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Messaggio evangelico e tradimento strutturale della fiducia. In principio era il Logos ... non il "Logo"!!!

IL CIELO NON E’ VUOTO, MA NEMMENO E’ OCCUPATO DALL’IMPERATORE COSTANTINO E DAL SUO ESERCITO!!! Dopo la "Deus caritas est", la seconda enciclica: "Spe salvi". Una speranza cieca e zoppa, senza grazia ("charitas") e senza memoria, lanciata contro il "relativismo" dell’ONU - a cura di Federico La Sala

L’Onu risponde al Papa. La nostra etica? I diritti umani
lunedì 3 dicembre 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Il "cielo non è vuoto", ammonisce Benedetto XVI nella "Spe salvi (nella speranza siamo stati salvati)", seconda enciclica del pontificato, e ci sarà il giudizio di Dio, che non sarà un colpo di spugna: "la giustizia è l’argomento essenziale in favore della vita eterna", perché l’ingiustizia non può essere l’ultima parola. Settantasei pagine nella versione italiana, firmata e pubblicata il 30 novembre, nella festa di sant’Andrea, l’enciclica è frutto della riflessione personalissima (...)

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> IL CIELO NON E’ VUOTO MA NEMMENO OCCUPATO DALL’IMPERATORE COSTANTINO E DAL SUO ESERCITO. Dopo la "Deus caritas est", l’enciclica "Spe salvi". --- «Nell’eternità una vita di relazioni autentiche» (di Pierangelo Sequeri).

sabato 1 dicembre 2007

LA SECONDA ENCICLICA

Il teologo: morte, giudizio, inferno e paradiso, i novissimi riletti alla luce dell’enciclica Così agisce la giustizia di Dio

È il futuro a distinguere i cristiani

«Nell’eternità una vita di relazioni autentiche»

DI MATTEO LIUT (Avvenire, 01.12.2007)

L a vita eterna? Una vera e propria «esistenza in relazio­ne ». Il giudizio di Dio? Un riscatto per le vittime e una luce sulla verità di noi stessi. Così, monsignor Pieran­gelo Sequeri, docente alla Facoltà teologica di Milano, rileg­ge il tema dei «novissimi» alla luce della seconda enciclica di Benedetto XVI.

Sul rapporto tra fede e speranza, il Papa cita un passaggio della lettera agli Ebrei, «La fede è la sostanza delle cose che si sperano», cosa significa?

Qui il Papa ricorda da un lato la posizione di coloro che ve­devano in questo passaggio l’affermazione di una fede che poggia sul sicuro, dall’altro lato la posizione di coloro (e qui cita Lutero) che vi avevano visto un concetto di tipo esi­stenziale, teso al guadagno di una certezza tutta soggettiva. Alla prima interpretazione, ricorda il Papa, manca l’identi­ficazione del fondamento, che è il Signore: la fede non è con­cetto astratto ma un’esperienza di comunicazione con il suo fondamento. Della seconda interpretazione il Papa pur man­tenendo come valido il richiamo alla dimensione esistenziale, ricorda che la fede non è solo «convinzione umana», ma e­sperienza che apre al dialogo con Dio. Un dialogo che è già esperienza di vita eterna.

Ma cos’è la «vita eterna»?

Ratzinger propone una bella critica all’idea di «eternità» che si dimentica la «vita». La stabilità «marmorea» di tale con­cetto va invece conciliata con un’esperienza profonda di «re­lazione »: è nella relazione con Dio che fondiamo la nostra certezza nella nostra destinazio­ne ultima. Non basta quindi en­fatizzare l’eternità, è necessario ricordare la dimensione vitale della relazione con l’assoluto. Il desiderio di vita eterna, quindi, non è quello di una «sopravvi­venza infinita», ma di una vera e propria «vita in relazione», che continui oltre la morte.

Morte, giudizio, inferno e para­diso: ai novissimi fa riferimento l’ultima parte dell’enciclica. Co­me vengono caratterizzati?

Come dicevo, di fondo c’è il con­cetto di «vita eterna» non intesa quantitativamente come «dura­ta infinita». Essa è una «vita in re­lazione », una vita felice perché «piena di relazioni», secondo un concetto collettivo di felicità e se­condo anche quanto descritto nel Nuovo Testamento. Questa è la chiave per comprendere il re­sto: in questo discorso si inseri­scono i concetti di libertà e re­sponsabilità, che sono le dimen­sioni destinate poi al vaglio del «Giudizio», che non sarà una re­sa dei conti ma un riconosci­mento del valore «accumulato» in un’ottica di relazione, di accudimento reciproco, di investimento della propria libertà. Questi sono i contenuti che Dio è capace di raccogliere e, at­traverso il giudizio, di liberare da tutto il resto delle «scorie».

Perché l’insistenza sul concetto di «collettività»?

Forse perché oggi spesso la trascendenza è ridotta a dimen­sione individuale, anche nella predicazione. Eppure, ci dice il Papa, nel destino di trascendenza individuale fa parte an­che la trama di rapporti nella quale l’individualità è inserita e che non si esaurisce nella «città terrena».

Quale la strada indicata dal Papa?

Quella del rilancio, anche culturale da parte del cristianesi­mo, della destinazione trascendente dell’essere umano, che non è riducibile al biologico, al politico, al sociale.

Perché il Papa oppone l’idea di progresso al giudizio di Dio?

È uno scarto qualitativo: l’idea di progresso è un’idea che tende all’eccellenza e produce «vittime», il giudizio di Dio, invece, riapre una possibilità di «successo» laddove appaio­no i fallimenti. Nel giudizio, introducendo altri criteri di va­lutazione, Dio recupera le contraddizioni che il progresso tende a escludere. Per questo il cristianesimo «scommette» anche per le vittime della nostra «trionfale avanzata» nella storia. Qui sta la giustizia.

Un «al di là» fatto di relazioni, quindi. Perché, allora il Papa dice che con la morte la scelta di vita diventa definitiva?

Tra creazione e destinazione dell’uomo, origine e finalità, la vita terrena può essere vista come un’iniziazione nella qua­le esprimiamo il nostro modo di accettare o meno proprio la destinazione dell’esistenza: sulla base di questa scelta fon­damentale, poi, verremo giudicati.

Il Papa accosta l’inferno non a un luogo ma a degli indivi­dui. Perché?

Perché «inferno» è la condizione di chi, avendo scelto solo se stessi, sono «inchiodati» alla compagnia di se stessi. Una condizione fondata sul rifiuto della relazione.


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