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Europa. Italia: Roma...

LA QUESTIONE ROM, LA CIVILTA’ EUROPEA E I DORMIENTI. La lezione di Emilia, la donna Rom che s’è sdraiata sull’asfalto davanti a un autobus per denunciare il Rom assassino di Giovanna Reggiani, e di Kafka. L’analisi di Barbara Spinelli e una nota di Michele Ainis - a cura di pfls

domenica 4 novembre 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] l’integrazione resta indispensabile, che chiuder le porte non basta, che è necessario far luce sui pericoli che corre non solo la sicurezza ma la democrazia. Dice Franz Kafka: «Bisognerà pure che nel campo dei dormienti qualcuno attizzi il fuoco nella notte». Questo invito a far luce sui veri tabù vale per i dormienti dell’Est e per l’Europa. Vale per i Rom (il loro faro non dovrebbe esser la figura della vittima ma la donna Rom che s’è sdraiata sull’asfalto davanti a un autobus per (...)

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> LA QUESTIONE ROM, LA CIVILTA’ EUROPEA E I DORMIENTI. .... Delitto e castigo (di Furio Colombo).

lunedì 5 novembre 2007

Delitto e castigo

di Furio Colombo *

Appena il tempo di improvvisare discorsi irresponsabili da parte di Fini e Berlusconi, e subito le squadre di picchiatori mascherati sono entrate in azione come se fossero mosse da un’incontenibile indignazione per un evento atroce appena accaduto. Invece quel delitto è solo un pretesto. Con maschere e bastoni (per ora solo bastoni) erano già pronti. Ed erano pronti anche i discorsi irresponsabili di due che hanno già governato per cinque anni e fino a poco fa, e sono stati quasi sempre impegnati a danneggiare le istituzioni, spiare gli avversari politici, senza lasciare una traccia di civiltà umana e politica.

Le loro migliori energie sono state investite nelle Commissioni d’inchiesta Mitrokhin e Telecom Serbia, dotate di fondi copiosi, di testimoni chiave incriminati per calunnia e di clamorosi delitti internazionali (il caso Litvinenko). Ricordate una Commissione del passato governo che abbia mai lavorato su legalità e integrazione degli immigrati?

Ma rivediamo i dolorosi eventi di questi giorni e cerchiamo di capire perché non riusciremo a uscirne con dignità, civiltà e realismo.

* * *

Al centro della scena c’è un episodio spaventoso. Soltanto il massacro di Erba è così orrendo, o quello del piccolo Samuele, o la strage di Novi Ligure, o lo scempio della ragazza di Garlasco. Oppure, tornando indietro nel tempo, la mattanza a cui è scampata per caso al Circeo Donatella Colasanti, e il più recente crimine provocato dal suo mancato assassino di allora, Angelo Izzo, di nuovo assassino, di nuovo in carcere.

E la spaventosa messa a morte di Pasolini, lo scioglimento nell’acido del figlio dodicenne di un pentito di mafia. Tutto ciò scatena una impressione altrettanto grande: ferocia, follia. E provoca lo stesso strenuo desiderio di giustizia e di punizione.

Questa volta però intorno alla scena c’è un Paese spaccato. Una parte politica chiede vendetta contro l’altra. Ciò che è accaduto in una buia, maledetta stradina di Tor di Quinto a Roma, una signora italiana massacrata da un vagabondo rumeno mentre rincasa - è un delitto politico.

Infatti non è lo spaventoso abbattersi della bestialità di un essere umano che fa scempio di un altro essere umano, come accade da millenni lungo il percorso di immenso pericolo che chiamiamo vita e che è frequentato da una folla di Abele e Caino, non identificati fino al un momento in cui scatta il delitto.

