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SCIENZA.Cosmologia e Fisica delle particelle....

L’UNIVERSO E LA NOSTRA SCONFINATA IGNORANZA. Al CERN di Ginevra sta per essere avviato l’Lhc (Large Hadron Collider). Vedremo che cosa è successo immediatamente dopo il Big Bang. Il resoconto di una visita sul posto di Fabrizio Ravelli - a cura di pfls

È un momento storico per la scienza, e quel che scopriremo potrebbe cambiare i libri di testo. Fra un anno o due, c’è la possibilità che si scopra l’origine della materia oscura che costituisce il venticinque per cento dell’universo.
mercoledì 10 settembre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Vedremo l’origine dell’universo, che cosa è successo un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, perché quelle sono le condizioni che verranno ricreate. Un progetto simile non è mai stato tentato, ed è il più ambizioso al mondo. Non poteva succedere che qui al Cern, il più importante laboratorio planetario per la fisica delle particelle, l’impresa che (dal 1954) tiene insieme venti stati membri europei, e circa sessanta di tutto il mondo, impegnando ogni giorno ottomila (...)

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> L’UNIVERSO E LA NOSTRA SCONFINATA IGNORANZA - L’universo oscuro. Sette riflessioni cosmologiche sul mondo che credevi di conoscere.

domenica 24 settembre 2017

astrofisica / 1

I nuovi confini del cosmo

Da mezzo secolo a questa parte l’uomo ha riscoperto lo spirito dei primi esploratori e ha ricominciato a mappare lo spazio

di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, 24.09.2017)

      • Alan Lightman, L’universo accidentale. Sette riflessioni cosmologiche sul mondo che credevi di conoscere, traduzione di Paola Borgonovo, Sironi, Milano, pagg. 142, € 16

«Dove sei?» è diventata, con l’avvento dei cellulari, la domanda d’esordio di ogni conversazione telefonica. Possiamo d’altra parte rispondere alla curiosità dei nostri interlocutori con una precisione inimmaginabile fino a qualche anno fa, grazie a sistemi come il GPS, che incorporano tanta splendida fisica. E non solo il nostro posto sulla Terra, ma anche quello nell’universo è ormai molto ben individuato. Viviamo su un confortevole pianeta a 150 milioni di chilometri da una stella di media grandezza, il Sole, collocata a 27.000 anni luce dal centro di una galassia a spirale, la Via Lattea (centomila anni luce di diametro), che fa parte del Gruppo Locale (dieci milioni di anni luce di diametro), un insieme di galassie appartenente al Superammasso della Vergine (cento milioni di anni luce di diametro), una delle componenti del Complesso dei Pesci-Balena, che si estende per un miliardo di anni luce.

Riusciamo insomma a collocarci precisamente in un universo che è miliardi di miliardi di miliardi di volte più grande di noi. È una conquista mirabile, la cui storia (ben illustrata nel libro di Tommaso Maccacaro e Claudio Tartari, Storia del dove, Bollati Boringhieri, recensito da Patrizia Caraveo sulla Domenica del 20 agosto) coincide in definitiva con la storia del pensiero e della scienza. Le frontiere della conoscenza e quelle fisiche del mondo si sono ampliate di pari passo, e il cosmo ha infine assunto proporzioni enormi, che sappiamo quantificare, ma facciamo fatica a concepire e a esprimere in termini familiari.

«Un indice del progresso della civiltà umana - osserva il fisico teorico e scrittore Alan Lightman in un piccolo e godibile saggio, L’universo accidentale, che racconta l’universo attraverso sette suoi attributi - è la scala crescente delle nostre mappe». In effetti, tra la tavoletta di argilla babilonese conservata al British Museum, che identifica il mondo con la regione dell’Eufrate, e la mappa della radiazione cosmica di fondo della missione Planck, che fotografa l’intero universo nella sua infanzia, 380mila anni dopo il Big Bang, si dispiega tutta l’avventura del pensiero umano - un’avventura che ha subìto un’accelerazione decisiva nei quattro secoli della scienza moderna.

Dal Cinquecento a oggi l’universo noto si è dilatato di sedici ordini di grandezza (cioè di dieci milioni di miliardi di volte): un numero impressionante, che dà l’idea dell’impresa compiuta dagli astronomi. Alla vigilia della Rivoluzione Scientifica le stime delle distanze celesti erano ancora quelle di Tolomeo (II secolo d.C.) e dei suoi predecessori (Eratostene, Aristarco, Ipparco). Tolomeo attribuiva alla distanza Terra-Sole il valore di 1.200 raggi terrestri (venti volte meno del dato reale) e riteneva che la sfera delle stelle fisse, adiacente a quella dell’ultimo pianeta noto, Saturno, avesse una dimensione di 20.000 raggi terrestri, più o meno dieci milioni di chilometri.

