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Italia. Sicilia...

A NISCEMI, L’ULTIMO SALUTO A LORENA CULTRARO. "Mia cara Lorena, a nome della città, a nome di tutti noi ti chiedo perdono" (Il sindaco Giovanni Di Martino).

sabato 17 maggio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Il sindaco ha parlato di "giorni terribili", ma ha sottolineato anche la "solidarietà ricevuta da ogni parte d’Italia" ed infine si è rivolto direttamente alla ragazza uccisa con accenti commossi: "Mia cara Lorena, a nome della città, a nome di tutti noi ti chiedo perdono. Non siamo stati capaci di interpretare il tuo disagio, di raccogliere il tuo appello, il grido d’aiuto e di dolore che da te giungeva"."Da domani - ha aggiunto Di Martino - nel rispetto del tuo nome e della tua (...)

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> A NISCEMI, L’ULTIMO SALUTO A LORENA CULTRARO. "Mia cara Lorena, a nome della città, a nome di tutti noi ti chiedo perdono" (Il sindaco Giovanni Di Martino). ---- Niscemi, necessario un lavoro di rieducazione (di Luigi Cancrini)

lunedì 19 maggio 2008

Niscemi, necessario un lavoro di rieducazione

di Luigi Cancrini *

I ragazzi di Niscemi che hanno confessato di aver ucciso e gettato in un pozzo la loro compagna di 14 anni non sono troppo giovani per aver compiuto da soli un gesto così atroce? È possibile che siano arrivati a tanto? La loro è una patologia? La psichiatria ha una risposta per un caso come il loro se le cose sono andate così? Che cosa proporresti di fare, in un caso analogo?

Franco S.

Possibile sì perché è accaduto: anche se è difficile ammetterlo. Che la condotta di questi tre ragazzi sia stata patologica, ugualmente, mi sembra fuori di dubbio. Sul che fare con loro, sulle origini e sul possibile decorso di una patologia come questa oggi, le ricerche fatte nel corso di questi ultimi trent’anni propongono la possibilità, invece, di dire qualcosa in più di quello che si dice nei "normali" talk show televisivi. Su tre punti fondamentali.

Il primo di questi punti, a lungo controverso, riguarda l’origine non genetica dei comportamenti legati all’antisocialità e, più in generale, ai disturbi di personalità. Siamo lontani, oggi, dalle ipotesi di Lombroso che collegava all’eredità e alle caratteristiche somatiche dell’individuo la sua tendenza a commettere dei delitti. C’è una letteratura ampia e concorde (consultare il bellissimo libro a cura di J.F.Clarkin e M.F.Lenzenweger "I Disturbi di Personalità", Cortina Editore) a dimostrare che quelle legate all’eredità sono alcune caratteristiche normali del temperamento (quelle che ci fanno normalmente diversi l’uno dall’altro contribuendo, come i lineamenti del volto, a darci una fisionomia psicologica particolare), non gli aspetti patologici (come in questo caso) del carattere e della personalità. Le origini di questi aspetti patologici vanno ricercate, infatti, nella storia personale dell’individuo.

È nei contesti interpersonali familiari e sociali in cui il bambino viene cresciuto ed in cui l’adolescente delinea una sua autonomia ed identità che si definiscono, infatti, l’orientamento, la forza e la flessibilità di quello che sarà poi il senso morale dell’adulto. Sono le esperienze vissute nel corso di una infanzia negata o di una adolescenza sbagliata quelle su cui si struttura quel tipo di segnaletica interna cui ci riferiamo tutti parlando di coscienza: come ben indicato già negli anni 30 e 40 dai primi allievi di Freud (dalla figlia Anna, in particolare, e da August Aichorn) e come dimostrato anche sperimentalmente, oggi, da studi come quelli di Otto Kernberg, di Lorna Smith Bejiamin e di tanti altri che si sono occupati di questo problema.

