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In principio era il "Logos" - o il "Polemos"?! Storia. La prima guerra civile europea...

RIPENSARE L’EUROPA. LA GUERRA DEL PELOPONNESO E LA "DISTRUZIONE RADICALE" DELL’INTERA GRECIA. Uno studio di Victor Davis Hanson, recensito da Giorgio De Simone - a cura di pfls

"Fu senza dubbio questo l’evento che sconvolse più a fondo la Grecia e alcuni paesi barbari: si potrebbe dire addirittura che i suoi effetti si estesero alla maggior parte degli uomini" (Tucidide).
sabato 24 maggio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Di ’distruzione radicale’ parlò Tucidide e nel 405 lo spartano Lisandro, alleatosi con la Persia, portò Atene alla resa dei conti nello scontro navale di Egospotami, qualcosa di simile alla battaglia persa dai Turchi a Lepanto nel 1571. Ma con Atene sconfitta, tutta la Grecia, di fatto, lo fu. Dopo la capitale dell’Attica l’egemonia toccò a Sparta, ma solo grazie all’alleanza ’sacrilega’ con la Persia, e, dopo Sparta, dal 371 al 362, a Tebe finché, con la battaglia di Cheronea del (...)

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> RIPENSARE L’EUROPA. LA GUERRA DEL PELOPONNESO E LA "DISTRUZIONE RADICALE" DELL’INTERA GRECIA. ---- La democrazia alla prova degli dei - La religione non è nemica (di Barbara Spinelli).

domenica 25 maggio 2008

La religione non è nemica

di Barbara Spinelli (La Stampa, 25/5/2008)

Il rapporto tra religione e politica è divenuto sempre più un assillo, da quando l’Islam ha fatto ingresso - con forza, spesso con violenza - in Occidente. Si è diffusa la paura, di fronte a una religione che molti ritengono troppo dogmatica, politicizzata, esclusiva. L’allarme s’è esteso alla Chiesa cattolica, che ha reagito alla sfida mettendo in questione l’ecumenismo del Concilio Vaticano II. Nella visione di Benedetto XVI, religione e politica devono concatenarsi di nuovo, e il pericolo è la chiusura della fede nel privato: solo influendo sul farsi delle leggi, solo delimitando la politica e la sua autonomia, il cristianesimo può riprendersi, in una sorta di imitatio dell’Islam. La laicità è sospettata di distruggere la fede, separandola dalla politica, e ogni discorso laico tende a esser chiamato, con sprezzo intimorito, laicista. I politici stessi corrono dietro a questi stereotipi. Se c’è affievolimento delle fedi, la colpa deve essere fuori dalle chiese: nella politica. Viviamo nel regno dello stereotipo: non l’esperienza ci guida, ma opinioni preconcette e fatali. Fatalmente la religione privatizzata degenera in relativismo. Fatalmente l’ortodossia secerne intolleranza. La politica della paura si nutre di questi stereotipi.

L’esperienza dice il contrario. Lo si apprende da uno studio illuminante pubblicato nei giorni scorsi della Harvard Kennedy School: il New York Times del 20 maggio ne dà un riassunto, redatto da tre professori (David Clingingsmith, Asim Ijaz Khwaja, Michael Kremer). La ricerca è su un evento centrale dell’Islam: il pellegrinaggio alla Mecca (hajj). L’indagine confronta le opinioni dei pellegrini con quelle dei fedeli che non hanno fatto il viaggio - in Pakistan - e esplora l’effetto del hajj nei 5-8 mesi successivi. I risultati sono dirompenti, e destabilizzano l’imperio esercitato sulle nostre menti dai luoghi comuni. Non è l’ortodossia a creare intolleranza, ma anzi l’ortodossia in certe circostanze produce pacificazione e tolleranza. Non è l’ortodossia a respingere la separazione fra politica e religione, e la forza di quest’ultima non si recupera restaurando commistioni e pressioni. Ne escono malconce le guide religiose attratte dalla restaurazione, così come le forze laiche che temono l’intensità - magari fondamentalista - del vissuto religioso. Analisi di questo genere fanno bene alla mente, le danno ossigeno: è bello quando occorre rivedere d’un colpo le opinioni più consolidate. È un relativismo che fa pensare, trasformandoci nei «mendicanti di senso» descritti da Dario Antiseri. Che ci consente di riscoprire le intuizioni di Chesterton sui benefici delle ortodossie, delle eresie. Il giudizio dei tre professori è infatti chiaro: la pratica religiosa ardente, se avviene lontano dal politico (se è profeticamente pre-politica, nelle parole del priore di Bose Enzo Bianchi) facilita il convivere tra popoli, religioni, sessi. Ben altro è il dogmatismo, che non è apertura all’alterità. Che è politica pura, senza un grammo di religiosità.

