EVOLUZIONE. UN FUTURO COMPLICATO
Un dibattito fra scienza e storia
La natura promuove lo sviluppo degli esseri umani ma non lo guida
Moltissimi fattori intervengono nel processo.
Fattori sociali e politici, scelte economiche e ambientali, strategie -internazionali
Si procede con una serie continua di adattamenti al proprio ambiente di vita
La cultura ha sopravanzato in molti modi e da tempo la nostra biologia
Emergono nuove contraddizioni
L’agricoltura produce sia cibo che inquinamento
di Luca e Francesco Cavalli Sforza( la Repubblica, 16.07.2008)
Qual è il futuro dell’evoluzione umana? Dove stiamo andando? Alcuni lettori ce lo hanno chiesto, dopo che in una serie di articoli pubblicati su queste pagine l’anno passato abbiamo parlato dei fattori che hanno determinato il nostro presente. Poche domande sono più difficili, ma vale la pena di capire perché è così impegnativo rispondere.
La natura promuove l’evoluzione degli esseri viventi, ma non la guida. Una guida precede e mostra la strada, mentre la natura non mostra nessuna strada: semplicemente, pone le condizioni che rendono inevitabile quell’aumento di varietà e quel cambiamento progressivo che chiamiamo evoluzione.
L’evoluzione procede attraverso una serie continua di adattamenti al proprio ambiente di vita. Evolvere è un fatto squisitamente biologico: le piante che crescono in ambiente arido sono costrette a sviluppare una strategia che consenta loro di trattenere l’acqua disponibile, o comunque di utilizzare al meglio la poca acqua che c’è, quando arriva. Le piante che vivono in climi piovosi hanno altre opzioni, ed evolvono di conseguenza.
Anche la nostra evoluzione è soggetta ai requisiti della nostra biologia. Le nostre cellule si procurano energia bruciando ossigeno, non zolfo o ferro, per cui non possiamo vivere in assenza di ossigeno. Siamo in grado di abitare climi più o meno caldi o freddi, ma se la temperatura si avvicina a zero assideriamo, se sale oltre i 40ºC rischiamo un colpo di calore. La nostra specie però ha sviluppato più di qualunque altra strumenti culturali che estendono i confini della sua biologia e modificano a suo vantaggio l’ambiente circostante. Come una bombola di ossigeno ci permette di spingerci al di là dell’atmosfera o nelle profondità marine, così vestiti e abitazioni adatte permettono di risiedere nei climi più freddi e una tuta in tessuto antincendio può sfidare la fiamma viva.
La cultura ha sopravanzato in molti modi la nostra biologia. Non è un fenomeno recente, ma solo negli ultimi due secoli ha raggiunto le straordinarie dimensioni odierne. Basti un’osservazione a rendersene conto: la vita media oggi sfiora o supera gli 80 anni nei Paesi più avanzati, dopo essere stata fra i 20 e 30 anni - simile a quella degli scimpanzé - per la quasi totalità della storia dell’uomo. Questa triplicazione della durata media della vita (che vale solo per i Paesi più sviluppati: in Swaziland è intorno a 33,5 anni nel 2008) dimostra con eloquenza il potere della cultura. Ma questo non significa che ora sia la cultura a guidare l’evoluzione umana. Di nuovo, possiamo dire che la sospinge, non certo che la dirige, perché l’umanità non è mai stata consapevole delle conseguenze a cui avrebbero portato le sue scelte, le sue azioni e le sue tecnologie.
