L’Europa e il tabù dei Rom
di Barbara Spinelli (La Stampa, 4/11/2007)
La risposta delle autorità pubbliche al massacro di Giovanna Reggiani è stata ferma, netta: non c’è spazio in Italia per chi vive derubando, violando, uccidendo. C’è qualcosa di sacro nel bisogno di sicurezza sempre più acutamente sentito dagli italiani, così come c’è qualcosa di sacro nell’ospitalità, nell’apertura al diverso, nella circolazione libera dentro l’Unione.
Quest’antinomia permane ma comincia a esser vissuta come un ostacolo, anziché come una convivenza di norme contrastanti (di nòmos) che vivifica l’Europa pur essendo ardua. È un’antinomia che educa a vivere con due imperativi: l’apertura delle porte ma anche la loro chiusura se necessario. Molti chiedono negli ultimi giorni di «interrompere i flussi migratori»: la collera suscitata dal crimine di Tor di Quinto ha rotto un argine, anche nel nuovo Partito democratico, e d’un tratto sembra che solo un imperativo conti: le porte chiuse.
Su un quotidiano di sinistra, l’Unità, sono apparse parole strane. Si è parlato, a proposito del quartiere del delitto, di «tutta un’umanità brutta sporca e cattiva»; si è parlato di «città italiane che funzionano come miele per le mosche di uno sciame incontrollato che viene dall’Est Europa». L’umanità sporca, lo sciame di mosche: è vero, un tabù cade a sinistra e tanti se ne felicitano, constatando che finalmente il buonismo è stato smesso e che la sinistra non va più alla ricerca dei motivi sociali della delinquenza ma si concentra sulla repressione e le vittime.
Gli imperativi dell’apertura s’appannano, la tensione vivificante fra norme diverse svanisce, entriamo in un mondo che promette certezze monolitiche: basta interrompere i flussi, e il male scompare. Spesso il capro espiatorio nasce così, con questa riduzione a uno del molteplice, del complesso. Spesso nascono così i pogrom, come quello scatenato venerdì sera contro i romeni nel quartiere romano di Tor Bella Monaca: dall’Ottocento hanno questo nome, in Europa, le spedizioni punitive contro i diversi.
Anche le ideologie nascono così, fantasticando scorciatoie che risolvono tutto subito. Oggi è la destra a sognare utopie simili, e la sinistra riformatrice s’accoda sperando di ricavare guadagni elettorali. La distruzione dei campi rom è parte di quest’ideologia. Un’ideologia irrealistica perché l’immigrazione non sarà fermata e l’Europa ne ha bisogno. La Spagna sembra esserne consapevole e non a caso è diventata il Paese con il più alto numero di immigrati e progetti d’integrazione. La ripresa della natalità iberica è dovuta a questo. Chi parla dell’immigrazione come di male evitabile sbaglia due volte: perché non è evitabile, e perché in sé non è un male.
Se non si vuole che sia un male occorre governarlo bene, il che vuol dire: non solo reprimendo, ma reinventando politiche in Italia e nell’Unione. Perché europei sono i dilemmi ed europeo sarà l’inizio della soluzione. Perché il tabù di cui tanto si discute non è quello indicato (buonismo, tolleranza). Il vero tabù, che impedisce con i suoi interdetti di vedere e dire la realtà, è un altro: è la questione Rom ed è l’inerzia con cui la si affronta nel dialogo con l’Est da dove vengono i cosiddetti nomadi. Fuggiti dall’India nell’anno 1000, giunti in Europa nel Trecento, i Rom assieme ai Sinti sono chiamati spregiativamente zingari, parlano una lingua derivata dal sanscrito, in genere sono cristiani (la parola Rom, come Adamo, significa «persona». I più vivono in Romania). Siamo in emergenza, è vero. Ma non è solo emergenza sicurezza. C’è emergenza europea sui diritti dell’uomo e delle minoranze. C’è una doppia inerzia: nelle strategie d’integrazione e nei rapporti tra Stati europei.
Quest’emergenza è acuta a Est, da quando è finito il comunismo: in Romania è specialmente vistosa ma la malattia s’estende a Slovacchia, Ungheria, Repubblica ceca, Kosovo. Al concetto unificatore di classe è succeduto dopo l’89 il senso d’appartenenza alle etnie, e vecchie passioni come xenofobia e razzismo, non superate ma addormentate durante il comunismo, sono riapparse: i più invisi sono i Rom - oltre agli ungheresi che non vivono in Ungheria - e il loro migrare a Ovest è intrecciato a questa ostilità dentro i Paesi dell’Est e fra diversi emigrati dell’Est.
È quello che i rappresentanti Rom in Europa denunciano ultimamente con forza (sono circa 8 milioni, su 15 nel mondo). La Romania, in particolare, è accusata di attuare un politica sistematica di espulsione di Rom, da quando è entrata nell’Unione all’inizio del 2007. Il ministro dell’Interno, Amato ha evocato a settembre un «vero e proprio esodo di nomadi dalla Romania», e di esodo in effetti si tratta: ma esodo forzato, nell’indifferenza europea. Dicono i rappresentanti Rom che i membri della comunità in Romania son cacciati dagli alloggi, dai lavori, dalle scuole, e per questo preferiscono le topaie italiane. Il ministro Ferrero, responsabile della Solidarietà sociale, dice il vero quando nega che l’esodo sia essenzialmente economico: la Romania non è più così povera, sono xenofobia e razzismo a colpire oggi i Rom.
Queste cose andrebbero ricordate a Bucarest, cosa che hanno tentato di fare Amato e Ferrero in un recente incontro con il ministro romeno dell’Interno, David. Ferrero ha cercato lumi presso il Forum europeo dei Rom e tentato di mettere alle strette David. Dall’incontro è nata la convocazione di un tavolo permanente di negoziato: presto si riunirà a Bucarest. Proprio perché è nell’Unione, la Romania deve rispondere di quel che fa con i propri Rom (2 milioni, secondo stime ufficiose).
Discutere di queste cose con Bucarest e altri governi dell’Est è urgente. Un patto è stato infatti rotto, che pure era assai chiaro. Ai tempi dei negoziati d’adesione, i candidati si erano impegnati a rispettare i criteri di Copenhagen, che non riguardano solo l’economia ma le «istituzioni capaci di garantire democrazia, primato del diritto, diritti dell’uomo, rispetto delle minoranze e loro protezione». Ingenti fondi son devoluti da anni a tale scopo (il programma europeo Phare, cui si aggiungono finanziamenti della Fondazione Soros, della Banca Mondiale) intesi a frenare la «discriminazione fondata sulla razza e l’origine etnica».
