LA SECONDA ENCICLICA
Il teologo: morte, giudizio, inferno e paradiso, i novissimi riletti alla luce dell’enciclica Così agisce la giustizia di Dio
È il futuro a distinguere i cristiani
«Nell’eternità una vita di relazioni autentiche»
DI MATTEO LIUT (Avvenire, 01.12.2007)
L a vita eterna? Una vera e propria «esistenza in relazione ». Il giudizio di Dio? Un riscatto per le vittime e una luce sulla verità di noi stessi. Così, monsignor Pierangelo Sequeri, docente alla Facoltà teologica di Milano, rilegge il tema dei «novissimi» alla luce della seconda enciclica di Benedetto XVI.
Sul rapporto tra fede e speranza, il Papa cita un passaggio della lettera agli Ebrei, «La fede è la sostanza delle cose che si sperano», cosa significa?
Qui il Papa ricorda da un lato la posizione di coloro che vedevano in questo passaggio l’affermazione di una fede che poggia sul sicuro, dall’altro lato la posizione di coloro (e qui cita Lutero) che vi avevano visto un concetto di tipo esistenziale, teso al guadagno di una certezza tutta soggettiva. Alla prima interpretazione, ricorda il Papa, manca l’identificazione del fondamento, che è il Signore: la fede non è concetto astratto ma un’esperienza di comunicazione con il suo fondamento. Della seconda interpretazione il Papa pur mantenendo come valido il richiamo alla dimensione esistenziale, ricorda che la fede non è solo «convinzione umana», ma esperienza che apre al dialogo con Dio. Un dialogo che è già esperienza di vita eterna.
Ma cos’è la «vita eterna»?
Ratzinger propone una bella critica all’idea di «eternità» che si dimentica la «vita». La stabilità «marmorea» di tale concetto va invece conciliata con un’esperienza profonda di «relazione »: è nella relazione con Dio che fondiamo la nostra certezza nella nostra destinazione ultima. Non basta quindi enfatizzare l’eternità, è necessario ricordare la dimensione vitale della relazione con l’assoluto. Il desiderio di vita eterna, quindi, non è quello di una «sopravvivenza infinita», ma di una vera e propria «vita in relazione», che continui oltre la morte.
Morte, giudizio, inferno e paradiso: ai novissimi fa riferimento l’ultima parte dell’enciclica. Come vengono caratterizzati?
Come dicevo, di fondo c’è il concetto di «vita eterna» non intesa quantitativamente come «durata infinita». Essa è una «vita in relazione », una vita felice perché «piena di relazioni», secondo un concetto collettivo di felicità e secondo anche quanto descritto nel Nuovo Testamento. Questa è la chiave per comprendere il resto: in questo discorso si inseriscono i concetti di libertà e responsabilità, che sono le dimensioni destinate poi al vaglio del «Giudizio», che non sarà una resa dei conti ma un riconoscimento del valore «accumulato» in un’ottica di relazione, di accudimento reciproco, di investimento della propria libertà. Questi sono i contenuti che Dio è capace di raccogliere e, attraverso il giudizio, di liberare da tutto il resto delle «scorie».
Perché l’insistenza sul concetto di «collettività»?
Forse perché oggi spesso la trascendenza è ridotta a dimensione individuale, anche nella predicazione. Eppure, ci dice il Papa, nel destino di trascendenza individuale fa parte anche la trama di rapporti nella quale l’individualità è inserita e che non si esaurisce nella «città terrena».
Quale la strada indicata dal Papa?
Quella del rilancio, anche culturale da parte del cristianesimo, della destinazione trascendente dell’essere umano, che non è riducibile al biologico, al politico, al sociale.
Perché il Papa oppone l’idea di progresso al giudizio di Dio?
È uno scarto qualitativo: l’idea di progresso è un’idea che tende all’eccellenza e produce «vittime», il giudizio di Dio, invece, riapre una possibilità di «successo» laddove appaiono i fallimenti. Nel giudizio, introducendo altri criteri di valutazione, Dio recupera le contraddizioni che il progresso tende a escludere. Per questo il cristianesimo «scommette» anche per le vittime della nostra «trionfale avanzata» nella storia. Qui sta la giustizia.
Un «al di là» fatto di relazioni, quindi. Perché, allora il Papa dice che con la morte la scelta di vita diventa definitiva?
Tra creazione e destinazione dell’uomo, origine e finalità, la vita terrena può essere vista come un’iniziazione nella quale esprimiamo il nostro modo di accettare o meno proprio la destinazione dell’esistenza: sulla base di questa scelta fondamentale, poi, verremo giudicati.
Il Papa accosta l’inferno non a un luogo ma a degli individui. Perché?
Perché «inferno» è la condizione di chi, avendo scelto solo se stessi, sono «inchiodati» alla compagnia di se stessi. Una condizione fondata sul rifiuto della relazione.