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RICERCA SCIENTIFICA: "SERENDIPITY" E CREATIVITA’. In memoria di Albert Einstein e di Kurt H. Wolff ...

LA MENTE ACCOGLIENTE: RESA E PRESA ("Surrender and Catch")!!! Quando la soluzione arriva "da sola". Uno studio di Joydeep Bhattacharya dell’Università di Londra - a cura di pfls

domenica 3 febbraio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Quando la soluzione arriva, improvvisa, il cervello è invece dominato dalle onde alfa, ’sintomo’ di minor concentrazione e maggior rilassatezza. "Questi risultati indicano che se la concentrazione al problema è eccessiva il cervello è meno ricettivo e avrà più difficoltà a trovare la soluzione - conclude Bhattacharya - meglio quindi avere la mente aperta e ricettiva", e la soluzione arriverà ’da sola’ [...]
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di (...)

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> LA MENTE ACCOGLIENTE: RESA E PRESA ("Surrender and Catch")!!! --- Teoria della curiosità generale. «Cercate di meravigliarvi» è la ricetta che Einstein. A cent’anni dalla relatività generale, l’eredità (anche morale) del grande fisico.

domenica 4 gennaio 2015

Teoria della curiosità generale

«Cercate di meravigliarvi» è la ricetta che Einstein ripeteva alle ammiratrici

A cent’anni dalla relatività generale, l’eredità (anche morale) del grande fisico

di Carlo Rovelli (Il Sole-24 Ore, Domenica, 04.01.2015)

«Non ho speciali talenti. Sono soltanto appassionatamente curioso». Così descriveva se stesso Albert Einstein nel 1952, pochi anni prima di morire. Di lui, entrato nel mito, girano moltissime citazioni, per lo più false, usate a proposito e sproposito per sostenere le idee più strampalate.

La pubblicazione della prima tranche delle sue opere complete è buona occasione per ricordare qualcuno dei suoi pensieri genuini, che ci mostrano l’intelligenza, ma sopratutto la profondità del grandissimo scienziato, e ci aiutano a comprendere le ragione per cui ha tanto affascinato il mondo.

Il punto di partenza di Albert Einstein, senza dubbio, è stato un rifiuto istintivo e assoluto dell’autorità. Ben prima di scrivere i suoi grandi lavori, ancora ragazzo, nel 1900, scrive con la spavalderia degli adolescenti: «Il rispetto dell’autorità non pensa ed è il più grande nemico della verità». La sottile ironia di essere arrivato, anni dopo, a rappresentare lui stesso l’autorità nella scienza non gli sfugge: nel 1930, divenuto famoso, scrive: «Per punirmi per il mio disprezzo per l’autorità il destino ha fatto un’autorità di me stesso». Ma dell’adorazione del pubblico Einstein diffida. Nel 1922 scrive all’amico Zangger: «Adorato oggi, attaccato o perfino crocifisso domani, questo è il fato di coloro dei quali - Dio sa perché - si impossessa l’annoiato pubblico».

La gioia Einstein la trova nello studio e nei risultati concreti. Traspare nei momenti del successo, come quella di un bambino che è riuscito a fare bene qualcosa. Nel 1919, la spedizione inglese guidata da Eddington fotografa un’eclisse totale e trova la prima spettacolare conferma delle predizioni della relatività generale. Einstein manda una cartolina alla mamma: «Cara mamma! Oggi una notizia gioiosa: Lorentz mi ha telegrafato per dirmi che la spedizione inglese ha veramente provato la deflessione della luce vicino al sole!».

Ma la soddisfazione più intensa non è nel successo, è nella strada: in una calda lettera al figlio, che andava a lezione di pianoforte, Einstein offre il miglior consiglio possibile a un giovane che studia: «Cerca sopratutto di suonare quello che piace a te, anche se l’insegnante ti dice di fare altro. È così che si impara meglio: quando stai facendo qualcosa con un tale piacere che non ti accorgi che il tempo vola».