È accaduto tuttavia che una volta entrati, numerosi governi dell’Est hanno fatto marcia indietro (il regime Kaczynski in Polonia è stato un esempio). Ed è così che si è riaccesa l’ostilità verso i Rom: questa etnia perseguitata da un millennio e decimata nei campi nazisti. Paragonarli a uno sciame di mosche non è anodino. Significa che l’Italia (per come parla o chiede azioni) comincia ad assomigliare a quegli europei dell’Est che stanno arretrando e riproponendo, ancora una volta nel continente, il dramma Rom. Certo urge controllare meglio i flussi migratori: ma non si può farlo accusando intere etnie (Rom, Romeni, Albanesi) per il delitto di alcuni. Non si può governare alcunché se non si prende distanza dalla strategia di cui Bucarest è oggi sospettata.
La caduta dei tabù comporta anche il formarsi di idee completamente false. Con disinvoltura i Rom son descritti come non integrabili, nomadi, dediti al furto. I dati smentiscono queste nozioni. In Italia la comunità Rom è composta in stragrande maggioranza di sedentari, non di nomadi. E tentativi molto validi di integrazione hanno dimostrato che quest’ultima può riuscire.
Ci sono iniziative della Chiesa: le ha spiegate sul Corriere don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità a Milano. E ci sono iniziative pubbliche preziose: a Pisa, Napoli, Venezia. Pisa è esemplare perché i risultati sono eccezionali: nei campi vivevano 700 Rom, dieci-dodici anni fa. Solo due bambini erano scolarizzati. Il Comune si è incaricato di trovar loro lavoro e alloggi, scegliendo un mediatore per negoziare con i vicini. Appena emancipati, i Rom uscivano dal programma d’assistenza e i fondi servivano a integrare altri loro connazionali. Nel frattempo, si spingevano le famiglie a scolarizzare i figli. In dieci anni, 670 Rom su 700 sono stati inseriti, e tutti i bambini vanno a scuola. Certo la comunità in Italia è divisa: alcuni chiedono più campi, mentre i più vogliono superarli proprio perché il nomadismo è meno diffuso di quel che si dice: il 90 per cento dei Rom (140 mila nel 2005, in parte italiani) non sono camminanti bensì - da decenni - sedentari.
Per riuscire in simili operazioni bisogna abbandonare l’utopia, privilegiando fatti ed esperienze. Ambedue confermano che l’integrazione resta indispensabile, che chiuder le porte non basta, che è necessario far luce sui pericoli che corre non solo la sicurezza ma la democrazia. Dice Franz Kafka: «Bisognerà pure che nel campo dei dormienti qualcuno attizzi il fuoco nella notte». Questo invito a far luce sui veri tabù vale per i dormienti dell’Est e per l’Europa. Vale per i Rom (il loro faro non dovrebbe esser la figura della vittima ma la donna Rom che s’è sdraiata sull’asfalto davanti a un autobus per denunciare il Rom assassino di Giovanna Reggiani) e vale per la destra come per la sinistra italiana.
Un rumeno non è tutti i rumeni
di MICHELE AINIS (La Stampa, 04/11/2007)
La legge Mancino punisce con tre anni di galera l’istigazione all’odio razziale: a prenderla sul serio, metà dei politici italiani dovrebbe finire in gattabuia.
Perché c’è una deriva razzista nella società italiana, e questa deriva viene ormai cavalcata da politici di destra e di sinistra, in cambio di qualche grammo di consenso a buon mercato.
Così il delitto di un singolo diventa il crimine di un intero popolo. Così la sfida della globalizzazione viene affrontata negando allo straniero la sua stessa identità di uomo: ogni romeno è un rom, ogni rom è un tagliagole. Da qui l’assalto di una folla linciante a 48 zingari rinchiusi in un centro d’accoglienza cattolico a Pieve Porto Morone, durante lo scorso mese di settembre. Da qui le ronde, i pestaggi, i raid dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani.
Noi, per lo più, non ci rendiamo conto del brodo razzista in cui nuotiamo. Perché il razzismo lentamente sta permeando la nostra cultura, i nostri atteggiamenti pubblici e privati, perfino le parole che usiamo per definire il mondo. Per dirne una, «extracomunitario» è un termine razzista, dato che non qualifica lo straniero in base alla sua comunità d’origine bensì solo alla nostra, alla comunità europea dalla quale lui è irrimediabilmente escluso. Ma è razzista anche il tg che racconta un incidente d’auto sparando la nazionalità dell’investitore quando si tratta d’un albanese o un tunisino, chiamandolo con nome e cognome se invece il colpevole è italiano. No, è pressoché impossibile accorgersi di un tumore che cova sottopelle. Tuttavia il medico da fuori può svelarlo e infatti nel 2006 la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza ha messo l’Italia all’indice, e altrettanto ha fatto il rapporto Amnesty 2007.
Ecco perché c’è urgenza di rispolverare i principi della nostra civiltà giuridica. La responsabilità penale è personale, afferma l’articolo 27 della Costituzione. Significa che a uccidere è stato Romulus Mailat, non i 22 milioni di suoi connazionali. E d’altronde si deve a una romena l’immediata denuncia del colpevole. Ogni generalizzazione non è soltanto ingiusta, è anche a propria volta criminale, giacché restituisce fiato e corpo all’emergenza ebraica coniata dai nazisti. Pensateci: uno tra i delitti più efferati apparsi nelle cronache - quello del «canaro» - fu commesso da un italiano. Se è per questo, pure Al Capone aveva sangue napoletano nelle vene. Ma non è affatto lecito desumerne che gli italiani siano tutti delinquenti. Dovremmo rammentarcene, e dovremmo rammentarlo a chi ci rappresenta nel Palazzo. Il razzismo non è la soluzione per le nostre insicurezze. Al contrario: propaga odio, e quindi genera nuove insicurezze.
micheleainis@tin.it
I romeni e l’indulto
di TITO BOERI (La Stampa, 6/11/2007)
Secondo Silvio Berlusconi, gli efferati crimini di cui si sono ripetutamente macchiati in questi mesi criminali giunti in Italia dalla Romania sarebbero il frutto di politiche dell’immigrazione eccessivamente permissive. «Come Paese dovevamo fare una moratoria nei confronti della Romania, come hanno fatto Spagna, Germania, Austria e Inghilterra che hanno chiuso le frontiere per due anni ai lavoratori provenienti da quel Paese», ha dichiarato due giorni fa, commentando l’omicidio di Giovanna Reggiani.
