Il labirinto dell’universo
Quel che resta ancora da decifrare
Pubblichiamo un intervento di Piergiorgio Odifreddi che domani sarà al Festival delle Scienze per presentare il concerto "Helicopter", musiche di Karlhein Stockhausen
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 17.01.2009)
Quale popolo, o quale cultura, non ha avuto la pretesa di spiegare l’intero universo? Ma quale popolo, o quale cultura, ha avuto gli strumenti per farlo? Gli antichi si sono dovuti accontentare della poesia, e agli albori del pensiero occidentale gli Ionici e gli Eleatici si cimentarono in svariati poemi invariabilmente intitolati Sulla natura, iniziando una tradizione che continuò coi fisici posteriori, da Empedocle e Anassagora a Democrito ed Epicuro, e culminò nel De rerum natura di Lucrezio.
Nonostante le loro grandiose visioni letterarie, indotte dai loro frammenti o dedotte dai loro canti, quei poemi lasciarono la natura delle cose velata come la ninfa Calipso, in attesa di essere svelata da strumenti più perspicaci delle parole. Dal telescopio, ad esempio, che esattamente quattrocento anni fa, nella primavera del 1609, Galileo puntò verso il cielo per ricavarne le visioni annunciate l’anno seguente nel Sidereus Nuncius. O dal microscopio, che fu invece Robert Hooke a usare in maniera analoga per ottenere visioni altrettanto sorprendenti del microcosmo, annunciate a loro volta nel 1665 dalla sua Micrografia.
Naturalmente, gli strumenti sono necessari per espandere i sensi oltre le loro limitatissime estensioni, e renderli più adeguati all’osservazione dell’universo in grande e in piccolo. Ma le osservazioni non sono sufficienti per descrivere, e meno che mai per spiegare, ciò che viene osservato: è necessario sostenerle ed esprimerle con un pensiero e un linguaggio adeguati, spesso di nuovo conio.
Un esempio superficiale sono appunto le parole «telescopio» e «microscopio», che suggeriscono direttamente la visione (skopein) lontana (tele) o in piccolo (micro) permessa da quegli strumenti: esse furono inventate da due membri dell’Accademia dei Lincei, rispettivamente Giovanni Demisiani nel 1611 e Johann Faber nel 1625, per sostituire gli inadeguati termini «cannone» (o «cannocchiale») e «occhiolino» usati da Galileo.
Un esempio profondo sono invece i concetti e i risultati della nuova matematica del Seicento, principalmente la geometria analitica di Cartesio e l’analisi infinitesimale di Leibniz e Newton, che permisero a quest’ultimo di organizzare le osservazioni e le intuizioni di Galileo e di Keplero in una coerente teoria meccanica, codificata nel 1687 nei monumentali Principi matematici della filosofia naturale: un’opera che, fin dal suo programmatico titolo, affida al linguaggio matematico il compito di descrivere il pensiero sulla natura.
L’idea non era nuova, perché già Pitagora aveva intuito il legame fondamentale tra natura e matematica. Ma per lui il rapporto era indiretto e veniva mediato dalla musica, i cui rapporti armonici potevano essere da un lato descritti da rapporti numerici, e dall’altro generati da rapporti fisici: nel senso, ad esempio, in cui un intervallo di ottava corrisponde al suono di due corde di lunghezza una doppia dell’altra, o di due martelli di peso uno doppio dell’altro. Le metafore fondamentali del pitagorismo si rifanno dunque alla musica, e cantano l’Armonia del Mondo o la Musica delle Sfere.
Fu Galileo a introdurre nel 1623, in una famosa pagina del Saggiatore, una metafora nuova e più consona allo spirito della nuova scienza: l’immagine, cioè, della matematica come linguaggio in cui è scritto «questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’Universo)». Un’immagine, questa, che è singolarmente simmetrica, persino nella struttura tipografica, a quella altrettanto famosa di Borges nell’apertura del suo racconto La Biblioteca di Babele: «L’universo (che altri chiama la Biblioteca)».
Nei suoi quattro secoli di vita, la scienza moderna si è impegnata a fondo nella decifrazione del grande libro della Natura, armata degli strumenti tecnologici e matematici che le permettono di leggerlo e di comprenderlo. E ha raggiunto successi memorabili, coronati nell’Ottocento dall’elettromagnetismo di Maxwell e l’evoluzionismo di Darwin, e nel Novecento dalla relatività di Einstein, la meccanica quantistica di Heisenberg e Schrödinger, la quantoelettrodinamica di Feynman, Schwinger e Tomonaga, l’unificazione elettrodebole di Glashow, Salam e Weinberg, la quantocromodinamica di Gross e Wilczek, la scoperta della struttura del Dna di Watson e Crick, la decodifica del codice genetico di Nirenberg e la sequenziazione del genoma umano di Collins e Venter.
Anzi, le comprensioni globali e di dettaglio sono state così profonde, e le loro ricadute tecnologiche e culturali così diffuse, che la nostra può a buon diritto esser definita l’Era della Scienza. Semmai, viene da chiedersi che cosa rimanga ancora da decifrare e da capire, prima di poter chiudere il grande libro e riporlo nello scaffale. E la risposta potrebbe essere, in ordine decrescente di grandiosità: i tre grandi problemi dell’origine dell’Universo, della vita e della coscienza.
Non sorprendentemente, questi sono esattamente i tre momenti sui quali si concentra l’interesse degli spiriti religiosi, che si accontentano al riguardo dell’uniforme pseudospiegazione dell’intervento divino: «pseudo», perché in fondo postulare che Dio è la causa di qualcosa non è altro che un modo diverso di dire che non sappiamo quale ne sia la causa, e non aggiunge assolutamente nulla di preciso e utile alla sua conoscenza. Anche se, come notò Russell nell’Introduzione alla filosofia matematica, «postulare ciò che desideriamo ha molti vantaggi: gli stessi del furto nei confronti del lavoro onesto».
La scienza non si accontenta, dunque, e continua il suo onesto lavoro verso la soluzione di quei tre problemi, che appare sempre più a portata di mano. L’origine dell’Universo attende la formulazione definitiva della Teoria del Tutto, in grado di coniugare la cosmologia relativistica e l’atomismo quantistico, e il suo miglior candidato sembra essere la popolare teoria delle stringhe di Witten.
Sull’origine della vita non c’è una proposta che goda di un analogo consenso, ma l’esistenza di molte alternative dimostra che il problema è maturo per una soluzione. Tra l’altro, proprio lo scorso 8 gennaio Tracey Lincoln e Gerald Joyce hanno pubblicato su Science l’annuncio della scoperta di enzimi dell’Rna che si replicano autonomamente: un esempio di qualcosa che non è ancora vita, ma ne ha già alcune proprietà tipiche.
Quanto all’origine della coscienza, la relativa novità delle neuroscienze e dell’informatica lascia prevedere un cammino ancora lungo, ma già promettente. E tutti insieme questi sviluppi permettono agli scienziati di continuare a professare il motto del grande matematico David Hilbert, che sta inciso sulla sua tomba: Wir müssen wissen, Wir werden wissen, «Dobbiamo sapere, e sapremo».