Il mistero della tomba del boss della Magliana nella chiesa si Sant’Apolilinare
Nel 1990 le sue spoglie arrivarono dal cimitero del Verano con procedura eccezionale
La salma di Renatino nella basilica
l’ultimo colpo del boss benefattore
di FILIPPO CECCARELLI *
"Quelli morti che sò de mezza tacca,/ fra tanta gente che se va a fà fotte,/ vanno de giorno, cantanno a la stracca/ verso la bùscia che se l’ha da ignotte"... Ora, secondo le classificazioni mortuarie di Giuseppe Gioachino Belli, Renatino De Pedis non era esattamente un morto di mezza tacca, lasciava ristoranti, locali notturni, boutique, negozi, società immobiliari e imprese edili, ma la buca ("bùscia") che ha finito per inghiottirselo in via definitiva appare da più di dieci anni del tutto incongrua alla sua storia di bandito - per quanto a Roma di banditi sepolti in chiesa ce ne stiano a iosa.
Il fatto - pare - è che quando si sposò, proprio lì a la "Pulinara", che sarebbe Sant’Apollinare, tra il serio e il faceto, come chi non vorrebbe disturbare un giorno di felicità, Enrico (così si chiamava veramente) disse alla sposa: "Sai, il giorno che mi tocca - si noti il pudore - mi piacerebbe essere portato qui". E così è stato, anche velocemente: dal Campo Verano, con un salto improvviso nella primavera del 1990 le spoglie del bandito passarono dal loculo del suocero all’ipogeo della basilica, con procedura eccezionale, senza investire cioè né il comune, né l’avvocatura di stato, né nessun altro al di fuori della Chiesa, che su certe cose, su certi luoghi, su certe scelte, non prende in considerazione l’idea di spiegarle, tantomeno si abbassa proprio a discuterle, e da secoli.
E così Renatino è ancora qui sotto, nella silenziosa frescura della cripta, sarcofago di marmo bianco, iscrizioni in oro e zaffiro, l’ovale della foto, e uno dei più straordinari misteri che sia dato immaginare nella città eterna, con l’aggravante del macabro, il cortocircuito della ragazza scomparsa e la quasi certezza che non si saprà mai cosa diavolo è accaduto in quella chiesa.
Il rettore di Sant’Apollinare spedì infatti la vedova dal Vicario di Roma, il cardinal Ugo Poletti, che non era esattamente uno sprovveduto, con una dichiarazione piuttosto impegnativa: "Si attesta che il signor Enrico De Pedis è stato un grande benefattore dei poveri che frequentano la Basilica e ha aiutato concretamente tante iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha dato particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi in particolare per la loro formazione cristiana e umana".
E su questo aureo certificato di benemerenza ha reso una parola definitiva, nella sua sublime ambiguità, il più romano, il più ecclesiale e anche il più disinvolto tra i politici: "Ecco, magari non era proprio un benefattore per tutti - scolpì Giulio Andreotti - Ma per Sant’Apollinare sì".
Come ogni buon sacerdote avveduto, Don Pietro Vergari, l’allora rettore amico dei De Pedis, volle rinforzare la soluzione con una ulteriore scrittura ( a suo tempo divulgata da Gianni Barbacetto sul Diario) che mostrava, insieme al decoro, anche la convenienza dell’operazione: "Il lavoro di sepoltura sarà fatta da artigiani e operai specializzati in questo settore che già hanno lavorato per la tumulazione degli ultimi Sommi Pontefici in Vaticano. Sarà questa anche l’occasione per risanare uno degli ambienti dei sotterranei, già luogo di sepoltura dei parrocchiani, da moltissimi anni lasciati in completo abbandono".
E di nuovo: "Il defunto è stato generoso nell’aiutare i poveri che frequentano la basilica, i sacerdoti e i seminaristi, e in suo suffragio la famiglia continuerà a esercitare opere di bene, soprattutto contribuendo nella realizzazione di opere diocesane". L’incongrua sepoltura si riseppe nel luglio del 1997, grazie al sindacato di Polizia. E poi dice che vengono a Roma da tutto il mondo: per vedere, per sognare, per illudersi di capire.
* la Repubblica, 25 giugno 2008.