Di fronte ad episodi di questo tipo, la classe politica ha il dovere di ascoltare il dolore di familiari e conoscenti delle vittime e farsi interprete delle paure dell’opinione pubblica. Deve agire subito, sulla scia dei sentimenti diffusi, prima che il senso di insicurezza sfoci in reazioni emotive, che rischierebbero di aprire una vera e propria guerra civile dato che oggi, secondo i dati della Caritas, abbiamo a casa nostra più di mezzo milione di romeni, tanti quanti la popolazione dell’intera Basilicata. Ma la classe politica non deve mai abdicare al suo dovere di informare. Soprattutto in questi frangenti. E prendersela con le politiche dell’immigrazione vuol dire semplicemente disinformare l’opinione pubblica, cercando di mascherare responsabilità che sono da ricercare altrove, a partire dal segnale di lassismo nella repressione della criminalità offerto da una fetta molto consistente della classe politica con provvedimenti come l’indulto.
La Romania è entrata a far parte dell’Unione Europea dal primo gennaio 2007. Da quella data i suoi cittadini possono liberamente circolare sul territorio dell’Unione senza aver bisogno di alcun visto. Ai nuovi cittadini può venire negato o comunque fortemente limitato il diritto di lavorare in un altro Paese, per un «periodo transitorio» che può durare fino a un massimo di sette anni dall’entrata di questi Paesi nell’Unione. Ciò significa che è possibile impedire ai cittadini di questi Paesi di lavorare legalmente da noi, ma certamente non di entrare nel nostro Paese per poi svolgervi attività illegali. La Spagna, come osservava Berlusconi, ha mantenuto vincoli stringenti agli ingressi di lavoratori provenienti da Bulgaria e Romania sul proprio territorio, ma si ritrova oggi una popolazione di romeni addirittura superiore alla nostra. Se si volevano chiudere le frontiere ai romeni, si sarebbe dovuto impedire o ritardare l’allargamento a Est dell’Unione, ratificato dal Parlamento italiano negli anni del governo Berlusconi.
Questo non significa che non ci siano correttivi da apportare alle norme che regolano la mobilità delle persone all’interno dell’Unione. Ma questi correttivi non possono che essere definiti a livello europeo perché derogano al principio della libera circolazione delle persone sul suo territorio, su cui si fonda da sempre la Comunità Europea. Una direttiva dell’Unione del 2004 (da noi recepita nel febbraio 2007) permette che questa regola non valga per più di tre mesi nel caso di immigrati che non hanno mezzi di sussistenza. Il principio è che i cittadini di altri Paesi dell’Unione non possono gravare sull’assistenza sociale, dunque sui contribuenti nei Paesi che li accolgono, per più di tre mesi.
Il problema è che è molto difficile stabilire la data d’ingresso di queste persone e le condizioni di autosufficienza. Molti immigrati, anche quando lavorano, vivono in condizioni che noi riterremmo al di sotto del livello di sussistenza. Bisognerebbe allora introdurre criteri più stringenti e di più facile verifica, ad esempio richiedere che chi non ha un lavoro ed è in grado di lavorare abbia intrapreso documentate attività di ricerca attiva di un lavoro nell’ultima settimana. Inoltre, la direttiva non impedisce che gli immigrati espulsi dal nostro Paese vi facciano rientro il giorno dopo. Non c’è alcun divieto al reingresso delle persone espulse grazie a questa direttiva, come ha sperimentato lo stesso Sarkozy che ha rivisto in televisione le persone che aveva espulso qualche giorno prima. La beffa è che si vantavano di avere ricevuto dallo Stato francese 500 euro e di averne spesi solo 150 per uscire e poi rientrare in Francia. Bene sarebbe allora che partisse una richiesta congiunta di maggioranza e opposizione, che dia modo al Commissario alla Giustizia, Libertà e Sicurezza Frattini (in questi giorni più presente in Italia che a Bruxelles) di sostenere una rapida riforma di questa direttiva europea.
Il vero punto debole del nostro Paese, ciò che finisce per attrarre da noi molti criminali è la scarsa repressione della criminalità. E non sono i romeni in quanto tali il problema, ma il fatto che tra i romeni che vengono da noi ci sono più criminali che fra quelli diretti, ad esempio, in Spagna. Una classe politica che cerca disperatamente capri espiatori da vendere all’opinione pubblica dovrebbe guardare a quella larga maggioranza che ha varato provvedimenti come l’indulto, senza minimamente preoccuparsi di valutare il rischio di recidività dei detenuti rimessi in libertà. E senza pensare che stava offrendo un segnale di lassismo non solo a chi era già in Italia, ma anche a chi ci stava guardando da Paesi che provengono da anni molto bui, in cui una fetta consistente della popolazione ha vissuto, giorno per giorno, la violenza e la disperazione.
Dove guarda la Spinelli *
di Vincenzo Vasile *
Da un attico di una lontana città del Nord Europa, Barbara Spinelli su La Stampa accusa l’Unità di avere scritto «parole strane» sul martirio di Giovanna Reggiani. Avere scritto che nella misera baraccopoli dove è maturato il delitto si aggira «tutta un’umanità brutta sporca e cattiva» (citazione di un film di Ettore Scola che negli anni Settanta svelava senza ipocrisie la disperazione e la brutalità delle condizioni di vita in certe baraccopoli romane); avere scritto di «città italiane che funzionano come miele per le mosche di uno sciame incontrollato che viene dall’Est Europa» (immagine che ci sembrava persino tenue rispetto alla formidabile e «incontrollata» pressione di immigrati «comunitari» e anche di delinquenza che l’ingresso della Romania nella Ue da un anno a questa parte ha determinato).