Ma come confermato quotidianamente, soprattutto, dalle esperienze di chi si confronta da una parte con i bambini abusati, maltrattati o gravemente trascurati e, dall’altra, con le persone che soffrono di disturbi gravi di personalità (e oggi, in particolare, di alcolisti, tossicodipendenti e autori di reati contro la persona): proponendo (io lo faccio di continuo insegnando ai più giovani e scrivendo: occupandomi ad esempio di Oceano Borderline, Cortina Editore) che il modo migliore di occuparsi del bambino che soffre è quello di immaginare l’adulto che ne verrebbe fuori se non si intervenisse terapeuticamente e che il modo migliore di occuparsi del giovane o dell’adulto che propone questo tipo di comportamenti patologici è quello di immaginare il bambino spaventato e infelice che si nasconde dietro di loro.

Il secondo di questi punti, altrettanto e forse più importante, è quello che riguarda la reversibilità di queste condizioni. Una reversibilità nota già da tempo per quello che riguarda gli adolescenti per cui i manuali diagnostici sconsigliano di porre diagnosi definitive ben sapendo la facilità con cui, in una età compresa più o meno fra i 12 ed i 20 anni, si esce e si entra dalla patologia in rapporto al mutare dei contesti e delle esperienze vissute. Una reversibilità scientificamente ben dimostrata (lo studio longitudinale di Toronto in Canada su 640 ragazzi con problemi seguiti dai 13 ai 18 anni) che rende un po’ ridicola e comunque desueta la convinzione di genitori, educatori, uomini di legge e (purtroppo) psichiatri convinti dell’origine congenita della "cattiveria" e della "devianza" abituati a vedere, nelle condotte patologiche di un ragazzo o di una ragazza, come la prova evidente di una sua immutabile patologia: come accade, ancora, ai figli di tante famiglie "normali" ma come accade oggi in modo drammatico nel caso delle adozioni che vanno male. Ma una reversibilità dimostrata, oggi, anche a proposito degli adulti dove le ricerche longitudinali (quelle, costose e difficili, che seguono per anni il decorso di un certo disturbo) propongono l’idea per cui i disturbi di personalità, gravi al punto da aver richiesto dei ricoveri psichiatrici, scompaiono in una percentuale di casi vicina al 50% dopo 4 anni ed in una percentuale di casi superiore al 70% se li si valuta a distanza di sei anni. Aprendo prospettive straordinarie alla possibilità di utilizzare degli interventi terapeutici efficaci, soprattutto se di livello psicoterapeutico, in situazioni di devianza carceraria o psichiatrica considerata da molti "esperti" (e da molto "senso comune") come senza speranza.

Il terzo di questi punti, particolarmente importante qui, nel caso dei tre ragazzi di Niscemi, è quello legato alla gravità del reato che hanno commesso. L’equivoco da dissipare subito è quello per cui le finestre aperte da una riflessione psicoterapeutica sulle esperienze traumatiche, lontane o vicine, di chi ha commesso un reato, sono l’espressione di una tendenza alla giustificazione retrospettiva di tale reato.

Tutto al contrario, chi si occupa di psicoterapia di casi come questi deve partire sempre dall’idea per cui i meccanismi difensivi basati sulla negazione e sulla autogiustificazione ("non sono stato io", "non volevo", "la colpa è di chi mi ha provocato o di chi non mi ha insegnato cose giuste") sono ostacoli fra i più importanti sulla strada del cambiamento. Mettere a fuoco nella propria mente e nel proprio cuore l’altro e la gravità del danno che gli si è procurato è doloroso ma fondamentale nel processo di elaborazione del lutto che l’autore di un reato grave è, che se ne renda conto o no, deve vivere fino in fondo se è arrivato a colpire o ad uccide: un lutto legato alla perdita di una immagine non più recuperabile del Sé.

In un caso così, quello che si dovrà fare (e si può fare: il nostro sistema penale minorile funziona spesso ad un buon livello) è un lavoro di rieducazione portato avanti da persone con competenze psicoterapeutiche sviluppato all’interno di luoghi adatti (il carcere minorile prima e la Comunità dopo): coniugando la pena collegata alla perdita temporanea della libertà ad un aiuto centrato sulla riattivazione delle parti sane di questi poveri ragazzi. Sapendo che il delitto che hanno commesso li segnerà per sempre ma sapendo anche che questo non impedirà loro di ritrovare sé stessi ed il loro progetto di vita.

* l’Unità, 19.05.2008


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