LA POLEMICA
Cosa ne è delle donne ai tempi del Cavaliere
di MICHELA MARZANO *
CENE, balli, barzellette, "ragazze-immagine" in abiti neri e trucco leggero, bellissime escort i cui volti si sovrappongono fino a sfumare l’uno nell’altro... No, non si tratta del copione di un film di serie B, ma di un rituale che, in questi ultimi anni, si è banalizzato in Italia, ripetendosi in modo ossessivo nel cuore stesso del potere, a Palazzo Grazioli come a Villa Certosa, eco di un mondo in cui le donne non sono più che delle controfigure sbiadite.
"Casting", "fashion", "book": le donne, ormai, nell’Italia di Berlusconi, non sembrano più contare per quello che fanno o sanno fare, per le loro competenze professionali, per la loro preparazione o per la loro storia (dolorosa, a volte; difficile, sempre), ma per il ruolo che giocano, per come appaiono, per ciò che non esprimono. Le donne sono sempre più corpi e volti ritoccati per sottomettersi tutti ad un’unica ingiunzione: sii bella e seducimi! "Io sono una bambola" afferma con fierezza una show girl alla televisione, credendo così di essere irresistibile. "Le donne belle vanno sempre con gli uomini ricchi e potenti", sembra confermare Vittorio Sgarbi in una recente intervista telefonica tirando fuori la carta ormai usata e abusata dell’apologia dell’italiano "scopatore". Ma cosa dicono questi corpi sottomessi (alle diete, alla chirurgia plastica, allo sport, allo sguardo dell’uomo), il cui volto rifatto ha ormai perso ogni segno di singolarità e di vulnerabilità? Che tipo di relazione con l’altro possono stabilire? Si può ancora parlare di relazione e di desiderio quando l’alterità (l’irriducibile alterità dell’altro, come direbbe Levinas) scompare sotto la maschera di un oggetto di piacere e di pulsione intercambiabile? Quale donna si rivolgerebbe oggi al truccatore che vuole nasconderle le occhiaie come fece Anna Magnani, che "ci aveva messo degli anni per farsele e non voleva nasconderle"?
"Ad un volto", scriveva Deleuze, "possiamo porre due generi di domande, a seconda delle circostanze: a cosa pensi? Oppure: cosa ti succede, che cos’hai, che cosa senti o che cosa provi?". È attraverso il viso che ognuno di noi può esprimere la propria singolarità e la propria specificità: un viso non è mai "un" viso in generale, ma sempre "il" viso di qualcuno che porta su di sé i segni del tempo che passa, delle emozioni vissute, dei dolori, delle gioie. Cosa accade allora quando "il" viso diventa "un" viso, uno qualsiasi tra i tanti, conforme alle norme in vigore, ma inespressivo: un "volto angelico" di una ragazza, il cui nome può essere Noemi, ma anche Roberta, Barbara, Patrizia, Lucia? Perché in fondo poco importano nome e viso di queste ragazze. Si tratta quasi sempre di giovani donne sorridenti e sognanti. E quando non sono più tanto giovani, tutte continuano a avere le labbra formose, il naso rifatto, le rughe cancellate, l’abito nero, il trucco leggero... per continuare a occupare la scena di una vetrina luccicante, per non smettere mai di sedurre i maschi, per incarnare l’immagine della donna perfetta che continua a guardarsi nello specchio deformante del piacere virile.
Perché allora così poche persone insorgono contro questa mascherata tutta italiana che da anni cancella "il" viso delle donne, per ridurle al ruolo subalterno e umiliante della semplice comparsa teatrale, come se, per continuare a esistere, le donne fossero ormai costrette a interpretare sempre lo stesso personaggio? Perché tante donne credono che il solo modo per emergere dalla massa informe dell’anonimato sia quello di ridursi a oggetti di pulsioni, contemplate per il corpo-feticcio che incarnano, e ridicolizzate - senza per questo scomporsi - per la loro incompetenza professionale davanti alla telecamera?
