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L’obbedienza non è più una virtù (don Lorenzo Milani).

L’EFFETTO LUCIFERO (libro di Philip Zimbardo, recensito da Galimberti) E IL CASO DI PADRE SEROMBA, IL SACERDOTE CATTOLICO RWANDESE CONDANNATO ALL’ERGASTOLO PER GENOCIDIO - a cura di pfls

In un modo o nell’altro, sempre ci troviamo in un qualche sistema di appartenenza o in qualche situazione che ci chiede di scegliere se stare o non stare al gioco.
giovedì 13 marzo 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Durante la caccia all’uomo del 1994, Padre Seromba aveva attirato all’interno della sua parrochia a Nyange, nella prefettura di Kibuye, almeno 1500 tutsi. Aveva assicurato a tutti che lì, al cospetto di Gesù e della Madonna, protettrice del Ruanda, sarebbero stati in salvo. Le bande armate hutu non avrebbero osato entrare nella cattedrale. Invece mentre i rifugiati pregavano, ha chiuso a chiave le porte della chiesa, e ha ordinato all’autista di un bulldozer di abbattere l’edificio (...)

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> L’EFFETTO LUCIFERO --- I "GIUSTI DEL RUANDA". 30 eroi in mostra (di Rita Cenni).

domenica 29 marzo 2009

LE STORIE

Fu un’apocalisse che causò un milione di vittime, due milioni di persone in fuga, trecentomila orfani, mezzo milione di donne violentate. Ma in quell’orrore rifulse anche il coraggio di eroi rimasti nell’anonimato. Qui raccontiamo le loro storie

30 eroi in mostra

I trenta Giusti del Ruanda, uomini e donne, sono stati fotografati da Riccardo Gangale e intervistati da Leora Kahn. I ritratti di questi trenta eroi sinora sconosciuti, di cui pubblichiamo un’anteprima, sono stati esposti ai primi di febbraio al Memoriale del Genocidio di Kigali. Nei prossimi mesi la mostra sarà esposta nelle scuole superiori del Ruanda. Da gennaio del 2010 il salto oltreoceano: l’esposizione sarà in mostra a Huston, Denver, Seattle, New York. Storie e ritratti diventeranno inoltre un libro, a cura di Leora Kahn, fondatrice dell’associazione no-profit Proof ( media for social justice), che promuove la responsabilità sociale dei media, e docente della Yale University. Kahn ha già firmato i volumi fotografici When they came to take my Father e Darfur: twenty years of war and genocide, sul genocidio in Darfur. (R.C.)

Giusti del Ruanda

di Rita Cenni (Avvenire, 29.03.2009 - senza le foto)

Tutte le notti ne radunava un gruppetto. Spiegava che avrebbero dovuto marciare nella foresta in fila indiana, in silenzio, senza fiatare. Le mani appoggiate alle spalle della persona davanti, per non perdersi. « Mi mettevo io in testa alla fila ».

Yari Silas Ntamfurigiris vive a Nyamata, la cittadina dove sorge la chiesa simbolo dello sterminio ruandese, una trentina chilometri dalla capitale. Nel 1994, quindici anni fa, era un militare, venticinquenne. Yari rifiutò di farsi assassino. Anche se, con quelli che portava in salvo, respirava la paura, il terrore, a ogni passo. « Se mi avessero scoperto, avrei fatto la loro fine, forse peggio. Ma ero un soldato. Il mio dovere era mettere in fila quelle persone, farle marciare tutta la notte. Fino alla salvezza, sull’altra sponda del lago. In Burundi » .

Yari Silas è uno dei Giusti che, nel 1994, mentre in Ruanda impazzava il genocidio dei tutsi, uno dei massacri più atroci della storia dell’umanità, misero a repentaglio la propria vita. È stato rintracciato, con altri trenta eroi sinora anonimi, da Riccardo Gangale, fotografo romano, da dieci anni in Africa, e Leora Kahn. Di Giusti ruandesi si è già parlato: mai abbastanza, come nel caso di Pierantonio Costa, il console italiano che si mise in gioco in prima persona, assieme alla moglie e al figlio maggiore, spese tutto quello che possedeva, e con viaggi incessanti, a dispetto delle minacce esplicite, portò in salvo, da solo, duemila persone, adulti ma soprattutto bambini: seicento da un orfanotrofio dei padri rogazionisti, settecentocinquanta di un campo della Croce Rossa. O esagerando, come accaduto per l’ambiguo direttore dell’hotel, divenuto protagonista di un best seller e di una pellicola di hollywoodiana, anche se alla fine si è scoperto che la versione corretta della vicenda era tutt’altra.

Dopo i famosi, oggi è l’ora dei tanti Giusti qualsiasi, uomini e donne del popolo, le cui storie non sono mai state raccontate: persone normali, contadini, allevatori, insegnanti, sacerdoti, suore, pastori, venditrici di frutta.

Qualche storia: Gisimba Damas Mutezintare, direttore di un orfanotrofio di Kigali, anche se le milizie Interahamwe entrarono e uccisero alcuni rifugiati sotto i suoi occhi, riuscì a proteggere una cinquantina di bambini nascondendoli dietro le cucine; Josephine Mukashyaka, che col marito gestiva una rivendita di birra, a Kibuye: aspettava il terzo figlio, ma protesse le famiglie dei vicini di casa che conosceva da sempre; Gracien Mitsinda, pastore protestante: salvò 322 uomini e donne, anche grazie a una buca scavata al centro della chiesa, dove sistemò i ragazzi più giovani; John Mukambuguje, meccanico, musulmano, manomise il camion per non consegnarlo ai miliziani; Sabiti Hakizimana, autista dell’ambasciata tedesca, nascose nella residenza dell’ambasciatore alcune famiglie e portò in salvo molti tutsi sulle vetture della delegazione, facendoli passare per collaboratori; Joseph Habineza e la moglie, agricoltori analfabeti, costruirono una finta capanna per gli animali, per nascondere una famiglia con sei bambini; Laurien Ntwzimana, professore universitario, tutte le notti portava da mangiare e da bere alla gente che si era rifugiata in una chiesa.