Prendiamo ad esempio la più importante delle invenzioni umane: quella che ci ha permesso di produrre, con l’agricoltura e l’allevamento, il nostro cibo. Grazie ad essa, l’umanità ha potuto aumentare di numero ben mille volte in diecimila anni: da qualche milione a qualche miliardo di individui. Al tempo stesso, agricoltura e allevamento hanno dato il via a quei processi di inquinamento, desertificazione, degrado ambientale, di cui oggi abbiamo cominciato a pagare il prezzo su scala planetaria. Ogni invenzione è a doppio taglio, ha un beneficio ma anche un costo: può produrre grandi vantaggi come conseguenze indesiderate. La scoperta dell’energia atomica ha fatto fare progressi senza precedenti tanto alle nostre conoscenze quanto alle nostre tecnologie, ma i benefici che ha portato sono stati finora limitati, per quanto riguarda la produzione di energia, mentre il pericolo rappresentato dalle migliaia di testate nucleari disponibili negli arsenali grava come una terribile minaccia sul futuro dell’umanità.
Dove ci porta questo grande sviluppo culturale? La nostra capacità di fare uso di conoscenze e di tecnologie avanzate in vista di un bene comune è tutt’altro che sviluppata. Negli ultimi anni, per esempio, la quantità di cibo prodotta sul pianeta è stata spesso superiore alle necessità della popolazione umana, su scala globale. Ma cosa significa questo, nel momento in cui un individuo su tre è malnutrito e quasi un miliardo di persone è destinato a morire di fame? L’eccedenza alimentare non raggiunge i miliardi che hanno bisogno di cibo, né mai li raggiungerà, per ragioni squisitamente strutturali, inerenti ai meccanismi di produzione e distribuzione caratteristici delle nostre società. Non sono i Paesi più ricchi a raggiungere i più poveri portando i benefici derivanti dallo sviluppo, sono piuttosto gli affamati a cercare di raggiungere i Paesi più ricchi.
Qualunque essere vivente si riproduce senza limiti se trova nutrimento bastante. Un singolo batterio, dividendosi in due ogni venti minuti, produrrebbe in poco più di un giorno una massa di batteri grande quanto l’intero pianeta, se trovasse cibo sufficiente per farlo. Ogni pianta, ogni animale, tende a riprodursi e ad aumentare di numero quanto più possibile: è l’ambiente a porre dei limiti, ed è la disponibilità di cibo a frenare la crescita di qualsiasi popolazione. Una popolazione di insetti che si nutre di chicchi di grano conosce uno sviluppo immenso quando un campo di grano matura. Quando tutto il grano sarà stato mangiato, o mietuto, il numero degli insetti crollerà.
Lo stesso discorso vale per la nostra specie. Abbiamo avuto molto successo e abbiamo continuato a crescere dal momento in cui siamo comparsi sul pianeta, sfruttando la nostra capacità di creare strumenti per trarre dall’ambiente il massimo vantaggio. Ogni volta che una popolazione umana è aumentata al di là delle risorse disponibili sono scattati meccanismi di regolazione: carestie, epidemie, guerre, che hanno ridotto il numero di individui fino a renderlo nuovamente compatibile con le risorse.
Questo è successo innumerevoli volte nel corso della storia. Poi, ogni volta, la crescita è ripresa, assistita dalla potenza della riproduzione e dall’innovazione tecnologica. Se la nostra cultura guidasse la nostra evoluzione, potremmo aspettarci che ci avrebbe suggerito di limitare la crescita numerica, sconsigliandoci di spingere la pressione umana sull’ambiente fino a vedere profilarsi all’orizzonte l’esaurimento delle risorse fossili, minerarie e financo ecologiche su cui sono state costruite le nostre società. Ma non è andata così. Al contrario, ideologie politiche e religiose hanno continuato (e continuano) a propugnare la proliferazione degli esseri umani, per conquistare potenza e acquistare fedeli tramite l’aumento dei numeri. In modo analogo, l’ideologia economica dominante spinge per una crescita illimitata di produzione e consumi, quasi questi potessero moltiplicarsi all’infinito.