Non si tratta di criticare le scelte personali di alcune donne. In fondo, ogni persona è libera di fare quello che vuole della propria vita. Perché non diventare una velina? La questione, qui, riguarda la libertà. Quale libertà resta oggi alle donne in un paese in cui il potere in carica propone loro un modello unico di riuscita e di comportamento? Quale libertà resta quando si fa loro credere che il desiderio non sia altro che pulsione? Il desiderio, che è il sale della vita, e che spinge ognuno di noi ad andare verso l’altro, non può ridursi alla voglia frenetica di "consumare" corpi seducenti e impeccabili; il desiderio emerge e si sviluppa solo quando l’altro, l’oggetto del nostro desiderio, resta giustamente "altro": colui o colei che è ciò che io non sono, che ha ciò che io non ho e che, nonostante tutto, al di là della seduzione e dei rapporti sessuali, rimane irraggiungibile. A differenza di un pezzo di pane o di un bicchiere d’acqua che si consumano quando si ha fame o sete, la donna non è un semplice oggetto che può essere consumato a proprio piacimento. E non per ragioni morali (la "moralina", direbbe Nietzsche). Ma perché, molto più semplicemente, in ogni relazione umana c’è un "resto", qualcosa dell’altro che non si può distruggere perché l’altra persona sfugge sempre alla "presa" e, in quanto persona, resiste alla volontà dell’altro di assimilarla a sé. È in questo "resto" che risiede la sua specificità e la sua umanità. Un volto che dice "no" e che si oppone all’onnipotenza del potere, della ricchezza, della violenza. Solo nei film pornografici il volto scompare e non esprime più nulla, producendo un sistema nel quale gli uomini e le donne non sono altro che due polarità complementari: l’attività e la passività, il potere e la disponibilità. Tutto si riduce a ripetizione, accumulazione e moltiplicazione: la ripetizione ossessiva degli stessi gesti; l’accumulazione delle donne come trofei di caccia; la moltiplicazione delle conquiste... Fino a che non emerge un mondo in cui, guardando o essendo guardati, tutti restano intrappolati nella ripetizione di un atto che simula il sesso senza più nessun riferimento all’incontro sessuale, come mostra magistralmente Kubrick nella scena dell’orgia del suo ultimo film, Eyes Wide Shut. Un mondo che, in fondo, altro non è che il vecchio sistema patriarcale in cui gli uomini amano delle donne che non desiderano e desiderano delle donne che non amano, come diceva Freud, e in cui le donne sono costrette a scegliere a quale gruppo appartenere: le "madonne" o le "puttane".
Con il 1968 e la rivoluzione sessuale degli anni Settanta, questo sistema era stato rimesso in discussione: la libertà per le donne di disporre finalmente del proprio corpo aveva come finalità principale il raggiungimento di un’uguaglianza a livello di diritti che doveva permettere a tutti di diventare soggetti della propria vita. Uomini e donne uguali. Uomini e donne capaci di costruire la propria vita, di lottare per affermarsi, di mostrare il proprio valore e le proprie competenze. Che cosa resta, nell’Italia di oggi, di questa rivoluzione? Che messaggio dà alle adolescenti di oggi un paese il cui presidente del consiglio è fiero del proprio machismo? Un paese in cui un personaggio pubblico celebre può dichiarare senza vergogna che "chi scopa bene, governa bene"? Guardando quello che accade negli altri paesi europei, l’Italia "liberista e moderna" sfigura, presentandosi come l’emblema stesso del ritorno all’atavico machismo dei paesi mediterranei. È questo che stupisce e scoraggia quando ci si rende conto che l’unico modello femminile valorizzato oggi in Italia è quello della bambola impeccabile la cui sola preoccupazione è l’immagine del proprio corpo e la seduzione maschile. Non perché non ci si debba occupare del proprio corpo, ma perché quando il corpo non è altro che un oggetto di consumo, la donna perde la possibilità di esprimersi indipendentemente dallo sguardo degli uomini.
Facciamo, allora, in modo che il ventunesimo secolo, col pretesto di essere "alla moda", non sia la tomba di tutte le conquiste femminili del secolo scorso.
