Il coraggio di cambiare le cose
La grande lezione di Basaglia: volere la luna
di Livio Pepino (l’Unità, 13.02.2010)
Tra i meriti della bella fiction televisiva di Marco Turco dedicata a Franco Basaglia c’è il rilancio di una prospettiva che sembra passata di moda, anche a sinistra: quella del cambiamento (della sua possibilità e della sua necessità). Il messaggio vale per tutti: anche per chi quella prospettiva ha coltivato e praticato.
Nel 1979, a poco più di un anno dalla riforma che porta il suo nome, Basaglia, in un intervento che può essere letto in Conferenze brasiliane, disse parole allora sorprendenti: «La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma ad ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare». Oggi da quelle parole profetiche occorre ripartire. Sapendo che il cambiamento è possibile. Anche in una stagione difficile come quella che stiamo attraversando. Purché continuiamo a “volere, ostinatamente, la luna”.
Anni prima, mentre si preparava la chiusura dei manicomi, nasceva Psichiatria democratica e cominciava a dipanarsi una vicenda parallela, un’altra scommessa giocata sul crinale della trasformazione del sistema istituzionale in senso ugualitario. Riguardava, questa vicenda, la giustizia, la cui trasformazione cominciò ad essere considerata una possibilità reale e non «una nuova utopia per consentirci di sopportare il tipo di vita che siamo costretti a vivere» (per usare, ancora, parole di Basaglia).
Era la vicenda di Magistratura democratica, che qualche anno dopo Giuseppe Borrè avrebbe sintetizzato in questi termini: «Perché è nata Md? Personalizzando un po’ potrei dire: perché sono entrato in Md? Credo che la risposta stia nello stretto e indissolubile intreccio di due ragioni complementari. Da un lato, il rifiuto del conformismo, come gerarchia, come logica di carriera, come giurisprudenza imposta dall’alto, in una parola come passività culturale; dall’altro, il sentirsi dalla parte dei soggetti sottoprotetti, e sentirsi “da questa parte” come giuristi, con le risorse e gli strumenti propri dei giuristi».
Sono passati gli anni. Con alti e bassi. Da ultimo, prevalgono i bassi. Ma, anzitutto, siamo ancora qui, Magistratura democratica e Psichiatria democratica e molti altri. E, poi, conosciamo la strada. L’importante è continuare a percorrerla, incuranti degli inviti al realismo di troppi “cattivi maestri”.