Galileo e le chiavi del cielo
Vetro, ferro, cuoio per viaggiare dentro l’universo
di Daniele del Giudice (la Repubblica, 22.02.2009)
L’Onu ha proclamato il 2009 Anno internazionale dell’Astronomia per ricordare le grandi scoperte dello scienziato pisano in quel passaggio cruciale che fu il 1609. Ora una mostra a Firenze permetterà di ammirare gli strumenti da lui inventati o perfezionati per potenziare il senso che gli uomini preferiscono: quello della vista, "perché procura più conoscenza e rende manifeste le differenze tra le cose"
A Venezia seppe di un occhiale di produzione olandese "col quale le cose lontane si vedevano come se fussero molto vicine", se lo procurò ma non lo trovò sufficiente: quelle macchine rozze gli sembravano giocattoli. Fu così che cominciò la sua metamorfosi da insegnante di matematica a industriale dell’ottica
Nel 1611 fabbricò un micrometro per misurare la distanza tra Giove e i suoi satelliti. Lo offrì al re di Spagna e per convincerlo che l’osservazione del pianeta era possibile anche in condizioni di instabilità, creò lì per lì un altro attrezzo: il celatone
Galileo Galilei (Pisa 1564-Arcetri 1642) pensava all’universo come a un «concetto immenso e pieno di filosofia, astronomia e geometria», come scrive nella lettera a Belisario Vinta datata 7 maggio 1610. Un immenso che l’esperienza dei sensi, sensata esperienza, può rivelare se non è «cieca» ma illuminata dalle dimostrazioni necessarie e da una teoria sulle cause dei fatti osservabili. L’universo è un immenso che tuttavia, a dispetto di questo nome, è misurabile con strumenti adeguati.
Galileo non apprezzava gli aristotelici dei suoi tempi, filosofi in libris, che davano troppa importanza all’aspetto qualitativo e osservavano la natura controvoglia come se l’osservare fosse un passatempo ozioso e inconcludente. Anziché misurare con il saggiatore, la bilancia di precisione che serve agli orefici per pesare la polvere d’oro, usavano la grossolana libra, la stadera, e con quella pesavano anche le opinioni proprie e altrui. Era il caso del gesuita Orazio Grassi che gli rivolse una Disputatio astronomica sulle comete e poi, sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi, gli indirizzò la Libra astronomica alla quale Galileo rispose appunto con Il Saggiatore, nel quale con bilancia squisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra. Lotario Sarsi parlava di uova, fionde e Babilonesi. Galileo annotò: «Se il Sarsi vuole ch’io creda che i Babilonii cocesser l’uova col girarle velocemente nella fionda, io lo crederò, ma a noi questo non succede [...]. Ora, a noi non mancano uova, né fionde, né uomini robusti che le girino, e pur non si cuocono [...]. E poiché non ci manca altro che l’esser di Babilonia, adunque l’esser Babilonii è causa dell’indurirsi delle uova, e non l’attrizione dell’aria». Galileo non apprezzava gli aristotelici ma non poté non subire il noto assunto che apre la Metafisica: gli uomini preferiscono il senso della vista perché procura più conoscenza e rende manifeste le molte differenze tra le cose. E Galileo voleva vedere.
In gita a Venezia nel 1609 seppe di un occhiale di produzione olandese «col quale le cose lontane si vedevano come se fussero molto vicine», se lo procurò ma non lo trovò sufficiente, quelle macchine rozze gli sembravano dei giocattoli per bambini, e allora prese contatto con gli occhialai e poi con i maestri vetrai di Murano e imparò a fabbricare lenti e a combinarle tra loro nel modo più utile, sottoponendosi di buon grado ad una metamorfosi abbastanza coerente, da insegnante di matematica nell’Università di Padova - dove rimase diciotto anni, fino al 1608, insegnando con poca convinzione il sistema tolemaico - a industriale dell’ottica.