Come i nostri lettori ricordano, il giorno dell’assassinio di Giovanna Reggiani abbiamo voluto porre con forza la questione di misure urgenti ed efficaci per dare risposta alla stringente domanda di sicurezza della gente comune, per scongiurare il pericolo che essa venga incanalata e cavalcata da xenofobi e irresponsabili: isolare e cacciare via i violenti, per tutelare sia la popolazione in allarme, sia la parte operosa e onesta delle comunità straniere. Un modo, l’unico modo per sedare i focolai di odio e impedire che divampino. Così estrapolate, invece, le nostre due frasi conducono Spinelli a una conclusione sbalorditiva: esse rivelerebbero l’intenzione della sinistra di accodarsi alla destra razzista «sperando di ricavare guadagni elettorali», e sarebbero addirittura criminogene: «Spesso il capro espiatorio nasce così (...) spesso nascono così i pogrom, come quello scatenato venerdì sera contro i romeni di Tor Bella Monaca». Le aggressioni verbali che intanto la destra ha lanciato in questi giorni contro il governo centrale e l’amministrazione comunale di Roma, che si sono mossi sulla linea che questo giornale ha cercato di stimolare, forse basterebbero per rispondere a un processo alle intenzioni che si basa su una banalità che delude gli attenti e affezionati lettori di Barbara Spinelli: avremmo rotto, scrive, il nostro tabù «buonista». Si potrebbe aggiungere che abbiamo semplicemente scritto le cose come stanno. Attenendoci a un principio di realtà che consideriamo essenziale sia per la buona politica, sia per il buon giornalismo. E cioè, per esempio, abbiamo scritto, e ripetiamo che il particolare «privilegio» di impunità di cui godono piccoli, medi e grandi racket importati e fioriti nella disperazione delle favelas italiane ha prodotto una evidente e chiara statistica: viene proprio da quei «nuovi europei» il 75 per cento dei reati della cosiddetta microcriminalità nella capitale (e si parla solo di quelli denunciati e solo dei colpevoli identificati!). Ma, rudezza per rudezza, vogliamo anche ricordare che una sinistra astratta e salottiera non comprese, e a volte avversò, negli anni passati la battaglia che, al fianco di magistrati e poliziotti valorosi, una sinistra più concreta e un giornale poco «buonista» come l’Unità hanno condotto contro le grandi forme di criminalità organizzata. Dagli uomini e dalle donne di acuta cultura ci aspetteremmo che al cospetto dell’emergenza della violenza quotidiana non chiudessero gli occhi e non perseguissero lo stesso, identico errore.
* l’Unità, Pubblicato il: 05.11.07, Modificato il: 05.11.07 alle ore 8.44
Delitto e castigo
di Furio Colombo *
Appena il tempo di improvvisare discorsi irresponsabili da parte di Fini e Berlusconi, e subito le squadre di picchiatori mascherati sono entrate in azione come se fossero mosse da un’incontenibile indignazione per un evento atroce appena accaduto. Invece quel delitto è solo un pretesto. Con maschere e bastoni (per ora solo bastoni) erano già pronti. Ed erano pronti anche i discorsi irresponsabili di due che hanno già governato per cinque anni e fino a poco fa, e sono stati quasi sempre impegnati a danneggiare le istituzioni, spiare gli avversari politici, senza lasciare una traccia di civiltà umana e politica.
Le loro migliori energie sono state investite nelle Commissioni d’inchiesta Mitrokhin e Telecom Serbia, dotate di fondi copiosi, di testimoni chiave incriminati per calunnia e di clamorosi delitti internazionali (il caso Litvinenko). Ricordate una Commissione del passato governo che abbia mai lavorato su legalità e integrazione degli immigrati?
Ma rivediamo i dolorosi eventi di questi giorni e cerchiamo di capire perché non riusciremo a uscirne con dignità, civiltà e realismo.
* * *
Al centro della scena c’è un episodio spaventoso. Soltanto il massacro di Erba è così orrendo, o quello del piccolo Samuele, o la strage di Novi Ligure, o lo scempio della ragazza di Garlasco. Oppure, tornando indietro nel tempo, la mattanza a cui è scampata per caso al Circeo Donatella Colasanti, e il più recente crimine provocato dal suo mancato assassino di allora, Angelo Izzo, di nuovo assassino, di nuovo in carcere.
E la spaventosa messa a morte di Pasolini, lo scioglimento nell’acido del figlio dodicenne di un pentito di mafia. Tutto ciò scatena una impressione altrettanto grande: ferocia, follia. E provoca lo stesso strenuo desiderio di giustizia e di punizione.
Questa volta però intorno alla scena c’è un Paese spaccato. Una parte politica chiede vendetta contro l’altra. Ciò che è accaduto in una buia, maledetta stradina di Tor di Quinto a Roma, una signora italiana massacrata da un vagabondo rumeno mentre rincasa - è un delitto politico.
Infatti non è lo spaventoso abbattersi della bestialità di un essere umano che fa scempio di un altro essere umano, come accade da millenni lungo il percorso di immenso pericolo che chiamiamo vita e che è frequentato da una folla di Abele e Caino, non identificati fino al un momento in cui scatta il delitto.
No. Benché ci sia sangue vero, dolore vero, vera disperazione, tanto più grande quanto più è evidente la squallida e solitaria abiezione dell’assassino di Tor di Quinto, inerte agente di morte caduto come un masso dell’autostrada sulla povera vittima, nonostante tutto ciò, viene furiosamente invocato il teatro dei simboli. Un macabro sventolio di bandiere che non c’entrano col dolore, l’orrore, il pericolo, si mette in marcia accanto al cadavere di una signora morta ammazzata alla periferia di una grande città del mondo.
È un’armata agguerrita che parte dalla disgrazia-delitto, dalla spaventosa e generale angoscia e umiliazione e disorientamento per la bestiale natura dell’evento. Ma il corteo non si muove per recarsi sul posto e alleviare il dolore, non si muove per unirsi ad altri cortei che tentano, con sforzo, speranza, preghiera, di diminuire sia il pericolo che il senso del pericolo. Non si riunisce per pensare una strategia (umana, dunque imperfetta, dunque quasi impossibile però necessaria) per limitare un po’ il cerchio della percezione del rischio, per allargare lo spazio in cui ci si sente un po’ più sicuri. No, queste bandiere garriscono e questa folla è in marcia, senza badare alla signora assassinata, al dolore della famiglia. Sono qui riunite al solo scopo di abbattere il governo Prodi.
* * *
È un obiettivo modestissimo, a confronto col cadavere martoriato. Non tanto perché si presta alla domanda-ritorsione: avete governato fino a un momento fa con una specifica e celebrata legge sulla immigrazione, avete governato per cinque anni, «36 riforme, 12 codici» (cito Berlusconi nel comizio di Napoli) e con una larghissima maggioranza. Dove eravate quando persone come il presunto assassino di Giovanna andava, veniva, tornava? Dove sono le vostre “misure” salvavita dei cittadini, di cui non si trova traccia?
Una simile domanda sarebbe altrettanto meschina quanto la marcia squallida e inutile delle bandiere della vendetta. (E non stiamo neppure parlando di quel nodo di odio che è la vendetta intesa come lavacro, dunque morte in cambio di morte; ma di vendetta politica: dare l’assalto a un governo perché un cadavere è una buona occasione). Una simile domanda è altrettanto meschina per due ragioni.
La prima è il rispetto che bisogna avere per le parole pronunciate accanto alla donna morente, con immensa nobiltà, dalla madre e dal marito della vittima: «Siamo gente capace di distinguere. Sappiamo bene che rumeni, rom, gli stessi italiani non sono tutti uguali. Quello che è stato fatto a Giovanna poteva essere compiuto anche da uno del nostro Paese. Siamo preoccupati che si faccia di tutta un’erba un fascio e che quanto accaduto possa essere strumentalizzato».
