Legge «180»
Storie di cura senza custodia
di Maria Grazia Giannichedda (il manifesto, 13.05.2008)
Che la vita della riforma psichiatrica sarebbe stata dura era chiaro a tutti quel 13 maggio di trent’anni fa, quando fu approvata. Il clima politico era dei peggiori, con il corpo di Aldo Moro ritrovato da appena cinque giorni in via Caetani e la nomina a ministro della sanità, nei mesi successivi, del liberale Renato Altissimo, esponente del solo partito che non aveva votato la riforma sanitaria in cui «la 180» era confluita. La sfida era chiudere i manicomi nel segno dei diritti.
La posta in gioco era la riforma, chiudere i manicomi nel segno dei diritti e sostituirli con una cura senza custodia. «In fondo si tratta soltanto dell’inserimento nella normativa sanitaria di principi già posti dalla Costituzione», scriveva in quelle settimane Franco Basaglia, leader indiscusso del composito movimento che aveva voluto la riforma: estromettere dal sistema sanitario un’istituzione che imprigiona persone che nessun giudice ha condannato, e che organizza una violenza strutturale particolarmente odiosa perché consumata su persone che soffrono, «è un atto di riparazione che la democrazia fa verso i cittadini». Anche chiedere agli operatori psichiatrici di rispettare i diritti e la dignità delle persone che hanno in cura in fondo è solo «ribadire un elemento di civiltà che dovrebbe essere implicito», continuava Basaglia: aveva ben chiaro non ci si poteva aspettare un’applicazione di questa legge «lineare e priva di conflitti, date le caratteristiche del terreno in cui interviene, dove confluiscono pesanti pregiudizi culturali e interessi stratificati».
Chiusura dei manicomi nel segno dei diritti: su questo punto si sono sempre concentrati gli attacchi contro «la 180», e ancora qui ha recentemente puntato la coalizione che ha vinto le elezioni e che si propone di modificare il Trattamento sanitario obbligatorio (vedi scheda). Eppure, è proprio questo nesso tra chiusura dei manicomi e affermazione dei diritti che spiega l’inattesa longevità di questa riforma che ha potuto produrre un’innovazione colossale, 100mila posti letto chiusi in quarant’anni e un sistema di servizi diffuso in tutto il territorio nazionale (vedi le schede in questa pagina).
La qualità di questo nuovo sistema è assai variabile, con differenze profonde tra le regioni e all’interno della stessa regione, differenze che spesso (ma non sempre) coincidono con quelle del sistema sanitario generale. Su questa variabilità, che oggi è insieme debolezza e forza del sistema della salute mentale, torneremo più avanti. Prima vale però la pena di soffermarsi su questo dato: solo l’ltalia è riuscita finora a realizzare un obiettivo che molti paesi perseguono, liberarsi da un sistema di istituzioni che pesano troppo sulla spesa pubblica e producono lungodegenti che impediscono i nuovi ingressi.
I costi sono stati infatti, e sono, la dannazione dei sistemi psichiatrici pubblici nei paesi europei. Gli ospedali pubblici costano più di quelli privati in quanto sono costretti a standard alti di rapporto tra personale e posti letto, e questo per via delle leggi e dei controlli formali e informali a cui invece il privato riesce più facilmente a sottrarsi, come sa bene chiunque abbia tentato, anche nell’Italia di questi anni, di guardare dentro una clinica psichiatrica privata.
Inoltre, l’assistenza psichiatrica nella «vecchia Europa» di oggi è quasi sempre mista, ovvero gli ospedali psichiatrici convivono con i servizi territoriali ma siccome la coperta è stretta, se i posti letto in ospedale non diminuiscono i servizi territoriali hanno meno risorse, il che rende più difficile ridurre quell’ospedalizzazione di lungo periodo che produce cronicizzazione senza speranza. Occorrono quindi scelte drastiche, che l’Italia ha fatto con la riforma del ’78 e ha confermato con le leggi finanziarie del ’94 (primo governo Berlusconi) e nel ’98 (governo Prodi). Così, vista dai 40mila posti letto in ospedale psichiatrico che la Francia non riesce a chiudere né a ridurre, e dai 35mila letti pubblici inglesi (qui fu Margaret Thatcher a costringere gli ospedali psichiatrici a dimagrire), l’esperienza italiana appare appunto un caso di innovazione compiuta, che apre una domanda: com’è stato possibile far abbandonare agli psichiatri italiani la loro roccaforte? Quali elementi hanno creato quello zoccolo di consenso senza il quale la riforma non avrebbe potuto diventare adulta?
Dobbiamo ritornare al nesso tra diritti e chiusura dei manicomi. Questo elemento, a lungo percepito da molti, anche a sinistra, come una forzatura ideologica, è invece ciò che ha fatto la differenza. La sfida a mettere insieme, nel servizio pubblico di massa, cura e diritti ha infatti mobilitato le risorse professionali migliori, che hanno costruito modelli organizzativi inediti, che poi sono quella cinquantina di sistemi di servizi comunitari che oggi rappresentano l’eccellenza del nostro paese: sistemi che funzionano sulle 24 ore, che non costringono la famiglia al ruolo di manicomio domestico, rendono inutile l’ospedalizzazione di lungo periodo, sanno aiutare, nella costruzione di una propria vita, anche chi sta male in modo non episodico e magari, solo qualche chilometro più in là, è invece costretto a subire abbandono, esclusione, violenza.
Questi modelli «alti» sono anche punto di riferimento, di ricerca e di formazione per molti che lavorano in sistemi inadeguati, e sono stati soprattutto il riferimento su cui le associazioni di familiari e di utenti hanno identificato e misurano le proprie aspettative. «Vogliamo per noi una normalità che non costi il loro internamento» è diventato, dopo alcuni anni di scontri e confronti, lo slogan della grande maggioranza di associazioni - che in questa e nelle prossime settimane hanno promosso una quantità di iniziative, segnate dalla speranza combattiva di tenere aperto il tema della trasformazione della psichiatria e del welfare, ma anche in affanno per le troppe cose che non vanno, per i tradimenti, travisamenti, trasformismi, e per la distanza a volte intollerabile tra le parole e i comportamenti di tanti operatori e amministratori.
L’esito delle elezioni certo non aiuta, visto che una controriforma sta nel programma dei vincitori: ma il potere vero, il potere di fare in campo sanitario e sociale ormai da tempo ce l’hanno le regioni. La Sardegna però è la sola che in questi anni ha avviato e persegue un programma complessivo di cambiamento, mentre le altre regioni, pure quelle da sempre amministrate dal centrosinistra, si sono limitate e si limitano a lasciar fare: sia chi organizza servizi a misura dei pregiudizi tranquillizzanti e degli interessi consolidati, sia chi trova mezzi e consenso per un progetto di trasformazione degli assetti e delle culture.Così, la grande innovazione che suscita interesse in tutto il mondo ha prodotto finora meno di ciò che «la 180» vuole e consente, e anche di ciò che hanno dimostrato possibile quelle Asl che, in tutte le regioni e per le vie più diverse, l’hanno presa sul serio.
Su queste storie opposte e contigue occorrerà tornare per capire cosa è cambiato nella possibilità di vivere la follia, a trent’anni dalla legge di riforma e a quarant’anni dall’uscita del libro - L’istituzione negata (Franco Basaglia, Einaudi, 1968) - che ha rivelato alla società italiana la follia segregata e offesa, la logica del manicomio e le vie per combatterla.