No. Benché ci sia sangue vero, dolore vero, vera disperazione, tanto più grande quanto più è evidente la squallida e solitaria abiezione dell’assassino di Tor di Quinto, inerte agente di morte caduto come un masso dell’autostrada sulla povera vittima, nonostante tutto ciò, viene furiosamente invocato il teatro dei simboli. Un macabro sventolio di bandiere che non c’entrano col dolore, l’orrore, il pericolo, si mette in marcia accanto al cadavere di una signora morta ammazzata alla periferia di una grande città del mondo.

È un’armata agguerrita che parte dalla disgrazia-delitto, dalla spaventosa e generale angoscia e umiliazione e disorientamento per la bestiale natura dell’evento. Ma il corteo non si muove per recarsi sul posto e alleviare il dolore, non si muove per unirsi ad altri cortei che tentano, con sforzo, speranza, preghiera, di diminuire sia il pericolo che il senso del pericolo. Non si riunisce per pensare una strategia (umana, dunque imperfetta, dunque quasi impossibile però necessaria) per limitare un po’ il cerchio della percezione del rischio, per allargare lo spazio in cui ci si sente un po’ più sicuri. No, queste bandiere garriscono e questa folla è in marcia, senza badare alla signora assassinata, al dolore della famiglia. Sono qui riunite al solo scopo di abbattere il governo Prodi.

* * *

È un obiettivo modestissimo, a confronto col cadavere martoriato. Non tanto perché si presta alla domanda-ritorsione: avete governato fino a un momento fa con una specifica e celebrata legge sulla immigrazione, avete governato per cinque anni, «36 riforme, 12 codici» (cito Berlusconi nel comizio di Napoli) e con una larghissima maggioranza. Dove eravate quando persone come il presunto assassino di Giovanna andava, veniva, tornava? Dove sono le vostre “misure” salvavita dei cittadini, di cui non si trova traccia?

Una simile domanda sarebbe altrettanto meschina quanto la marcia squallida e inutile delle bandiere della vendetta. (E non stiamo neppure parlando di quel nodo di odio che è la vendetta intesa come lavacro, dunque morte in cambio di morte; ma di vendetta politica: dare l’assalto a un governo perché un cadavere è una buona occasione). Una simile domanda è altrettanto meschina per due ragioni.

La prima è il rispetto che bisogna avere per le parole pronunciate accanto alla donna morente, con immensa nobiltà, dalla madre e dal marito della vittima: «Siamo gente capace di distinguere. Sappiamo bene che rumeni, rom, gli stessi italiani non sono tutti uguali. Quello che è stato fatto a Giovanna poteva essere compiuto anche da uno del nostro Paese. Siamo preoccupati che si faccia di tutta un’erba un fascio e che quanto accaduto possa essere strumentalizzato».

La seconda ragione è che l’emergenza, che è nei fatti ma soprattutto in quel fenomeno potentissimo che è la percezione dei fatti, può essere fronteggiata con efficacia e con decenza solo da un Paese unito, ovvero da tutti coloro che sono responsabili sia di guida politica che di guida d’opinione di un Paese, affinché si blocchi la tentazione non nobile di usare i cadaveri come strumento di lotta politica. Affinché ci si renda conto che il gioco delle parti (una buona, una cattiva) in casi e momenti come questo è sterile, paralizzante. Serve alle manifestazioni, serve come anticipo di una campagna elettorale. Ma non serve all’angosciosa richiesta (che coinvolge sia i cittadini sia gli immigrati) di essere - o almeno di sentirsi - un po’ meno in pericolo.

In questo momento i cittadini, con il loro disorientato stordimento, invece di diventare target di spot elettorali, dovrebbero diventare partecipi di un più vasto e civile progetto in cui non si scacciano gli immigrati come nemici, non si bastonano come prede di una caccia selvaggia, ma si affronta tutta la criminalità, italiana e importata, come un immenso problema comune. Tutto ciò richiede dimensioni che per ora non si intravvedono nella vita pubblica italiana. Tutto ciò richiede una generosa e civile capacità di dire: il dolore è più importante della bandiera. E i cittadini vengono prima dei punti da segnare per un partito.