Grazie al lavoro di Gangale e Kahn, un anno di ricerche, finanziate da Open Society, la fondazione di George Soros, i nomi di trenta Giusti sono stati aggiunti agli elenchi ufficiali raccolti da Ibuka ( che in lingua kinyarwanda vuol dire non dimenticare), l’associazione internazionale che gestisce l’archivio della memoria ruandese.

Lo sguardo del fotografo ruba la memoria al passato, la riporta al presente. I Giusti sono ritratti nella tranquillità della vita quotidiana; ed è proprio la serena normalità dell’oggi a farsi strumento per indagare la follia che trasformò il paese delle mille colline in un campo di sterminio. Aprile, maggio, giugno, fino ai primi di luglio: bastarono, quei cento e pochi più giorni, per un’apocalisse che causò un milione di vittime, due milioni di persone in fuga, il più grande esodo di profughi nella storia dell’umanità, trecentomila orfani, mezzo milione di donne violentate, stuprate. Le vittime erano ammassate nelle fosse comuni, fatte a pezzi, gettate dalle scarpate, uccise nelle case, nelle chiese, nelle scuole, nei villaggi, date in pasto al fuoco. Nell’assenza, nel silenzio totale dei media internazionali.

Uno dei tabù dell’olocausto ruandese è la comprensione tardiva, complice, colpevole, di quello che accadeva, da parte della comunità internazionale. « Siamo tutti colpevoli, tardammo ad aprire gli occhi » , ricorda Anna Maria Gentili, docente di Storia e Istituzioni dell’Africa all’Università di Bologna.

Per un tempo troppo lungo, accanto agli innocenti, ci furono solo loro, i Giusti, eroi per caso, per necessità, che incarnarono, anche qui, la banalità del bene. I Giusti si somigliano, in tutto il mondo: sopravvissuti all’orrore, come le mancate vittime, preferiscono il silenzio, l’ombra, la complicità dell’oblio. Sembra inevitabile, la storia di suor Jean de la Croix, da Gitarama: « I primi si presentarono davanti ai cancelli della nostra diocesi il 9 di aprile. Da un momento all’altro erano divenuti tutti Inkotanyi, scarafaggi da uccidere. Nei giorni successivi continuarono ad arrivare da Rukara. C’erano sessanta stanze, presto furono tutte piene. A un certo punto arrivarono le milizie. Cercavano gli uomini, i ragazzi: io e una consorella ci mettemmo davanti, li provocammo. « Prima uccidete me » , dicevamo. Non so come. Se ne andarono, non tornarono più. Ai primi di luglio la situazione nel nostro convento era diventata intollerabile, non c’era più una goccia d’acqua e niente da mangiare. Alcuni bambini morirono comunque, di stenti ».

Nel tempo lungo dei quindici anni che superano il passato, il Ruanda è cresciuto, cambiato. Sotto il governo di Paul Kagame, il Paese ha trovato rapidamente la stabilità, ha giocato un ruolo centrale negli equilibri geopolitici dell’area, ha vinto la sfida di far decollare l’economia, soprattutto grazie al rientro in patria di molti tutsi espatriati, tiene sotto controllo le malattie più devastanti; la capitale, Kigali, è una delle città più vivaci e sicure della regione dei Grandi Laghi. Il Ruanda ha intrapreso con determinazione la strada della riconciliazione nazionale, attraverso un processo che vuole cancellare ogni differenza tra tutsi e hutu.

E mentre ad Arusha, in Tanzania, proseguono i lavori del Tribunale Penale Internazionale che ha visto imputati, e condannati, ministri, capi civili e militari, intellettuali di spicco, imprenditori, esponenti del clero, per i crimini meno gravi, dal 2001 si svolgono i Gacaca, i processi di villaggio, che riprendono la formula dei tribunali tradizionali.

Nel 2004 è stato inaugurato a Kigali il Memoriale del Genocidio, nel sito dove morirono 250mila tutsi. Ma nel tempo corto dei quindici anni che non bastano a farsi storia, resta, sottotraccia, irrisolta, la questione delle ragioni più profonde. « La memoria rischia di svuotarsi e diventare retorica, a senso unico » , ammoniva Alison Des Forges, attivista di Human Rights Watch, scomparsa un mese fa, in un incidente aereo. Persino la riconciliazione si trasforma in un leitmotiv ossessivo, svuotato di contenuto: « Prevale la richiesta di evitare, addirittura negare, ogni analisi che si basi sul conflitto etnico » , commenta Anna Maria Gentili. « Dal punto di vista della politica, è un atteggiamento corretto; ma risulta semplificante per chi fa analisi storica. Se si proibisce anche solo l’accenno all’idea del conflitto interetnico, non si indaga l’odio che fu alla base dello sterminio ». E restano aperte difficoltà oggettive, nemmeno troppo sotterranee, con la società che stenta a seguire, a farsi coinvolgere nel processo di riconciliazione. Con la sensazione, vagamente inquietante, che il governo preferisca che i Giusti restino nell’ombra. Perché, con i loro cuori che non vollero farsi di tenebra, anche loro suscitano domande, più che offrire risposte.


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