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27 GENNAIO 1945. GIORNO DELLA MEMORIA...

SHOAH. MILANO: "BINARIO 21". PER NON DIMENTICARE. Cortometraggio del 2004, con l’interpretazione-testimonianza di Liliana Segre .... e alcune pagine dal libro di Bruno Segre.

domenica 27 gennaio 2008 di Maria Paola Falchinelli
Il Giorno della Memoria sul web
Il 28 gennaio, a partire dalle ore 10:30, il nostro sito * trasmetterà in diretta la testimonianza di Liliana Segre e il concerto degli allievi del Conservatorio ....
Binario 21
Il cortometraggio è stato patrocinato dalla Task Force for International Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research e dalla Regione Lombardia (Assessorato alle Culture Identità e Autonomie).
Produzione: Andrea Jarach - Le Isole del Tesoro indirizzo email (...)

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> SHOAH. MILANO: "BINARIO 21". PER NON DIMENTICARE. -- Missione testimone: la numero 75190 è senatrice a vita. Il Magistero di Liliana.

sabato 20 gennaio 2018

Il Magistero di Liliana

      • Liliana Segre: «Meglio altre cento volte vittima che una sola volta carnefice»

      • Liliana Segre con i ragazzi durante la presentazione della Giornata della Memoria a Milano il 15 gennaio scorso

di Moni Ovadia (il manifesto, 20.01.2018)

Liliana Segre, deportata ad Auschwitz a soli tredici anni e mezzo e sopravvissuta all’inferno del famigerato lager nazista da cui uscì a 15, è stata una dei grandi testimoni della Shoà: il 19 gennaio 2018 il Presidente Sergio Mattarella, l’ha nominata Senatrice della Repubblica a vita.

Conosco bene Liliana, la considero un’amica e penso che anche lei mi consideri tale. Ho conosciuto anche l’amore della sua vita intera, diventato suo marito, Alfredo Belli Paci, si incontrarono giovanissimi e si innamorarono per sempre. Belli Paci fu un Ufficiale dell’Esercito del nostro paese, uno di quei soldati che salvarono l’onore dell’Italia rifiutando di aderire alla barbarie nazifascista di Salò. Era un bell’uomo, sopra il metro e ottanta, che ti toccava profondamente per il garbo e la grazia con cui si esprimeva.

Quando uscì dall’internamento pesava 32 chili ma quando parlava di Liliana e del suo calvario, si schermiva per sminuire le proprie sofferenze rispetto a quelle patite dalla moglie.

Liliana è una donna straordinaria, forte, schietta, coraggiosa.

Mi è capitato alcune volte di accompagnarla nel suo magistero di rendere testimonianza nelle scuole, in particolare in occasione delle Giornate della Memoria.

In queste circostanze - l’hanno ascoltata fino a settemila studenti per volta - Liliana racconta la sua storia con un eloquio nitido, fermo e inciso, la sua terrificante esperienza e lo sforzo di sostenere la grande emozione che ho percepito - perché seduto accanto a lei -, non ha intaccato mai il cammino di una parola che doveva toccare i cuori ma anche le menti.

Liliana dichiara sempre il suo obiettivo, minimale ma vitale, far sorgere da quella moltitudine di giovani almeno tre «candele della Memoria».

Per candele della Memoria intende luci dell’anima e della mente che raccolgano da lei il testimone per dare presente e futuro al dovere di ricordare e assumersi l’impegno etico di suscitare altre «candele» per le generazioni future, di generazione in generazione.

Il culmine del suo racconto, è la parte che riguarda il primo momento della liberazione. Approssimandosi le forze dell’Armata Rossa al lager di Auschwitz, i carnefici dettero avvio alle marce della morte. Facevano camminare gli internati ancora in grado di farlo di lager in lager, con l’intento di sfinirli e di farli morire durante le marce forzate.

Ma a un certo punto si udirono crepitare le mitragliatrici sovietiche a poche centinaia di metri, e i super uomini nazisti, presi dal panico, si misero in mutande e gettarono divise e armi lontano da sé. Il più terrorizzato, racconta Liliana, fu lo spietato ufficiale delle SS che dirigeva l’ultimo campo; aveva così paura, il superuomo, che lasciò cadere la sua pistola.

Liliana la raccolse, avrebbe potuto ammazzarlo come un cane, aveva visto mille volte sparare a bruciapelo alla testa di un internato, ma dopo qualche istante la gettò pensando: «Meglio altre cento volte vittima che una sola volta carnefice. Da quel momento sono stata libera».