La seconda ragione è che l’emergenza, che è nei fatti ma soprattutto in quel fenomeno potentissimo che è la percezione dei fatti, può essere fronteggiata con efficacia e con decenza solo da un Paese unito, ovvero da tutti coloro che sono responsabili sia di guida politica che di guida d’opinione di un Paese, affinché si blocchi la tentazione non nobile di usare i cadaveri come strumento di lotta politica. Affinché ci si renda conto che il gioco delle parti (una buona, una cattiva) in casi e momenti come questo è sterile, paralizzante. Serve alle manifestazioni, serve come anticipo di una campagna elettorale. Ma non serve all’angosciosa richiesta (che coinvolge sia i cittadini sia gli immigrati) di essere - o almeno di sentirsi - un po’ meno in pericolo.
In questo momento i cittadini, con il loro disorientato stordimento, invece di diventare target di spot elettorali, dovrebbero diventare partecipi di un più vasto e civile progetto in cui non si scacciano gli immigrati come nemici, non si bastonano come prede di una caccia selvaggia, ma si affronta tutta la criminalità, italiana e importata, come un immenso problema comune. Tutto ciò richiede dimensioni che per ora non si intravvedono nella vita pubblica italiana. Tutto ciò richiede una generosa e civile capacità di dire: il dolore è più importante della bandiera. E i cittadini vengono prima dei punti da segnare per un partito.
* * *
Tutto ciò - è bene ricordarlo - avviene nel Paese disastrato Italia, sul fondale in un mondo in pericoloso sbandamento economico, mentre crepe allarmanti si intravvedono in strutture economiche internazionali che abbiamo sempre immaginato come pilastri. Le Borse del mondo continuano a cedere, il costo del petrolio continua a salire.
Tutto ciò avviene sul fondale di strani venti di guerra, raffiche di vento gelido che spazzano via attese e speranze di pace fra l’influenza americana e quella russa. Vengono pronunciate frasi come l’annuncio di impianto di “scudo spaziale” di Bush ai confini della Russia e l’affermazione di Putin che paragona questa minaccia alla crisi dei missili di Cuba. Entrambi descrivono un mondo fuori equilibrio, sbilanciato sul bordo di zone oscure, da cui possono venire soltanto rischi più grandi.
Tutto ciò avviene mentre nessuno dei focolai di guerra già accesi nel mondo si è spento (Iraq, Afghanistan), mentre il Medio Oriente resta accanto a tutti i suoi pericoli, intatti e moltiplicati. Si vede il martirio della Birmania, tormentata e depredata per decenni dai generali; riprende il terrore in Somalia, ormai terra senza governo disputata fra bande; continua il genocidio che dura da anni in Darfur, regione del Sudan, vittime, a centinaia di migliaia, donne e bambini.
Tutto ciò avviene all’interno di un’Europa senza luce e senza fiducia, con una moneta - l’euro - troppo forte e governi troppo deboli. Ha un volto pallido questa Europa, difficile da identificare, senza cause o progetti o ragioni di impegno, il volto di qualcuno desideroso di stare alla larga dai grandi problemi. Alla larga anche da un problema grande e urgente come l’immigrazione, e il modo in cui farlo fluire, sapendo che è una ricchezza, senza farsi inondare. L’Europa distribuisce ai suoi membri regole automatiche di comportamento che negano la Storia. Pensate a questa, tanto cara alla Casa delle Libertà, al solo scopo di spingere alla frantumazione fra destra e sinistra dentro la maggioranza di Prodi: «Espulsioni per chi ha commesso reati. E anche per chi non ha fonti certe di sostentamento». La seconda parte della disposizione è staccata dalla realtà per molte clamorose ragioni.
Una è che anche i giovani cittadini europei - certo i giovani italiani - trascorrono anni in cerca di “una fonte certa di sostentamento”. E, per esempio, ne risulterebbe privo il giovane immigrato individuato come “senza lavoro” mentre è impegnato, con mille sacrifici, nel tentativo di dar vita ad un’impresa. Ma come non pensare che, con una simile regola, sarebbero stati espulsi dagli Stati Uniti Garibaldi e Meucci (mentre tentavano di sopravvivere a Staten Island, periferia di New York, fabbricando candele) e le famiglie povere Cuomo e Scalia, molto prima che un Cuomo diventasse governatore di New York e uno Scalia diventasse giudice della Corte Suprema americana?
Ecco dove dovrebbe finire il gioco un po’ macabro del lucrare politicamente su un grave e impressionante delitto. Nella grande responsabilità comune. Eppure credo di poter predire ai nostri lettori che il giorno 5 novembre alle ore 17, noi, maggioranza (con l’angosciosa speranza di restare maggioranza) entreremo in aula al Senato per ascoltare, fin dal primo minuto e per ogni ora e giorno di seduta, il lungo urlo, colmo di insulti, che la Casa delle Libertà e i partiti associati chiamano opposizione. E niente altro.
Quanto alla sicurezza, avremo un diluvio di informazioni sulle colpe di Veltroni, di Amato, di Prodi. E non una parola su un realistico, civile «che fare». Il delitto è ciò che è accaduto a Tor di Quinto, un delitto tremendo. Il castigo è non avere una opposizione normale. Per questa triste ragione il delitto continua.
* l’Unità, Pubblicato il: 04.11.07, Modificato il: 04.11.07 alle ore 8.25
Giocare col fuoco
di Marco Revelli (il manifesto, 04.11.2007)
Quanto avvenuto in Italia in questa maledetta settimana di Ognissanti non ha paragone con nessun altro paese civile. Che un crimine, per orrendo che sia - e l’assassinio di Giovanna Reggiani lo è -, produca come reazione la ritorsione collettiva, in alto e in basso, nelle istituzioni e nella società, contro un intero gruppo etnico e un’intera popolazione, è fuori da ogni criterio di civiltà, giuridica e umana. Che la colpa «personale» dell’autore del crimine venga fatta pagare sulla pelle di migliaia di donne, uomini, bambini, già costretti a vivere in condizioni di indigenza estrema, è cosa che non può non sollevare un senso di desolazione e disgusto.