È il 1915, l’anno in cui arriva a trovare le equazioni della relatività generale.. Non che Einstein non facesse anche lui fatica a imparare. A una bambina che gli scrive lamentandosi della difficoltà con i numeri, risponde: «Non ti angosciare per le difficoltà che hai con la matematica. Quelle che ho io sono ancora più grandi». E ancora a una bambina, che gli chiede se gli scienziati pregano, risponde con disarmante candore: «Gli scienziati pensano che tutte le cose che succedono, comprese le faccende umane, siano regolate dalle leggi della natura. Quindi uno scienziato non può essere incline a pensare che il corso degli eventi possa essere influenzato dalla preghiera».

Un’altra ragazzina gli scrive una prima lettera senza dire che è una ragazza e poi una seconda lettera scusandosi di esserlo, e dicendogli che essere femmina le pesa, avrebbe voluto fare la scienziata, ma come ragazza è difficile. La risposta di Einstein (siamo nel 1946, di donne nella fisica ce ne sono ancora davvero poche) è senza esitazione: «Che importanza ha per me che tu sia una ragazza? La cosa più importante è che non deve avere alcuna importanza per te. Non c’è alcuna ragione perché tu te ne preoccupi».

Nello stesso anno, nell’America di ben prima delle lotte per i diritti civili degli anni Sessanta, quando ancora in tanta parte del paese i neri non potevano sedere negli autobus dei bianchi, Einstein, parlando alla Lincoln University non ha dubbi in proposto: «Esiste una separazione in America fra la gente di colore e i bianchi. Questa separazione non è una malattia della gente di colore. È una malattia della gente bianca». Se vi sembra un pensiero scontato, ripetetelo cambiando «America» con «Italia», «di colore» con «immigrati», e «bianchi» con «italiani».

Ancora più limpido è il suo rifiuto dell’idea di fedeltà a una patria, a una religione, a un gruppo: «Sono per eredità un ebreo, per cittadinanza uno svizzero, ma per natura un essere umano, soltanto un essere umano, senza speciale attaccamento ad alcuno stato, nazione, o entità qualunque». Splendido. Siamo nel 1918. L’Europa ha appena finito il suo primo conflitto sozzamente generale in nome delle patrie, e già si appresta al secondo, un paio di decenni dopo.

Molti anni dopo, nel 1950, in tarda età, questo suo genuino sentire è diventato più posato, più vasto, più profondo: «Un essere umano è parte del tutto, che noi chiamiamo Universo, parte limitata nello spazio e nel tempo. Egli ha esperienza di se stesso, dei propri pensieri, dei propri sentimenti, come di qualcosa di separato dal resto - una specie di illusione ottica della sua coscienza. Questa illusione è come una prigione per noi, ci restringe ai nostri desideri personali e ad avere attaccamento solo per le poche persone più vicine a noi. Il nostro compito deve essere liberarci di questa illusione allargando il raggio della nostra compassione fino ad abbracciare tutte le creature e tutta la natura nella sua bellezza. Nessuno riesce a fare questo interamente, ma lo sforzo per farlo è già di per sé parte della liberazione e della fondazione della propria sicurezza interiore».

Questo è il punto dove era arrivato alla fine della sua vita l’uomo che era «solo appassionatamente curioso». L’anno prima di morire, nel 1955, chiude il cerchio dei suoi pensieri ritornando alla forza prima che lo ha portato attraverso la vita: «La cosa importante è non fermarsi mai di porre domande. La curiosità ha in sé la propria ragione di esistere. Non si può che non essere travolti dalla meraviglia contemplando i misteri del tempo, della vita, della meravigliosa struttura della realtà. È sufficiente se uno cerca semplicemente di comprendere un poco di questo mistero ogni giorno. Non perdete mai la curiosità. Non smettete mai di meravigliarvi».


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