Dotati di conoscenze e mezzi tecnologici che ci hanno dato di fatto il controllo del pianeta, continuiamo a procedere come gli animali e i Primati che siamo (e che per tanto tempo abbiamo voluto considerare inferiori a noi): ci appropriamo di tutto ciò su cui riusciamo a mettere le mani, come se ogni risorsa fosse disponibile in quantità illimitate, senza una visione dei possibili futuri cui stiamo aprendo la strada con il nostro agire.
Diamo grande importanza al pensiero umano, alle nostre convinzioni, moralità e filosofie. Ma a cosa sono servite, se non riescono ad evitare le guerre? Se i nostri sistemi economici mantengono in povertà e in miseria metà dell’umanità? Se dobbiamo prendere sul serio l’alta considerazione in cui abbiamo sempre tenuto la nostra specie, dobbiamo concludere che viviamo sempre nella preistoria: la storia umana non è ancora cominciata.
Quando usciremo dalle caverne? Quando cominceremo a combattere contro le guerre con la stessa forza con cui combattiamo le malattie e con cui ci dedichiamo alla produzione del cibo? Quando ci renderemo conto che la nostra stessa vita è possibile solo in equilibrio con le altre forme di vita e con l’ambiente non vivente? Quando arriveremo a rispettare le convinzioni e gli stili di vita altrui? E la vita non umana?
C’è almeno un segnale positivo, per quanto riguarda la nostra crescita numerica: è la cosiddetta «transizione demografica», che si è verificata in Europa, a partire dall’Inghilterra e dalla Scandinavia, fra la metà dell’Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento. Dopo un periodo iniziale durato circa una generazione in cui le popolazioni sono cresciute di numero perché è diminuita la mortalità, ma le nascite sono continuate indisturbate, si è cominciato a fare meno figli. Grazie alla migliore sopravvivenza dei nuovi nati e a vite più lunghe, la popolazione europea ha continuato a crescere per vari decenni, poi la crescita ha cominciato a diminuire, grazie alla minore natalità, fino a raggiungere un indice vicino a zero. Oggi l’aumento numerico, in Europa, è determinato solo dall’arrivo di immigrati provenienti da altri Paesi.
Dopo l’ultima guerra mondiale questo stesso fenomeno ha iniziato a estendersi al resto del mondo. La caduta della mortalità infantile e la maggior durata della vita hanno determinato un’esplosione demografica globale, che ha portato la popolazione umana da circa 3 a oltre 6,4 miliardi di individui (nel 2006). Di questo passo, si prevede che la popolazione mondiale smetterà di crescere fra il 2040 e il 2050. Quanti saremo diventati a quel punto? Il Nord non aumenterà forse più, ma il Sud aumenta ancora. Sono state fatte molte previsioni ma sono difficili, anche perché le crisi ecologiche ed economiche, la fame, le epidemie e le guerre potrebbero diminuire il numero degli esseri umani.
Dipenderà, evidentemente, dalle risposte collettive che sapremo dare ai problemi che abbiamo davanti. Il futuro della nostra evoluzione dipende in larga misura dalla consapevolezza collettiva. Il controllo della natalità è un bell’esempio della sfida che l’umanità si trova ad affrontare: dare un indirizzo alla propria evoluzione, così che ogni persona che nasce abbia la possibilità di una vita che valga la pena di essere vissuta e che la specie umana divenga una risorsa per il pianeta, non la sua rovina.
La vita genera incessantemente se stessa e ha dato forma a tutto l’ambiente naturale. Non sa dove va, ma percorre ogni strada che riesce a praticare. Anche la cultura umana esplora ogni possibilità, e il mondo in cui viviamo è il risultato delle nostre passate azioni e dell’uso che abbiamo fatto delle nostre tecnologie. La nostra salvezza, qualunque cosa sia, non sta in un altro mondo, ma in ciò che sapremo fare di questo. E’ incoraggiante che sia così, ed è la speranza migliore. Per quanto sia importante il numero degli esseri umani, il lettore potrà però chiedersi: come saranno fatte le donne e gli uomini di domani? Questo, naturalmente, è tutto un altro discorso.