Andava a fare la spesa e nella lista (come quella annotata su una lettera di Ottavio Brenzoni del 23 novembre 1609 conservata nella Biblioteca Centrale di Firenze) scriveva ceci, farro, zucchero, pepe, chiodi di garofano e cannella, e di seguito pezzi di specchio, ferro da spianare e altri materiali utili ad allestire un laboratorio ottico. Si confezionò da sé degli "occhialetti" sempre più raffinati che ingrandivano fino a venti o trenta volte più di quelli olandesi, una lente da miope per oculare e una da presbite per obbiettivo, e il telaio in legno o in pelle.
Ne fabbricò in grandi quantità, così numerosi che qualche esemplare lo esportò; ne inviò uno all’Elettore di Colonia e questi, un uomo molto colto, dopo aver esclamato «Vicisti, Galilaee!» come l’imperatore Giuliano l’Apostata, lo prestò a Keplero. Senza quel cannocchiale Keplero non avrebbe potuto osservare le ultime novità celesti. E anche Giovan Battista della Porta, che dal 1589 tentava di costruire un cannocchiale a Venezia dopo averlo teorizzato nel Magia naturalis, riconobbe la superiorità di Galileo; se il 28 agosto 1609, in una lettera all’insigne naturalista Federico Cesi che si era fatto promotore della nomina di Galileo all’Accademia dei Lincei, aveva scritto del cannocchiale: «L’ho visto, et è una coglionaria, presa dal mio libro De Refractione», l’anno seguente dichiarò ancora a Cesi che l’invenzione era sua ma Galileo «l’have accomodata e ha trovato [�] gran cose che empiscono il mondo di stupore».
Galileo battezzò i suoi nuovi cannocchiali "telescopi" perché gli permettevano di vedere oggetti distanti, li puntò verso il cielo e osservò per la prima volta i crateri lunari, le stelle della Via Lattea, e nel 1610 i primi quattro satelliti di Giove, Cosmica Sidera, nome che in breve gli dispiacque e che sostituì con Medicea Sidera. Queste scoperte, immediatamente divulgate nel Sidereus Nuncius (Venezia 1610), le dedicò a un suo allievo, Cosimo II di Toscana. E Cosimo lo invitò a Firenze come primario matematico e filosofo del granducato, e gli permise la tanto desiderata dispensa dall’insegnamento, che Galileo non amava per nulla. Le lezioni pubbliche o private erano una schiavitù cui si piegava solo per saldare i debiti, e la presenza di dozzine di studenti in casa sua come ospiti paganti lo contrariava, violava la sua intimità.
Tanto più che proprio uno studente, tale Baldassarre Capra discepolo dell’astronomo tedesco Simon Mayr, Simone Mario, forse per compiacere il suo maestro si era dichiarato nel 1607 l’inventore del compasso geometrico e militare, uno strumento efficace in astronomia e in agrimensura come in balistica e topografia (tra l’altro permetteva di determinare con discreta esattezza l’altitudine di monti inaccessibili) al quale Galileo lavorava dal 1597 e che aveva dedicato allo stesso Cosimo II nel 1606. Il compasso sfruttava la proporzionalità tra i lati omologhi di due triangoli ed era composto di due bracci imperniati su un disco detto nocella, un quadrante, e un cursore infilato in uno dei due bracci, detto zanca, che Galileo maneggiava con le dita, ivi compreso il dito medio attualmente visibile nelle sale dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze; quel dito, esempio della venerazione tributata al Pisano quale eroe della scienza, venne tolto ai suoi resti mortali da Anton Francesco Gori nel 1737, quando la salma fu traslata al sepolcro monumentale nella Basilica di Santa Croce.
Galileo pubblicò una Difesa contro alle calunnie et imposture di Baldessar Capra Milanese, gli intentò un processo e lo vinse. Giunto a Firenze, donò la lente oculare del suo miglior cannocchiale a Ferdinando II, figlio di Cosimo, ma il giovane o chissà chi altro la ruppe accidentalmente. Allora gli fece omaggio di qualcosa di più solido, una calamita, per di più "armata" cioè imbrigliata con una fascetta di ferro posizionata in modo tale da moltiplicare la forza di attrazione del magnete; con sole sei once di peso quella calamita sollevava «quindici libbre di ferro lavorato in forma di sepolcro», come riferì il monaco Benedetto Castelli, matematico e fisico, nel suo Discorso sopra la calamita. A Cosimo il dono piacque moltissimo.
