Capiremo i folli solo con la nostra follia
L’esperienza basagliana travalica i confini suscitando entusiasmi
In Brasile, in Norvegia, in Canada le tracce del suo insegnamento
di Luigi Cancrini (l’Unità, 10.02.2010)
Trieste, 1976. Mi incontro con Franco nel suo ospedale. Un paziente con un buffo cappello sulla testa passa veloce accanto a noi che parliamo chiedendogli dove sta Big House, lui risponde «di là mi pare», poi si gira verso di me e mi spiega che stava parlando di Casagrande, il suo aiuto che di li a qualche anno sarebbe andato a dirigere l’ospedale dei servizi psichiatrici di Venezia. Stavamo per salutarci, avevamo discusso della legge che stava per venire, il mio ruolo era quello di rappresentante della commissione sanità del Pci nell’ambito della trattativa complessa che sarebbe sfociata nella 180 e mi dispiaceva andarmene e mi venne da chiedergli dove viveva in quel periodo, la sua famiglia era a Venezia e lui sembrava come un po’ smarrito nella confusione di una vita troppo piena di cose da fare. Mi guardò Franco allora per un attimo negli occhi con quella sua aria trasognata e dolce e si guardò intorno e gli occhi gli si fermarono su una valigia aperta che era la sua, e mi disse ridendo che era lì che abitava, forse, nella valigia con cui andava in giro per il mondo a raccontare la buona novella del superamento degli ospedali psichiatrici, dei matti, che erano solo persone che non avevano più la capacità o la possibilità di raccontare se stessi e la loro vita. Suscitando entusiasmi straordinarii di cui ho trovato le tracce quando ho viaggiato per parlare di lui e della rivoluzione psichiatrica italiana. In Canada dove le sue idee erano oggetto di insegnamento all’università e in Inghilterra dove R. Laing, Esterson ed altri portavano avanti, in contesti tanto diversi, un discorso tanto simile al suo, in Brasile dove le sue conferenze furono raccolte in un libro straordinario ed in Norvegia dove, a Tromso, mi sarebbe capitato di ricordarlo insieme agli psichiatri che avevano seguito i suoi consigli liberando i pazienti dall’ospedale, a Liegi dove ancora c’è oggi una associazione con il suo nome e un po’ dappertutto nel mondo dove l’esperienza di Gorizia e di Trieste è stata presentata e discussa come una proposta rivoluzionaria dal punto di vista politico e straordinariamente coerente dal punto di vista scientifico.
Semplice e forte, il discorso di Franco sulla follia ha aperto prospettive teoriche di grande respiro di cui il superamento degli ospedali era solo la premessa. Contestuale e non genetica, l’origine dei comportamenti che non capiamo e che difensivamente chiamiamo «folli» va cercata sempre nella storia della persona e nella geografia dei suoi rapporti più significativi. Nulla accade a caso nella vita psichica, aveva detto Freud e Basaglia l’invera, questa affermazione, nel contatto quotidiano con gli ultimi degli ultimi. Con quelli che a parlare non provano più dopo che tanti muri hanno incontrato che respingono e soffocano le loro parole. Cui è possibile stare vicini solo se si riesce a stare in contatto con le parti «folli» e bambine di sé. Conoscere l’handicap, diceva Franco (è uno degli ultimi ricordi che ho di lui a Roma, la malattia lo condizionava già molto) è possibile solo per chi si guarda dentro alla ricerca del suo di handicap. Sorridendo lo diceva, come se lo stesse ancora cercando.