Le immagini delle ruspe immediatamente entrate in azione per spianare gli «insediamenti abusivi» e ostentate in tutti i telegiornali, le irruzioni un po’ in tutta Italia nei «campi nomadi», le identificazioni di massa e le prime espulsioni annunziate trionfalmente da prefetti e giornali, come se tra quel crimine e quelle persone scacciate senza tanti complimenti esistesse un nesso diretto, fino all’aggressione di Tor Bella Monaca, evocano scenari inquietanti, d’altri luoghi e di altri tempi. Alludono a una bolla di odio, di ostilità, di paura aggressiva gonfiatasi sotto la superficie patinata della nostra quotidianità, che personalmente mi terrorizza. Sgonfiare quella «bolla calda» di rancore ed emotività, neutralizzarne i veleni, dovrebbe essere il compito di tutti noi. Di chiunque lavori davvero a una condizione di «sicurezza collettiva ». Soprattutto della politica, nel suo senso più nobile, come organizzazione della coabitazione pacifica nella città (della «bella politica», come ama chiamarla Veltroni).
E invece la politica, da cura del male si trasforma oggi in fattore di contagio. Anziché neutralizzarlo, finisce per reclutare l’odio. Per quotarlo alla propria borsa, come risorsa capace di assicurare il consenso prodotto dalla paura. Nel caso specifico ha incominciato Gianfranco Fini, perfettamente coerente in questo con il suo passato fascista, occupando il terreno del crimine. Dichiarandone con la sua sola presenza il carattere «politico». Facendone oggetto di contesa politica. Ma gli altri, purtroppo, non si sono tirati indietro. L’hanno seguito a testa bassa, in rapida successione, governo e sindaco di Roma, forse pensando così di contendergli lo spazio.Di parare il colpo, in una rincorsa sciagurata. Di fatto contribuendo ad alimentare quella bolla, a legittimarne implicitamente gli umori lividi. A sdoganare l’ostilità preconcetta.
Né ci si può stupire se, dietro le ruspe del comune, qualcuno penserà di fare da sé, di «dare una mano », sgomberando a colpi di spranga qualche baracca. O bruciandone qualcuna. O eliminando, a coltellate, qualche «abusivo» dell’umanità. Stiamo veramente giocando col fuoco. La possibilità di evocare mostri che poi non si sapranno controllare è spaventosamente reale. Io ho paura. Non lo nego. Vorrei che chi ha oggi il potere della parola e dell’amministrazione, ci riflettesse. Seriamente. Fuori dalla nevrosi mediatica e dall’urgenza di piacere. Pensando, per una volta, a un futuro che vada oltre il prossimo sondaggio.
Editoriale
Prima che sia troppo tardi
di Giovanni Sarubbi *
Lo hanno chiamato “il raid punitivo”. L’espressione è stata usata da tutti i mass media, telegiornali della Rai in testa. Tre rumeni picchiati a sangue, uno è grave e rischia la vita, non hanno lo stesso valore della donna uccisa qualche giorno fa a Roma. Il rumeno che presumibilmente l’ha uccisa per la stampa è un mostro assassino, quelli che hanno picchiato barbaramente i tre rumeni sarebbero invece “cittadini esasperati”: così si è espresso il conduttore del TG2 delle ore 20 di oggi 3 novembre.
Da oggi in poi tutto è possibile. Quando fatti del genere, quali l’aggressione indiscriminata contro un ben preciso gruppo etnico, vengono quasi giustificati dai mezzi di comunicazione di massa, vuol dire che il processo di fascistizzazione della società ha abbondantemente superato il livello di guardia.
E’ del tutto evidente, guardando le foto ed i filmati del luogo dove è avvenuta l’aggressione ai tre rumeni e leggendo i resoconti delle agenzie di stampa, che si è trattato di un raid squadristico ben organizzato. La zona del pestaggio era piena di manifesti dell’estrema destra neofascista e neonazista, in particolare di Forza Nuova. Del tutto evidenti gli ambienti da cui è partita l’aggressione che certo non è stata compiuta da “cittadini esasperati” ma da persone ben organizzate e preparate fisicamente e militarmente.
Ma non bisogna solo preoccuparsi della destra neofascista o neonazista. Quando questi fatti avvengono bisogna temere ancora di più il “fuori di testa” qualsiasi, quello che segue l’onda e che non ragiona affatto su ciò che fa e che si sente autorizzato a trasformarsi in “giustiziere della notte”, e a usare la violenza come più gli aggrada, così come gli viene mostrato da troppi film-spazzatura di cui è piena la nostra TV a tutte le ore. E gli effetti si vedono. Proprio poche ore fa un uomo, un tiratore scelto dell’esercito, si è asserragliato nella sua abitazione di Settecamini, fra Roma e Guidonia, e ha cominciato a fare fuoco all’impazzata, anche sulle ambulanze. Aveva armi e benzina. Scene troppe volte viste sia nei film che nelle cronache che giungono dagli USA. Se dovessimo usare la stessa logica degli squadristi che hanno aggredito i tre rumeni, da oggi in poi bisognerà cominciare a guardare con sospetto anche i militari italiani. Oltre a far sparire quasi subito la notizia del raid squadristico, nessuno dei mass-media ha dato particolare enfasi a ciò che ha detto la famiglia di Giovanna Reggiani, la donna uccisa a Tor di Quinto qualche giorno fa: “Fermate l’odio”, è stata la richiesta della sorella della vittima. Giovanni Gumiero, il marito di Giovanna Reggiani, ha detto al ministro della Difesa Arturo Parisi: "Sappiamo e dobbiamo distinguere le persone, un rom da un rom, un romeno da un romeno, un italiano da un altro italiano". Altrettanto poco spazio è stato dato alle parole di Maria Bonafede, la moderatrice della Tavola Valdese che durante i funerali ha detto che “Il dolore di oggi non può essere utilizzato per campagne di odio, discriminazione e intolleranze nei confronti degli immigrati, come è già accaduto".
Chi uccide non è portatore di alcuna cultura o di alcuna religione. Gli ubriachi italiani, come i violenti italiani, non sono migliori degli ubriachi o dei violenti di qualsiasi altro popolo o nazione.
Chi uccide nega qualsiasi cultura e qualsiasi religione e qualsiasi appartenenza perché uccidere è la negazione della propria umanità e di quella della vittima. E chi usa fatti violenti per addebitarli ad un’intera categoria di persone, in questo caso i rumeni, è esso stesso un violento, uno che odia tutta l’umanità e che ha la mente ottenebrata da ideologie razziste. Ideologie razziste che dividono gli esseri viventi in esseri superiori ed inferiori e che utilizzano la paura per dominare sulla società ed imporre le proprie idee ed i propri interessi.