* * *

Tutto ciò - è bene ricordarlo - avviene nel Paese disastrato Italia, sul fondale in un mondo in pericoloso sbandamento economico, mentre crepe allarmanti si intravvedono in strutture economiche internazionali che abbiamo sempre immaginato come pilastri. Le Borse del mondo continuano a cedere, il costo del petrolio continua a salire.

Tutto ciò avviene sul fondale di strani venti di guerra, raffiche di vento gelido che spazzano via attese e speranze di pace fra l’influenza americana e quella russa. Vengono pronunciate frasi come l’annuncio di impianto di “scudo spaziale” di Bush ai confini della Russia e l’affermazione di Putin che paragona questa minaccia alla crisi dei missili di Cuba. Entrambi descrivono un mondo fuori equilibrio, sbilanciato sul bordo di zone oscure, da cui possono venire soltanto rischi più grandi.

Tutto ciò avviene mentre nessuno dei focolai di guerra già accesi nel mondo si è spento (Iraq, Afghanistan), mentre il Medio Oriente resta accanto a tutti i suoi pericoli, intatti e moltiplicati. Si vede il martirio della Birmania, tormentata e depredata per decenni dai generali; riprende il terrore in Somalia, ormai terra senza governo disputata fra bande; continua il genocidio che dura da anni in Darfur, regione del Sudan, vittime, a centinaia di migliaia, donne e bambini.

Tutto ciò avviene all’interno di un’Europa senza luce e senza fiducia, con una moneta - l’euro - troppo forte e governi troppo deboli. Ha un volto pallido questa Europa, difficile da identificare, senza cause o progetti o ragioni di impegno, il volto di qualcuno desideroso di stare alla larga dai grandi problemi. Alla larga anche da un problema grande e urgente come l’immigrazione, e il modo in cui farlo fluire, sapendo che è una ricchezza, senza farsi inondare. L’Europa distribuisce ai suoi membri regole automatiche di comportamento che negano la Storia. Pensate a questa, tanto cara alla Casa delle Libertà, al solo scopo di spingere alla frantumazione fra destra e sinistra dentro la maggioranza di Prodi: «Espulsioni per chi ha commesso reati. E anche per chi non ha fonti certe di sostentamento». La seconda parte della disposizione è staccata dalla realtà per molte clamorose ragioni.

Una è che anche i giovani cittadini europei - certo i giovani italiani - trascorrono anni in cerca di “una fonte certa di sostentamento”. E, per esempio, ne risulterebbe privo il giovane immigrato individuato come “senza lavoro” mentre è impegnato, con mille sacrifici, nel tentativo di dar vita ad un’impresa. Ma come non pensare che, con una simile regola, sarebbero stati espulsi dagli Stati Uniti Garibaldi e Meucci (mentre tentavano di sopravvivere a Staten Island, periferia di New York, fabbricando candele) e le famiglie povere Cuomo e Scalia, molto prima che un Cuomo diventasse governatore di New York e uno Scalia diventasse giudice della Corte Suprema americana?

Ecco dove dovrebbe finire il gioco un po’ macabro del lucrare politicamente su un grave e impressionante delitto. Nella grande responsabilità comune. Eppure credo di poter predire ai nostri lettori che il giorno 5 novembre alle ore 17, noi, maggioranza (con l’angosciosa speranza di restare maggioranza) entreremo in aula al Senato per ascoltare, fin dal primo minuto e per ogni ora e giorno di seduta, il lungo urlo, colmo di insulti, che la Casa delle Libertà e i partiti associati chiamano opposizione. E niente altro.

Quanto alla sicurezza, avremo un diluvio di informazioni sulle colpe di Veltroni, di Amato, di Prodi. E non una parola su un realistico, civile «che fare». Il delitto è ciò che è accaduto a Tor di Quinto, un delitto tremendo. Il castigo è non avere una opposizione normale. Per questa triste ragione il delitto continua.

* l’Unità, Pubblicato il: 04.11.07, Modificato il: 04.11.07 alle ore 8.25


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