Ho visto sui giovanissimi volti scendere lacrime copiose in silenzio.

Molto si potrebbe dire su questa figura di donna eccezionale, ma oggi è meglio soffermarsi almeno su un significato reale e simbolico della presenza a vita di Liliana Segre nel Senato, l’impegno dell’intero parlamento e delle istituzioni, a espungere da ogni aspetto della vita pubblica ogni cellula di fascismo e di nazismo in tutte le sue forme, nostalgiche, vecchie, nuove, nuovissime.

Non ci sono fascismi diversi, ce n’è uno solo ed è peste nera.


Missione testimone: la numero 75190 è senatrice a vita

Ieri la telefonata del presidente Mattarella

“La mia pelle racconta l’orrore di Auschwitz”

di Paolo Colonnello (La Stampa, 20.01.2018)

Liliana Segre, 87 anni, neo senatrice a vita della Repubblica, è una signora d’altri tempi: gentile e apparentemente fragile. In realtà è una delle donne più forti e lucide che sia mai capitato di conoscere. Del resto non si sopravvive a una deportazione in un carro bestiame, a un campo di concentramento come Auschwitz, allo sterminio dei propri genitori, degli amici, all’indifferenza del ritorno, alle cicatrici indelebili della persecuzione, se non si ha nell’anima un filo d’acciaio. Che poi è quello che hanno tutti coloro che scelgono di essere testimoni del proprio tempo. Così Liliana si batte da anni per la «memoria», perché nessuno dimentichi l’orrore delle leggi razziali, degli stermini nazisti, dello zelo fascista.

Certo non se l’aspettava la telefonata del Presidente, ieri mattina: «Un fulmine a ciel sereno. Ero già stata contattata per andare a Roma il 25 e così celebrare al Quirinale la giornata della Memoria. Poi ho risposto al telefono: “Buongiorno, sono Mattarella”. Gli ho detto: “Aspetti che prima mi siedo...”. Non sapevo neanche che potesse nominare 5 senatori a vita...». La casa di Porta Magenta piano piano si è riempita di gente. Ma Liliana non si è fatta travolgere.

Che memoria può esistere nel mondo dell’effimero, delle verità che scompaiono per lasciare il posto a chi si fa strada tra la menzogna? «Questo è un mondo pronto a negare il passato per mille motivi, perché fa comodo, in molti casi. Certo, non sono molto ottimista, ma è una battaglia che non si può smettere di combattere. È la mia missione: me la sono data 30 anni fa, dopo aver trascorso 45 anni in silenzio, dal ritorno dal campo di sterminio».

E qui la voce si fa sottile. Perché a 13 anni, dopo essere respinta dalla Svizzera, portata con suo padre, a San Vittore, nella stessa strada in cui era nata; infine al famigerato «binario 21» della Centrale, da cui partivano i treni della morte e dove ora c’è il Memoriale della Shoah, la memoria di Liliana è stata incisa nella carne, come il numero di Auschwitz sul suo braccio sinistro: «Per la vergogna di chi lo ha fatto: numero 75190. Non lo toglierei per nessuna ragione al mondo. Perché in fondo io sono quel numero».

Un numero che per anni ha destato curiosità nella gente ma che Liliana non aveva mai la forza o la voglia di spiegare. «Perché dopo essere tornata da quel tormento, mi accorsi che ero da sola: eravamo partiti in 605 e tornati in 22, era l’agosto del ’45, compivo 15 anni. Mi aggiravo in una Milano di indifferenti. Incontravo le mie ex compagne di classe che si stupivano, mi chiedevano: “Ma come mai? A un certo punto sei sparita, non ti abbiamo vista più...”». Come se fosse partita per una malattia che poi in fondo di questo si tratta: una malattia dell’umanità. «Poi a un certo punto ho deciso che dovevo ricordare che ero matura per mettermi davanti ai ragazzi senza parlare mai di odio o di vendetta per raccontare una storia italiana».

Eppure, c’è ancora qualcuno che parla di “razza bianca”, che effetto le fa? «A me la parola razza mette sempre ansia. Voglio credere che sia stato “un lapsus” perché non posso credere altrimenti». In Europa c’è un ritorno delle destre estreme, la preoccupa? «Sì, primo perché ho sempre creduto nei ricorsi storici e poi perché nella mancanza totale di valori di oggi il rischio è ritrovarsi un Hitler al potere senza rendersene conto. Io faccio la mia parte, che ognuno faccia la sua».