Non era mancato, a dire il vero, chi già in epoca precedente aveva sfidato le stime tolemaiche. Nel Trecento, per esempio, Il rabbino catalano Levi ben Gershon (Gersonide) aveva sostenuto l’estrema lontananza delle stelle, collocate da lui a milioni di miliardi di chilometri dalla Terra (decine o centinaia di anni luce, in unità moderne). Le sue idee non ebbero però alcun seguito. Con diffidenza furono anche accolte, tre secoli e mezzo dopo, stime simili dovute a Huygens e Newton. Solo nell’Ottocento, con la misura della parallasse di 61 Cygni da parte di Friedrich Wilhelm Bessel, le distanze stellari cominciarono a essere determinate in maniera diretta, e la frontiera degli anni luce venne definitivamente varcata.

Nel frattempo, William Herschel aveva prodotto nel 1785 il primo modello della Via Lattea: un disco appiattito largo dieci milioni di miliardi di chilometri (cento volte meno del reale). Modelli sostanzialmente dello stesso genere, più raffinati, vennero proposti fino all’inizio del Novecento. Si pensava ancora che l’universo coincidesse con la nostra galassia, e alcuni - in assenza di prove contrarie - collocavano il Sole in posizione centrale (ultimo residuo di antropocentrismo).

A cambiare tutto arrivò dapprima un’astronoma di Harvard, Henrietta Leavitt, che con le cefeidi - stelle di luminosità assoluta nota - fornì finalmente un “metro” affidabile e universale per misurare gli spazi siderali, e poi un altro scienziato statunitense, Edwin Hubble, che rivoluzionò la cosmologia, mostrando che la Via Lattea è solo una delle tante galassie disseminate in uno spazio sterminato (con il Sole, peraltro, in posizione defilata), e soprattutto che l’intero quadro è dinamico: l’universo si espande e ha una storia. L’attualità è nota. Sappiamo di essere abitanti di un cosmo in espansione accelerata, globalmente piatto, vecchio di 13,8 miliardi di anni. Quanto più ci addentriamo nelle sue profondità, tanto più indietro andiamo nel tempo. Esiste quindi un orizzonte - alcune decine di miliardi di anni luce - che limita il nostro sguardo, giacché non possiamo ricevere segnali da un tempo anteriore all’inizio dell’universo.

Per il frontespizio dell’Instauratio Magna, del 1620, che conteneva il Novum Organum, manifesto metodologico della nuova filosofia naturale, Francesco Bacone scelse un’immagine emblematica: due navi a vele spiegate che oltrepassano le Colonne d’Ercole. Era al tempo stesso una raffigurazione di ciò che stava accadendo realmente, con le imprese dei grandi navigatori, e una metafora della scienza moderna, come conquista di nuovi territori del sapere. Il versetto biblico che accompagnava l’immagine - Multi pertransibunt et augebitur scientia («Molti passeranno e la scienza crescerà») - è una profezia ampiamente realizzatasi, al di là di quanto il Lord Cancelliere potesse immaginare. Dopo aver a lungo scrutato l’universo dalla finestra di casa, con strumenti sempre più raffinati (e ingombranti), da mezzo secolo a questa parte l’uomo ha riscoperto lo spirito dei primi esploratori e ha cominciato a mandare le proprie navi oltre le Colonne d’Ercole.

La sonda Voyager è laggiù: ha fotografato quel «puntino celeste» (definizione di Carl Sagan) che è la Terra vista dalla periferia del Sistema Solare e oggi, a 20 miliardi di chilometri di distanza da noi, è l’oggetto artificiale più lontano. E già qualcuno progetta di andare a vela - spaziale - verso Alpha Centauri, più di 4 anni luce da percorrere in una ventina d’anni (è l’idea del miliardario russo Yuri Milner, sostenuta da Stephen Hawking). Il bello delle frontiere dell’universo è che sono sempre in movimento.


astrofisica / 2

Nell’oscurità dell’Universo

di Patrizia Caraveo (Il Sole-24 Ore, 24.09.2017)

      • Andrea Cimatti, L’universo oscuro, Carocci, Roma, pagg.172,€ 14

Uno dei risultati più spettacolari dell’astrofisica del secolo scorso è stata la scoperta dell’espansione dell’Universo. La conosciamo come legge di Hubble ma è la somma del lavoro di molti, primo fra tutti l’abate Lemaitre. Tuttavia fu Hubble a costruire il semplicissimo grafico dove riportava su un asse le distanze delle galassie e sull’altro le loro velocità. Era il 1929 e, con poche decine di galassie osservate in modo approssimativo, Hubble seppe intuire una profonda verità: le galassie sembravano allontanarsi con una velocità che è proporzionale alla distanza. Quelle più lontane si muovono con velocità sempre più grandi. In effetti, oggi sappiamo che è lo spazio che si espande e le galassie non possono fare altro che seguire questo moto universale. Ad Einstein non piacque per niente e ci mise del tempo ad accettare questo fatto.