La situazione è dunque molto grave. Occorre che i cittadini che hanno a cuore la pace e la convivenza pacifica fra le genti si mobilitino per contrastare decisamente il razzismo, perchè di razzismo si tratta, che si sta diffondendo come una metastasi: bisogna intervenire contro il razzismo in ogni luogo, spiegando con calma che la paura è cattiva consigliera e che quando si comincia con la xenofobia questa non risparmia nessuno: chi ha cominciato oggi a colpire i rumeni passerà poi a colpire altri gruppi etnici e minoranze anche italiane. Chi non ricorda le sparate della Lega Nord contro i meridionali? Devono così temere la xenofobia anche i napoletani, i siciliani, i calabresi e tutti quelli che vengono considerati dall’estrema destra come “esseri inferiori”. Diciamo basta a questa barbarie prima che sia troppo tardi.
Delinquenti o squadristi tolleranza zero
di EUGENIO SCALFARI *
IL FUNERALE di Giovanna Reggiani, selvaggiamente uccisa nella desolata landa di Tor di Quinto, è stato seguito da gran folla di persone dentro e fuori la chiesa di Cristo Re dove la messa celebrata con rito valdese è stata accompagnata dal cappellano militare con nobili parole di compianto e di pace. Parole che corrispondevano - così almeno è sembrato - ai sentimenti delle persone che si accalcavano nella chiesa e nell’ampio spazio adiacente di viale Mazzini. Se c’è una persona che va additata come esempio in questi drammatici frangenti che investono un’intera nazione questa è il marito della morta, un alto ufficiale della Marina militare che ha detto anche lui parole di dolore profondo, di rimpianto accorato e di pace.
Da qui bisogna (bisognerebbe) ripartire per affrontare con nuova energia e doverosa misura il tema che continuiamo a chiamare emigrazione ma che va invece definito in altro modo. Sto alle parole di Giuliano Amato; ha detto che siamo in presenza di un esodo perché riguarda non migliaia ma milioni di persone che si stanno spostando dai paesi della povertà e del degrado ai paesi del benessere suscitando, come sempre è avvenuto in casi di questo genere, paura, insicurezza, reazioni che oppongono illegalità ad illegalità, violenza a violenza. "C’è una tigre in gabbia che minaccia di uscire dalle sbarre. Bisogna a tutti i costi impedirlo" ha detto ancora il ministro dell’Interno nell’intervista di ieri al nostro giornale e preoccupazioni analoghe hanno espresso Prodi e Veltroni.
E’ esatto. Quello è il pericolo maggiore da scongiurare, specie dopo l’aggressione di un gruppo di squadristi incappucciati e armati di spranghe e coltelli contro quattro romeni a Tor Bella Monaca, la tigre in gabbia della xenofobia e della giustizia "fai da te". Allora la domanda è: da dove nasce quella xenofobia cieca? In che modo si può scongiurarla? Il decreto del governo sulle espulsioni è uno strumento adatto?
Non perderemo tempo in discussioni sociologiche delle quali sono pieni i giornali di questi giorni, né in descrizioni sulla vita dei baraccati, di quei rifugi di cartone (sì, di cartone) dove neppure un animale si adatterebbe a vivere.
Le cronache hanno ampiamente riferito, raccontato, fotografato. Vogliamo oggi fare il punto sui dati di fatto e di diritto e inquadrarli nel vero e proprio sisma che l’esodo di massa sta provocando e continuerà a provocare poiché una cosa è certa: non si arresterà, né dal Sud né dall’Est.
C’è povertà estrema in Africa, c’è degrado insopportabile nell’Europa dell’Est. Il principio dei vasi comunicanti vale anche nel caso in cui invece dei liquidi che si spostano alla ricerca della stessa pressione atmosferica ci sono persone, moltitudini di persone che sfuggono da luoghi devastati e invivibili inseguendo la speranza di vite migliori.
Quest’esodo è cominciato da almeno vent’anni ma ogni giorno che passa aumenta la sua intensità e la sua dimensione. Ormai è un fiume. Non illudetevi che si possa fermare: neppure se per arginarlo si usasse la mitraglia. Perciò questo è il problema, che non riguarda soltanto il nostro Paese ma l’Europa intera.
* * *
Anzitutto una prima constatazione: l’esodo dall’Africa verso le coste europee deve varcare il mare. Le barche in movimento sono avvistate per tempo e monitorate. Spesso si riesce a farle tornare indietro. Chi arriva a destinazione viene accolto, censito e rinviato nei paesi di partenza.
Purtroppo il "lago" mediterraneo è ormai costellato nei suoi fondali da relitti e cadaveri di annegati, ma neppure questa tragica prospettiva serve a fermare l’esodo. Lo limita, lo gradualizza. Apre la possibilità di negoziare con i paesi rivieraschi dell’altra sponda provvedimenti di sostegno e investimenti per contenerlo ai nastri di partenza.
Seconda constatazione: l’esodo dall’Est avviene in condizioni completamente diverse. A muoversi non sono extra - comunitari ma cittadini europei in provenienza da paesi ormai entrati a far parte dell’Unione. In particolare provenienti da Romania e Bulgaria.
A loro basta esibire il passaporto per varcare legalmente un confine che non esiste più. La libera circolazione è stata limitata da norme transitorie durate cinque anni, ma dal primo gennaio di quest’anno ogni limitazione è caduta.
Per di più non c’è nessun mare di mezzo. Nessun rischio fisico e drammatico da affrontare. Basta montare su un treno, su un autobus, su un qualsiasi mezzo di trasporto per arrivare alla destinazione prescelta. In Italia come in Germania, in Spagna o in Austria o in Francia o in Scandinavia.
Molti preferiscono l’Italia e la ragione c’è, sono loro stessi che ce la spiegano: da noi la giustizia è lenta, le pene sono ragionevolmente miti, "l’habeas corpus" è più tutelato che altrove, i delinquenti abituali tornano liberi pochi giorni dopo l’arresto in attesa che il processo sia celebrato, l’espulsione non è (non era) prevista, il ritorno è (era) consentito.
Questo stato di cose induce la delinquenza a scegliere il nostro paese come terra di elezione. Naturalmente la delinquenza abituale è soltanto una parte del fiume di emigranti, ma è una parte cospicua. La sua presenza e le sue azioni, la sua violenza cattiva e spesso gratuita determinano insicurezza e paura, la soglia che divide questi sentimenti dall’odio, dalla vendetta, dalla xenofobia è già stata varcata da molti. Ma se si continuerà così sarà varcata in massa e la tigre uscirà dalla gabbia per sbranare il suo prossimo. Così, piaccia o non piaccia, stanno le cose.
* * *
Il decreto emanato dal governo mira a combattere la delinquenza e affida a provvedimenti di espulsione con divieto di rientro i cittadini comunitari che violino la legalità. Si tratta di provvedimenti amministrativi autorizzati dalla magistratura e resi esecutivi dai prefetti sulla base delle motivazioni previste dalla legge.
