delle loro ossessioni e allucinazioni. Parimenti cruciale era il riconoscimento e l’ accettazione del loro stato da parte del personale e degli altri pazienti.

Infine, per tornare al termine originario di "asilo", questi ospedali fornivano ai pazienti controllo e protezione, sia dai loro stessi impulsi (omicidi o suicidi che fossero) sia dal ridicolo, dall’ isolamento, dalle aggressioni o dagli abusi che spesso subivano nel mondo esterno. Gli asili fornivano una vita protetta e certo limitata, una vita semplificata e ristretta, ma all’ interno della struttura protettiva godevano anche della libertà della loro follia, di attraversare le proprie psicosi ed emergere, a volte, dal baratro come persone più stabili e sane.

Col tempo, i manicomi statali divennero piccole città. Pilgrim State, il manicomio di Long Island, ospitava circa 14.000 pazienti. Era inevitabile che i grandi numeri e le scarse risorse facessero allontanare i manicomi statali dagli ideali delle origini. Già alla fine dell’ Ottocento erano diventati sinonimo di squallore e abbandono, spesso amministrati da burocrati inetti, sadici e corrotti, una situazione che si è prolungata sino alla metà del XX secolo.

Il movimento di anti-istituzionalizzazione dei malati di mente, un rivolo negli Anni 60, divenne un fiume in piena negli Anni 80, anche se era sempre più chiaro che le buone intenzioni stavano creando problemi gravi quanto quelli che intendevano risolvere.

In molte città, l’ enorme popolazione di "psicotici del marciapiede" era una drammatica dimostrazione di come mancassero cliniche psichiatriche e centri di accoglienza, o infrastrutture capaci di occuparsi delle centinaia di migliaia di pazienti che erano stati allontanati dai manicomi statali.

Le medicine antipsicotiche che avevano favorito il processo di deistituzionalizzazione si rivelarono meno miracolose di quanto si fosse sperato. Erano certo in grado di affievolire i cosiddetti sintomi "positivi" della schizofrenia: allucinazioni e deliri psicotici. Ma a poco servivano per porre rimedio ai sintomi "negativi" - l’ apatia e la passività, la mancanza di motivazioni e la capacità di rapportarsi agli altri - che spesso erano più pesanti dei sintomi "positivi".

Agli inizi degli Anni 90 divenne chiaro a tutti che ci si era sbagliati, che la chiusura dei manicomi era avvenuta troppo in fretta, senza che si fossero attivate strutture alternative. Non c’ era bisogno di chiudere tutti i manicomi. Occorreva invece farli funzionare: mettere mano all’ affollamento, alla mancanza di personale, porre fine all’ abbandono e alla brutalità.

L’ approccio farmacologico, sia pur necessario, da solo non bastava. Ci eravamo scordati degli aspetti positivi degli "asili", o forse non volevamo più sborsare soldi per tenerli aperti; per dare ai pazienti spazi e senso di comunità, un posto per lavorare e giocare, per apprendere un mestiere e imparare a vivere insieme - quel rifugio sicuro che i manicomi statali delle origini intendevano offrire.

Qual è ora la situazione? I manicomi ancora aperti sono pressoché vuoti, e la popolazione dei pazienti consiste essenzialmente di malati cronici che non rispondono più a nessun trattamento farmacologico, o di individui talmente violenti che non possono essere lasciati liberi.

La grande maggioranza dei malati di mente vive fuori dalle strutture ospedaliere. Alcuni restano in famiglia e si servono di supporto ambulatoriale nei momenti di crisi, altri vivono in residenze aperte: strutture che garantiscono al paziente una certa libertà e autonomia, pur provvedendo alle necessità terapeutiche.

Esistono anche, negli Stati Uniti, delle comunità residenziali che si rifanno in parte alle comunità terapeutiche degli "asili" dell’ Ottocento e offrono ai pochi che vi vengono ammessi un’ assistenza completa. Ne ho visitate alcune, e ho ritrovato quel che c’ era di meglio nei vecchi manicomi statali: un forte senso di solidarietà, delle opportunità di lavoro e spazi di creatività, il rispetto per gli individui. Il tutto unito a quanto di meglio la psicoterapia e i trattamenti farmaceutici possono offrire oggi.

Purtroppo, strutture simili sono rare, e possono ospitare qualche centinaia di pazienti, a fronte dei milioni che negli Stati Uniti soffrono di malattie mentali. I pazienti che sono ammessi debbono contare sul supporto finanziario delle famiglie, visto che in media la degenza costa intorno ai 100.000 dollari l’ anno.

Gli altri - il 99 per cento di malati privi di risorse adeguate - debbono accontentarsi di cure insufficienti e rinunciare al proprio potenziale di vita. L’ Alleanza nazionale dei malati di mente fa quel che può, ma i milioni di malati di mente restano ancor oggi la parte più esclusa e la più abbandonata della nostra società.

Eppure è chiaro che persino la schizofrenia non è necessariamente una malattia che inesorabilmente peggiora (anche se ciò può verificarsi). In circostanze ideali, e con risorse adeguate, anche persone molto malate, quelle che vengono classificate come senza speranza, possono vivere una vita produttiva e degna.

* La versione integrale di questo articolo comparirà nel numero di gennaio 2010 della Rivista dei Libri (Traduzione di Pietro Corsi)


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