L’esistenza dell’espansione ha implicazioni profondissime perché ci dice che l’Universo ha avuto un inizio, quando lo spazio ha iniziato a crescere e il tempo ha cominciato a scorrere. Stiamo parlando di uno dei pilastri della cosmologia moderna: nessuno dubita della sua veridicità ma ci sono state dispute infinite sull’entità dell’espansione. La proporzionalità tra velocità e distanza è un aiuto fondamentale per gli astronomi che, data una quantità, possono ricavare l’altra. Infatti, mentre la distanza di un oggetto celeste è notoriamente difficile da misurare, la sua velocità può essere stimata direttamente misurando lo spostamento delle righe presenti nello spettro della luce che emette. La conoscenza precisa della costante di proporzionalità, la famosa costante di Hubble, è quindi di fondamentale importanza.

I cosmologi, scherzosamente descritti come una genia di scienziati often in error, never in doubt (spesso in errore, mai in dubbio) si sono insultati sanguinosamente per decenni a proposito dell’esatto valore della costante che, legando velocità e distanza, ha le dimensioni di una velocità (km al sec) diviso una distanza (che gli astronomi misurano in Megaparsec).

Sbagliando clamorosamente, Hubble stimò il suo valore in 500, cosa che implicava che l’universo avesse poco più di 2 miliardi di anni, un’età inferiore a quella delle stelle più vecchie che conosciamo. Quando entrò in funzione il telescopio di Monte Palomar, la qualità dei dati migliorò decisamente e il valore scese, ma non in modo univoco. La comunità astronomica si divise tra coloro che sostenevano che la costante di Hubble fosse 100 e quelli che preferivano il valore di 50. Ci sono voluti lunghi programmi dedicati dello Hubble Space Telescope, coordinati con tenacia da Wendy Freedman, per ridurre gli errori e sedare gli animi, facendo convergere i valori al numero magico di 72, recentemente aggiornato a 73,24.

La pace cosmologica ha avuto vita breve perché, nel frattempo, era stato sviluppato un modo indipendente di calcolare la costante di Hubble partendo dalle mappe del rumore cosmico di fondo, quello che resta del primo vagito dell’Universo. E’ una mappa molto importante perché contiene informazioni preziose sulla geometria dell’Universo che è direttamente legata alla massa totale. È esaminando la mappa del fondo cosmico che abbiamo capito che siamo azionisti di minoranza in un Universo dominato da componenti ignote, quindi oscure. Le stelle, le galassie e tutto ciò che è fatto della materia della quale siamo fatti noi arriva a malapena al 5% del totale della materia che viene mappata dalla geometria. Il 25% è dovuto a materia che pesa ma non sappiamo cosa sia, mentre il restante 70% è oscuro di nome e di fatto.

Il satellite europeo Planck, forte della mappa più precisa mai ottenuta del rumore di fondo del cielo, ha assegnato alla costante di Hubble il valore di 67,8. Gli errori di misura sono molto piccoli e la differenza tra 73,24 e 67,8 non può essere ignorata. Visto che si tratta di valori ottenuti da due gruppi indipendenti utilizzando dati completamente diversi, è legittimo chiedersi se non ci sia qualche errore nascosto nell’analisi dei dati, errore che deve essere sottile perché è sfuggito a innumerevoli verifiche.

I planckiani sostengono che l’errore l’hanno fatto gli ottici e dicono che riprenderanno in mano tutti i dati dello Space Telescope per rifare l’analisi dall’inizio. Wendy Freedman, invece, confessa che sperava di potersi occupare di qualche altro problema, ma non si tira certo indietro. Così progredisce la scienza. D’altro canto, è possibile che entrambi i gruppi abbiano ragione e che sia invece l’espansione e giocare qualche brutto scherzo, obbligandoci ad esplorare nuovi orizzonti. Dopo tutto, lo Hubble Space Telescope misura l’espansione in epoche “recenti” mentre Planck la misura quando l’Universo aveva appena 380mila anni, un’inezia rispetto ai 13,7 miliardi di anni attuali.

Se accettiamo questa visione, ci troveremmo a vivere in un Universo che ha premuto sull’acceleratore. Dal momento che, per accelerare qualcosa bisogna spingere, cosa potrebbe fornire l’energia necessaria? Il pensiero va subito alla parte più misteriosa del nostro Universo, che è anche la parte maggioritaria, quella che noi chiamiamo energia oscura. Variando la quantità dell’energia oscura in funzione dell’età dell’Universo si potrebbe spiegare la differenza nelle misure ottenute in diverse epoche. Giusto quello che ci voleva per ravvivare il fuoco che covava sotto le ceneri e fare ripartire le dispute tra i cosmologi.

Se vi siete persi nell’oscurità di questa affascinante storia, potreste trovare uno spiraglio di luce nel libro l’Universo Oscuro di Andrea Cimatti che ha fatto prodigi di valore per rendere comprensibile un argomento veramente difficile. Con un linguaggio molto chiaro, di chi si è spesso trovato a spiegare queste tematiche al grande pubblico, Andrea parte dalla contemplazione di una notte stellata per arrivare a fare apprezzare al lettore la complessità del sistema che noi ammiriamo e cerchiamo di capire. Ci sfugge il 95% di ciò che lo compone, ma ci stiamo lavorando.


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