Chi temeva espulsioni di massa è stato rassicurato, si procederà su segnalazioni delle questure e dei carabinieri effettuate in base alla pericolosità individuale. Nel frattempo a Roma, dove la presenza della delinquenza abituale si è concentrata più che altrove negli ultimi nove mesi, le forze dell’ordine hanno provveduto a distruggere gli alloggiamenti (è una parola impropria chiamarli così) abusivi su tutte le rive dell’Aniene e del Tevere.
Non è la prima volta che operazioni simili avvengono, non solo a Roma ma a Bologna, Milano, a Torino. Nella capitale in particolare, a partire dal 2001 e via via intensificandosi in proporzione alla crescente affluenza di immigrati, sono stati chiusi o sgombrati ventotto insediamenti abusivi e aperti dodici centri di accoglienza temporanea. Le persone accolte nei centri comunali attrezzati sono attualmente tredicimila. Gli sgomberi eseguiti in questi mesi hanno coinvolto poco meno di 6.000 persone, ma soltanto 800 di esse hanno accettato di essere accolte nei centri comunali, le altre hanno rifiutato e non possono esservi obbligate.
Le accuse di Berlusconi e di Fini sulle inadempienze del Comune di Roma servono solo ad alimentare una polemica più che mai dannosa; in tutta onestà il Comune ha fatto quanto poteva, ma soprattutto ha chiesto, da solo o insieme agli altri sindaci delle grandi città, che si provvedesse con urgenza a contenere il flusso e a combattere con strumenti appropriati la delinquenza abituale. Lo ha chiesto al governo in carica e cioè a quello di Prodi e al governo precedente che è stato in carica per cinque anni sostenuto da una maggioranza parlamentare a prova di bomba e all’opera dal 2001, cioè esattamente dal momento in cui l’esodo all’interno della comunità europea si è messo in movimento.
* * *
Non entreremo nella mediocre polemica di chi doveva fare e che cosa doveva fare. Nessuno ha le carte in regola, non questo governo, non il precedente, non l’Unione europea che ha emesso nel 2004 una direttiva - applicata anche in Italia - nettamente insufficiente.
La verità l’ha detta con lodevole onestà Giuliano Amato: "Nessuno di noi poteva prevedere che la slavina diventasse valanga, che il torrentello si trasformasse in un fiume di centinaia di migliaia e poi di milioni di persone, intere popolazioni in movimento all’interno stesso dell’Europa".
Questo è accaduto. A questo il decreto dell’altro giorno vuole porre un primo riparo. Necessario ma non sufficiente. Perché bisogna modificare la lentezza della magistratura, negoziare con i governi europei dei paesi dai quali parte l’esodo, negoziare con l’Unione europea affinché si dia carico d’un problema che riguarda il continente intero. E intanto occorre che vi sia qui da noi tolleranza zero verso la delinquenza di importazione e tolleranza zero verso le ronde squadriste che aggrediscono lo straniero solo perché straniero.
* * *
Sono stupefatto delle reazioni scomposte del direttore di "Liberazione" e di Rossana Rossanda sul "Manifesto" contro il decreto e contro il sindaco di Roma che l’ha chiesto con doverosa perentorietà. "Fa schifo, è un documento fascista" ha scritto Rossanda. E Sansonetti: "Con la destra fascista sono disposto a discutere, con Veltroni no". Queste non sono legittime e motivate manifestazioni di dissenso, ma insulti emotivi che derivano da una totale misconoscenza della situazione e dei pericoli gravi che essa comporta.
In paesi agitati da sentimenti diffusi di insicurezza e da traumi provenienti da episodi drammatici, soltanto interventi decisi e repressivi dei fenomeni delinquenziali possono trattenere entro limiti di decenza civile le paure della gente. Educazione e prevenzione restano necessarie, ma il momento repressivo non può essere e non deve essere eluso. Il decreto va in questa direzione. Non a caso provvedimenti di questo tipo erano richiesti da mesi e da anni dai sindaci delle grandi città e attuati nei limiti dei loro assai scarsi poteri, da Domenici a Firenze, da Moratti a Milano, da Cofferati a Bologna, da Chiamparino a Torino e poi a Genova a Padova a Bari a Napoli a Cagliari. E ovviamente a Roma.
Non mi trovo, per la prima volta, d’accordo con il Rodotà dell’articolo di ieri sul nostro giornale. Ha ragione di scrivere che il decreto, da solo, è insufficiente. E indica alcuni dei provvedimenti che possono servire a completarne l’efficacia. Ma a mio avviso ha torto a considerarlo un provvedimento emotivo da emendare nel senso dei diritti negati agli espulsi.
Temo, caro Stefano, che anche a te sfugga la pericolosità della situazione e la necessità non già di esibire la "faccia feroce", ma di recuperare l’autorità delle autorità pubbliche centrali e locali, cioè delle istituzioni di fronte a fenomeni di dimensioni continentali.
Vedremo alla prova come si comporteranno le forze politiche. Quelle di sinistra estrema e quelle dell’opposizione. Hanno esordito tutte e due male. L’opposizione ha addirittura aizzato lo squadrismo anche attraverso i titoli e i testi dei giornali berlusconiani.
Non si comportano così le persone che hanno a cuore gli interessi del paese, specie se rivestono incarichi pubblici rappresentativi. Hanno tempo e occasione per ravvedersi e ci auguriamo vivamente che lo facciano.
Immigrazione, Benedetto XVI:
"Garantire accoglienza e sicurezza"
ROMA - Di fronte alla presenza degli immigrati occorre assicurare "la sicurezza e l’accoglienza", garantendo "i diritti e i doveri che sono alla base di ogni vera convivenza e incontro tra i popoli". Benedetto XVI, parlando ai fedeli di Piazza San Pietro dopo la recita dell’Angelus, affronta il tema dell’immigrazione. Proprio nei giorni in cui, dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani da parte di un cittadino romeno, il tema è al primo posto dell’agenda politica e non solo.
E lo fa con parole che rifuggono la violenza e l’intolleranza ma che richiamano forte il dovere di accogliere chi ha bisogno e di tutelare la sicurezza dei cittadini. "Auspico - dice il Papa - che le relazioni tra popolazioni migranti e popolazioni locali avvengano nello spirito di quell’alta civiltà morale che è frutto dei valori spirituali e culturali di ogni popolo e Paese. E chi preposto alla sicurezza e all’accoglienza sappia far uso dei mezzi atti a garantire i diritti e i doveri che sono alla base di ogni vera convivenza e incontro tra i popoli".
* la Repubblica, 4 novembre 2007.