I fedeli che rispondono al questionario confermano in pieno questa supposizione. Il pellegrinaggio unisce, per giorni, individui che nelle rispettive patrie non conoscono simili prove, che ti gettano nel diverso e nel molteplice. Mescola uomini e donne, rende eguali credi e sette. Tutti son vestiti di bianco, tesi non alla competizione ma alla cooperazione. Le idolatrie locali, le piccole identità, tendono a sfilacciarsi, anche dopo il pellegrinaggio: l’universalismo religioso torna in primo piano. Molto più di chi non partecipa al hajj, i pellegrini vengono a contatto con esistenze e pratiche ignote, e il contatto crea angoscia, acuta fatica fisica: soprattutto nelle donne. Da quest’angoscia nascono tolleranza, curiosità. Anche il rapporto con le donne, scabroso nell’Islam, cambia. D’un tratto la donna è accanto a te, prega con te, vestita di bianco come te. D’un tratto pakistani o sauditi scoprono la maggior libertà delle donne indonesiane, malesi.

Gli autori del rapporto citano il caso di Malcolm X, che scombussolò la propria visione dell’America e del conflitto razziale, dopo un hajj nel ’64. In una lettera dalla Mecca scrisse: «Tutti partecipiamo allo stesso rituale, mostrando uno spirito di unità e fratellanza che la mia esperienza in America mi aveva portato a credere non potesse mai esistere fra bianchi e non bianchi. (...) Potrete restare sorpresi ma, nel pellegrinaggio, ciò che ho visto e sperimentato mi ha indotto a modificare radicalmente principi da me ritenuti veritieri in precedenza».

L’affacciarsi sul diverso non avviene abbandonando la pratica religiosa ma anzi intensificandola, trasformandola in ascesi. Dopo il hajj i fedeli vanno più spesso in moschea, pregano più spesso, osservano più diligentemente i digiuni. Ma non sono queste pratiche a chiuderli al mondo esterno. Non è negando loro le moschee che li aiutiamo a ridurre l’ostilità antioccidentale. È l’uniformità tribale che secerne inimicizia: l’uniformità d’una fede locale o anche - è la conclusione di Rowan Williams primate d’Inghilterra - l’uniformità di leggi statali incapaci d’accogliere le diversità e infedeli al vero insegnamento dei Lumi («La grande protesta dell’Illuminismo era contro un’autorità che si richiamava a un’unica tradizione», ha detto il primate nel febbraio scorso).

Due altri punti essenziali sottolineati dal questionario sono il rapporto fra religione e politica e quello con i non musulmani. L’addensata ortodossia del praticante-pellegrino non aspira a relazioni più strette tra religione e politica, né influenza negativamente lo sguardo sull’Occidente. Il peso della fede nella politica addirittura scema. I reduci del hajj sono meno inclini ad appoggiare l’Islam politico, meno inclini a preconizzare uno Stato che impartisca ingiunzioni religiose e un clero che interferisca nella giustizia e nelle leggi. Sono anni che in Occidente parliamo dell’ortodossia di Bin Laden e dei terroristi, senza sospettare che il loro rapporto con la pratica religiosa è probabilmente inesistente. In realtà non sono religiosi, ma politici allo stato puro. I pellegrini s’abituano a credere meno in Bin Laden, andando alla Mecca. Non osano magari attaccarlo, ma sono portati a giudicare incorrette le sue condotte più dei musulmani restati fuori dal hajj. I pakistani sono anche più propensi a pacificarsi con l’India, e a condannare la violenza contro le donne e i delitti d’onore.

Una religione che incivilisce invece di imbarbarire. Che tanto più apre al non musulmano e al diverso, quanto più il fedele è immerso nella trepidazione estatica del viaggio sacro, almeno una volta nella propria vita. Non è semplicemente il viaggiare che opera questo, perché viaggiare suscita voglia d’emigrare e il pellegrinaggio no. Il pellegrino scopre la pace con l’altro, ma non grazie a speciali pedagogie dottrinali: quel che lo cambia nell’intimo è il vissuto religioso, è l’uscire da identità uniformi e corte.

Gli stereotipi crescono quando non c’è religiosità autentica: questo e non il rapporto con la politica è il problema nell’Islam come nel cristianesimo (il cristianesimo in fondo lo sa, avendolo capito per primo). Rispondere con il rifiuto dell’ecumenismo e con l’esaltazione in Europa di un’unica identità religiosa significa non esporre più il cristiano alla diversità o alle eresie: dunque viziarlo, spezzarne l’universalismo, in fin dei conti imbalsamarlo e sfinirlo.

La Chiesa ha una forza rispetto all’Islam: ha una gerarchia centralizzata, che impedisce frantumazioni tribali. Si è separata dagli Stati nel corso della storia, spiritualizzandosi. Ma se rinuncia all’ecumenismo perde, diventa anch’essa tribù. Non è l’ortodossia il nemico, ma il suo uso politico. La laicità è stata inventata per sventare quest’uso, non per sventare la religiosità.


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