Leggi razziali e lager: la marcia di Liliana fino a Palazzo Madama

Esempio vivente - Mattarella nomina la Segre, sopravvissuta ad Auschwitz e testimone dell’antisemitismo, senatrice a vita

di Leonardo Coen (Il Fatto 20.01.2018)

Sono passate da poco le undici del mattino. Liliana Segre è ancora a casa, si sta preparando per le cerimonie del primo pomeriggio - la posa di alcune “pietre d’inciampo” per ricordare le vittime del nazifascismo - quando squilla il telefono di casa. È la “batteria” del Quirinale: “Il presidente della Repubblica desidera parlarle”.

Liliana ignora per quale motivo. Forse vogliono coinvolgerla in qualche manifestazione ufficiale legata alla Giornata della Memoria, sabato 27 gennaio. Si sbaglia. Mattarella le annuncia che ha deciso di nominarla senatrice a vita. Alla Segre manca il respiro, per l’emozione. Lo ringrazia e assicura quale sarà il suo impegno: “Porterò in Senato la voce degli umiliati dalla Patria che amavano, cercherò di perpetuare la memoria, contrastare il razzismo, costruire un mondo di fratellanza, comprensione e rispetto, in linea coi valori della nostra Costituzione finché avrò forza a raccontare ai giovani l’orrore della Shoah, la follia del razzismo, la barbarie della discriminazione e della predicazione dell’odio”.

Mattarella si convince che la sua è stata una scelta coraggiosa, opportuna e anche politicamente significativa: la nomina della Segre, una personalità di altissimo profilo, in fondo può essere letta anche come una ferma presa di posizione contro chi voleva stravolgere Senato e Costituzione. Per Roberto Jarach, vicepresidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e della Fondazione Memoriale della Shoah, “vedremo finalmente sedute in Parlamento l’etica, la morale, la Storia”.

La notizia “mi ha colto completamente di sorpresa”, dirà subito al figlio Luciano Belli Paci. Vuol subito far sapere che la sua nomina non è stata sponsorizzata dai partiti, “non ho mai fatto politica attiva... sono una persona comune, una nonna con una vita ancora piena di interessi e impegni”. Ma è consapevole che lei è vista come una sorta di baluardo contro le pericolose derive razziste, xenofobe e antisemite che crescono nel Paese. Lei è una sopravvissuta dell’Olocausto - non suo padre Alberto, col quale venne deportata ad Auschwitz:
-  “Certamente il presidente ha voluto onorare, attraverso la mia persona, la memoria di tanti altri in questo anno 2018 in cui ricorre l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali. Sento su di me l’enorme compito, la grave responsabilità di tentare almeno, pur con tutti i miei limiti, di portare nel Senato le voci ormai lontane che rischiano di perdersi nell’oblio. Le voci di quelle migliaia di italiani, appartenenti alla piccola minoranza ebraica, che nel 1938 subirono l’umiliazione di essere degradati... che furono espulsi dalle scuole, dalle professioni, dalla società dei cittadini di serie A”. Non ha mai dimenticato. Liliana, il giorno che le impedirono di entrare a scuola. Aveva otto anni.

E la colpa d’essere nata ebrea. La discriminazione tolse voce e identità: gli ebrei vennero perseguitati, braccati, deportati per la “soluzione finale”. La Segre vuole che non ci si dimentichi mai di loro, di chi non ha più tomba, di chi è svanito nel vento: “Salvare quelle storie, coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza. E la può usare”. Certo, “non dimenticando e non perdonando - l’ho sempre fatto - ma senza odio e spirito di vendetta: sono una donna di pace e una donna libera: e la prima libertà è quella dall’odio”.

Oggi, per esempio, l’attendono gli studenti del liceo Carducci. A loro, come da lustri e lustri, dirà che è nata a Milano il 10 settembre 1930, che i suoi genitori si chiamavano Alberto Segre e Lucia Foligno, che abitava in corso Magenta al numero 55. Che il 7 dicembre del 1943, insieme al padre a due cugini, tentò invano di riparare in Svizzera, aiutati da qualche contrabbandiere. Ma la “barca era piena”, dissero impietosi gli svizzeri che la ricacciarono indietro. L’arrestarono il giorno dopo a Selvetta di Viggiù, poi la trasferirono al carcere di Como e da qui a San Vittore. Ci rimase 40 giorni. Il 30 gennaio del 1944 la misero col padre dentro un vagone piombato. Il convoglio partì dal famigerato Binario 21. Oggi, quel luogo è diventato un Memoriale. L’anno scorso l’hanno visitato 26 mila studenti.


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