L’analisi
I call center delle cattedre
di CHIARA SARACENO *
La scuola non può continuare a funzionare facendo conto largamente su insegnanti precari, il cui contratto è rinnovato annualmente (quando va bene), senza nessuna garanzia non solo per la continuità del rapporto di lavoro ma anche per la continuità didattica.
E per la possibilità di sviluppare progetti formativi di medio-lungo periodo. Se le cifre presentate ieri dal ministro Gelmini - 200.000 precari a fronte di 700.000 con cattedra di ruolo - sono giuste, segnalano un sistema organizzativo che affida il proprio funzionamento per quasi un terzo a rapporti di lavoro, ma anche e soprattutto formativi, senza continuità. È peggiore di quanto avviene nell’industria e si avvicina alla situazione dei call center. Salvo che ciò che produce la scuola non sono automobili o lavatrici, e neppure servizi di informazione. E gli studenti non sono pezzi da assemblare su una catena di montaggio, o clienti cui dare qualche informazione preconfezionata o da smistare ad un altro numero.
Se gli studenti italiani rendono meno in media della maggioranza dei loro coetanei degli altri Paesi, forse è anche per questo: sono più esposti ad un turnover sistematico di docenti, a loro volta poco incentivati ad investire nel conoscere meglio i propri studenti, nel trovare formule di insegnamento efficaci. Perché un anno sono in un posto, l’anno dopo, se va bene, in un altro. Ha ragione quindi la ministra a dire che la situazione non è più tollerabile. Ma ha torto sia nelle cause che individua per questo rapporto abnorme tra precari e regolari, sia nella soluzione che ha trovato, ovvero mandarli a casa con un’operazione di licenziamento (di fatto, anche se formalmente si chiama mancato rinnovo) di proporzioni enormi, che coinvolge, tra l’altro, soprattutto donne.
Se la massa degli insegnanti precari è cresciuta a dismisura, non è innanzitutto, come invece sostiene Gelmini, perché si è fatto un uso clientelare e assistenziale delle supplenze. Piuttosto, analogamente a quanto avviene nell’industria, i vari governi che si sono succeduti hanno trovato comodo, anche con la complicità dei sindacati, utilizzare le supplenze come tappabuchi organizzativi, anziché procedere ad una seria programmazione del reclutamento e della mobilità degli insegnanti. Per cominciare a sciogliere questi nodi occorre innanzitutto distinguere i due aspetti della questione: quello dell’organizzazione scolastica e in particolare della offerta formativa, e quello dei lavoratori che dopo anni di precariato di colpo si trovano senza lavoro.
A sentire le parole della Ministra, sembra che la riduzione del numero degli insegnanti avrà l’effetto miracoloso di rafforzare la qualità dell’insegnamento. Se è vero che la situazione precedente era lontana dall’essere soddisfacente, non è chiaro tuttavia come la riduzione tout court degli insegnanti possa di per sé produrre effetti positivi. Insieme alla razionalizzazione delle risorse e alla riduzione degli sprechi, occorre procedere a una verifica sistematica dei problemi formativi e delle loro cause.
Ad esempio, i risultati del test INVALSI confermano la necessità di un fortissimo investimento nei servizi educativi il più precocemente possibile e per un tempo scuola di qualità ampio, per contrastare handicap sociali e ambientali. Invece le regioni meridionali sono quelle in cui ci sono meno nidi di infanzia, in cui le scuole materne sono spesso ancora a tempo parziale e il tempo pieno alle elementari è pochissimo diffuso. Analogamente, i più alti tassi di fallimento scolastico negli istituti tecnico-professionali (frequentati di norma dai figli delle classi sociali più modeste) rispetto ai licei dovrebbero indurre non solo a un rimaneggiamento delle materie, come è avvenuto con la riforma delle superiori, ma ad una politica di sostegno ai processi di apprendimento.
Tutto ciò non risolverebbe automaticamente la questione dei precari che rischiano di perdere il loro posto di lavoro, anche se in parte ne conterrebbe il numero, avviando un percorso di regolarizzazione che li faccia uscire, appunto, dalla precarietà. Tuttavia, se non tutti possono essere assorbiti, il ministero, lo Stato, non può lavarsene le mani come se non fosse un problema da esso stesso creato. L’accesso a un incarico annuale non è un diritto. È, dovrebbe essere, un diritto, un sostegno al reddito decente e l’accesso a opportunità di ricollocamento.
È vero che ci sono problemi di bilancio. Altri Paesi tuttavia, pur con performance scolastiche migliori, hanno tagliato su molte cose, ma hanno aumentato le risorse per la scuola, intendendole come investimento nel futuro. Da noi invece si taglieranno un po’ di stipendi per pagare la carta igienica.
* la Repubblica, 03 settembre 2010