MEA CULPA?
MAI! GALIMBERTI
VA ALL’ATTACCO
di EDOARDO CASTAGNA (Avvenire, 10.05.2008)
Come nulla fosse. Umberto «Copincolla» Galimberti passa sopra con nonchalance, quasi scacciasse con una mossa della mano una mosca importuna, alle prove dei suoi ripetuti plagi portate nelle settimane scorse da «Il Giornale» e «Avvenire». Citazioni di lunghi brani senza virgolette («dimenticate», dice), appropriazione di impianti concettuali altrui, plagi ripetuti con costanza, non scivolone isolato ma modus operandi documentato anche più di vent’anni fa... Eppure le occasioni per spiegarsi non sono mancate, a partire dalla sua rubrica su «D» del 3 maggio (all’indomani del fattaccio); il titolo - «Perché tengo questa rubrica» - lasciava pure sperare qualcosa: invece, niente. Non importa: qualche giorno di silenzio, e poi via di nuovo; non è successo nulla, in fondo. Non è successo nulla per i lettori di «Repubblica», perché quella romana è stata l’unica testata nazionale a non dedicare nemmeno una riga alla vicenda, anche se da allora il suo filosofo ufficiale non ha più deliziato i suoi lettori. Un po’ di pausa dalle fatiche della scrittura, per consentire a Galimberti di preparare il terreno al suo rientro grazie a qualche comparsata. Domenica è stato accolto su Radio24 da Armando Torno, che dai microfoni della trasmissione «Musica maestro» ha ricordato il «senso antico di amicizia» che lo lega a Galimberti. E poi gli ha offerto il palco per scacciare via la mosca. Ci si sarebbe potuti aspettare, se non un «mea culpa», almeno una mezza ammissione, un accenno di spiegazione. Al contrario: il professore attacca, raccontando ancora la storiella delle virgolette dimenticate nei passi di Giulia Sissa, cercando di screditare Salvatore Natoli - plagiato ripetutamente, fin dal 1987 -, invocando le voci che si sono levate in sua difesa dai circoli filosofici. In effetti, l’accademia italiana sul suo caso si è comportata nel modo esattamente opposto a quello dei Paesi seri. Anziché indagare e interrogarsi sulla possibile usurpazione di credenziali, si è profusa in minimizzazioni, scusanti, battute. Poche sono state le voci coraggiose capaci di condannare, senza balbettare distinguo, il «copincolla»: De Monticelli, Zecchi. Per il resto, il coro non stecca: «Lui cita l’autore la prima volta [cosa non vera: nei casi documentati da «Avvenire», la citazione era del tutto assente, ndr]; poi ci mette quelle frasi che ricorda anche senza virgolettarle... Nei saperi umanistici è tutto un glossare» ( Vattimo). «Copiare al modo che si imputa a Galimberti... non è grave» (Ferraris). «C’è stata un’esagerazione mediatica... È una persona con dei grandi meriti» (Severino). E così via: negare l’evidenza, se possibile; ridurla a pettegolezzo, se necessario. Lunedì, fresco di autoassoluzione, Galimberti è salito sul palco del milanese Teatro Dal Verme per tenere una «lectio magistralis»; l’altra sera, è stata l’ora del ritorno in video. A ospitarlo, il salotto amico di Michele Santoro, che ad «Annozero» ha chiamato il filosofo di «Repubblica» a illuminare le masse sulla nostra gioventù degenere. Viene presentato l’ultimo dei libri incriminati di Galimberti, quello che ha fatto esplodere il caso: «L’ospite inquietante». Naturalmente, non una parola sullo spiacevole incidente occorso al professore in merito al suo «libro molto interessante» (Santoro). Dopodiché Galimberti si cala senza indugi nei panni del vate: gli ospiti intorno raccontano casi, sofferenze, anche tragedie; poi la parola passa a lui, illuminato in chiaroscuro, primo piano sulla barba brizzolata. E spiega - cinque volte di fila, tante quanti sono stati i suoi interventi tutti tesi a ribadire lo stesso concetto (il viziaccio di ripetere...) - che «i ragazzi sono violenti perché sono senza scopo», e che «sono senza scopo perché non leggono libri». Figuriamoci citarli.