Galileo voleva guardare e misurare i triangoli, i cerchi e le altre figure geometriche che formano l’alfabeto del cosmo, tentava di decifrare il libro della natura per imparare la sua lingua e discorrere con l’universo dei rapporti di quantità che sono la sua struttura. Aveva un grande ideale che era quello della misura come criterio dell’oggettività, e non pensava piccolo o grande e vicino o lontano, ma piccolo o grande in relazione a un’unità di misura, vicino o lontano rispetto a un determinato punto, e così andava formulando il metodo della scienza moderna.
A Firenze continuò gli esperimenti sul termoscopio, progenitore dei termometri d’oggi, una piccola macchina che aveva ideato sul finire del Cinquecento, con la quale misurava le variazioni della densità atmosferica prodotte dalle variazioni di temperatura; si trattava di una caraffa di vetro con il collo molto lungo, sottile «come un gambo di grano», che lui riscaldava tra le mani e poi immergeva nell’acqua in posizione rovesciata e quando sottraeva alla caraffa il calore delle mani osservava l’acqua salire nel collo della caraffa. Continuò le osservazioni idrauliche; nel 1594 la Serenissima Repubblica di Venezia gli aveva rilasciato il brevetto per un sistema meccanico capace di azionare quattro pompe grazie al movimento di un solo asse.
Ma soprattutto continuò a studiare i periodi dei satelliti di Giove. Nel 1611 fabbricò un micrometro per misurare l’esatta distanza tra il pianeta e i suoi satelliti; offrì ripetutamente il micrometro insieme ai cannocchiali al re di Spagna (dal 1611 al 1628), e per convincerlo che l’osservazione del pianeta era possibile anche in condizioni di instabilità, ad esempio dal ponte di una nave, inventò lì per lì un altro strumento simile a una celata che per questo è conosciuto come celatone. E poiché il re di Spagna non apprezzò né il micrometro né il celatone provò con gli Stati Generali d’Olanda dove la sua proposta riscosse un certo interesse ma fu nuovamente rifiutata.
Sempre osservando i periodi dei satelliti di Giove Galileo mise a punto un proprio metodo per determinare la longitudine, dipendente dall’esatta misurazione del tempo cronologico. Era il 1637, correvano cinque anni dalla pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo che gli avrebbe causato il processo da parte del Sant’Uffizio, quando si accorse che due pendoli di uguale lunghezza oscillano alla medesima frequenza; applicò il pendolo all’orologio e immaginò un sofisticato congegno che illustrò nella Lettera a Lorenzo Realio. Quel congegno lo realizzò ad arte suo figlio Vincenzo Galilei, abile inventore di strumenti musicali, e una ventina d’anni più tardi, nel 1656, l’applicazione del pendolo all’orologio fu rivendicata da Christiaan Huygens, matematico, astronomo e fisico olandese autore del primo libro sulla teoria delle probabilità che non solo brevettò l’orologio a pendolo ma lo perfezionò con un bilanciere a molla, introdusse la molla a spirale negli orologi portatili e nel 1675 inventò l’orologio da taschino.
Nel 1633 fu chiamato a Roma, fu processato, e costretto ad abiurare le sue convinzioni scientifiche. Segregato ad Arcetri, l’anno seguente inviò a Leida i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze e poi si rassegnò a congedarsi poco a poco dalla sensazione che amava di più (come noi tutti, lo ha detto Aristotele) e infine morì cieco. Era stato uno dei pochi fautori di una scienza nuova, e quei pochi avevano ragione a dispetto dei molti. Come scrisse nel Saggiatore: «Poca più stima farei dell’attestazione di molti che di quella di pochi, essendo sicuro che il numero di quelli che nelle cose difficili discorron bene è minore assai che di quei che discorrono male. Se il discorrere circa un problema difficile fusse come il portare pesi, dove molti cavalli porteranno più grano che un cavallo solo, io acconsentirei che i molti discorsi facessero più che uno solo. Ma il discorrere è come il correre, e non come il portare. Ed un solo cavallo barbero correrà più che cento frisoni».