* la Repubblica, 30 luglio 2009
L’irrosolto lascito della rivoluzione sessuale
di Francesco D’AGOSTINO (Avvenire, 1 Agosto 2009)
Condivido tutte le preoccupazioni di Michela Marzano sulla sorte delle donne «ai tempi del Cavaliere» (la Repubblica del 30 luglio): nel contesto del sistema mediatico e culturale oggi dominante, esse si sentono sempre più umiliate, vedendo il loro corpo ridotto a oggetto di consumo e avvertendo la crescente impossibilità di "esprimersi" indipendentemente dallo sguardo degli uomini.
Il dissenso dalla Marzano comincia subito, però, quando essa individua nel 1968 e soprattutto nella rivoluzione sessuale degli anni Settanta un momento di svolta, che avrebbe consentito alle donne di «disporre finalmente del proprio corpo» e a tutti (uomini e donne!) di lottare per costruire secondo libertà la propria vita.
Ancora una volta il 1968 e gli anni Settanta vengono indebitamente mitizzati. Nessuno vuole negare il rilievo sociologico di quegli anni, ma continuare ad attribuire loro il merito di aver (per la prima volta!) messo in discussione il «vecchio sistema patriarcale» che avrebbe governato per millenni il rapporto tra i sessi è profondamente mistificante. Riconosciamo almeno che è dall’avvento del cristianesimo che uomini e donne sono considerati assolutamente pari in dignità e in diritti (nel matrimonio cristiano non c’è differenza tra il rilievo conferito al consenso coniugale dello sposo rispetto a quello della sposa) e che tutte le battaglie per attualizzare questo principio epocale (evangelico nel suo fondamento, ma laicissimo nella sua sostanza) hanno avuto successo solo quando pensate, lette, attivate all’interno della tradizione cristiana e non contro di essa. L’errore del 1968 e degli anni Settanta fu appunto quello di coniugare la "liberazione" della donna a diverse varianti del marxismo e comunque a un materialismo programmatico; e se oggi ci interroghiamo, come giustamente fa la Marzano, su cosa resti di quella "rivoluzione" (per concludere che ne resta ben poco, anzi pochissimo) la ragione consiste probabilmente proprio nella sua velleitarietà antireligiosa.
Posso provare quanto ho appena detto? Ma la prova migliore ce la dà, senza rendersene conto, la stessa Marzano, nel corso delle sue stesse riflessioni, quando mette le mani avanti per prevenire possibili e imbarazzanti critiche dei nostalgici del ’68. «Non si tratta di criticare le scelte personali di alcune donne... - essa scrive - in fondo ogni persona è libera di fare quello che vuole della propria vita». Sarà vero per l’ideologia sessantottina, ma non è vero, non è così, sul piano etico e culturale, che è quello su cui intelligentemente si muove la Marzano (sul piano giuridico, è ovvio che, finché non si danneggiano gli altri, ogni persona è libera di fare ciò che vuole della propria vita: ma qui non stiamo utilizzando le fredde categorie del diritto, ma le calde, caldissime categorie della morale).
Non ci sarà mai liberazione per le donne (e, simmetricamente, per gli uomini) finché si continuerà a pensare che la vita individuale sia moralmente insindacabile, perché insindacabile sarebbe la stessa libertà. La libertà è invece sindacabile, anzi sindacabilissima, quando si allontana dal bene. La libertà per le donne (come per gli uomini) consiste in primo luogo nell’offrirsi allo sguardo degli altri come «persone» e non come «corpi», come persone chiamate a scegliere se svolgere «funzioni» umanizzanti (familiari e sociali), o disumanizzanti (come quella delle veline o delle escort).
Il problema è tutto qui: la rivoluzione sessuale degli anni Settanta, scuotendo alle radici le società occidentali e spezzando il vincolo antropologico essenziale che unisce sessualità e persona, non ha risolto i problemi che intendeva risolvere (e questo spiega le giustificate angosce della Marzano) ed ha anzi creato problemi nuovi, di cui ancora si fatica a prendere coscienza. Questo è il problema.
Francesco D’Agostino