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"La freccia ferma" (Elvio Fachinelli) e "La banalità del male" (Hannah Arendt). A "Regime leggero", verso la catastrofe...

IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI. Dal 1994 al 2008: "Gran brutta aria, regime ancora no"!!! La Rossanda e l’allarme di Umberto Eco. Un "aggiornamento" di Alessandra Longo - a cura di pfls

martedì 8 luglio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Lo scrittore Predrag Matvejevic, che ha conosciuto il regime croato di Tudjman e l’aria irrespirabile dei Paesi dell’Est, e ha ricevuto la cittadinanza italiana dal presidente Napolitano, tifa per un’Italia più reattiva: «Una democrazia a rischio può scivolare facilmente in quello che io chiamo "democratura" dove tutto sembra come prima, dove si proclama con forza il rito della democrazia ma, in realtà, è rimasto solo l’involucro» [...]
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI (...)

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> IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI. --- Sul "grande silenzio" di Asor Rosa, un intervento di Marcello Veneziani e di Ida Dominijanni

venerdì 9 ottobre 2009

Gli intellettuali tacciono? Non hanno niente da dire

di Marcello Veneziani ( il giornale. 08/10/2009

Ma non vi sfiora il sospetto che «il grande silenzio» degli intellettuali sia dovuto al fatto che non hanno più niente da dire? Si celebra in quest’autunno il trentennale della loro decadenza e il ventennale della loro caduta, insieme al Muro di Berlino. Da quel tempo si narra del silenzio degli intellettuali e del loro isolamento. Il pensiero muore con la fine della modernità, celebrata da Lyotard e poi da Vattimo trent’anni fa. La storia svanisce con il Muro di Berlino, vale a dire un ventennio fa, come scrisse allora Fukuyama. Lungo il secolo è stato tutto un susseguirsi di cannibalismi: il libro sopraffatto dal giornale, il giornale dalla radio, la radio dalla tv, la tv da internet e via dicendo. E così il teatro sopraffatto dal cinema e il cinema dal video e dalla musica rock. Via via la cultura si è ritirata a vita privata e gli intellettuali si sono fatti marginali.

A celebrare la loro scomparsa è venuto un brontosauro degli intellettuali organici «destinato all’estinzione», come egli stesso dice: Alberto Asor Rosa in un libro intervista con Simonetta Fiori (Il grande silenzio, appunto, uscito da Laterza, pagg. 181, euro 12). Barone rosso, ideologo del Pci e del ’68, accusato poi di essere il grande vecchio delle Br, autorevole critico letterario. A suo merito opere come Scrittori e popolo nel 1964, ed altri scorci autobiografici più recenti, compresa una confessione di nichilismo & apocalissi. A suo demerito il ruolo di cattivo maestro dell’operaismo che non disdegna la violenza purché «progressiva» (lo ribadisce anche in questa intervista); che non si smuove da un comunismo utopistico e settario che potremmo definire aristocomunismo (un altro autorevole compagno è Luciano Canfora, un altro è Leone de Castris, aristocratico anche dal profilo genealogico), nutrito di uno sprezzante manicheismo. Noi ne parliamo lo stesso, perché a differenza di Asor Rosa e degli intellettuali come lui, crediamo alla civiltà del dialogo e preferiamo leggerlo e criticarlo, anziché ucciderlo col silenziatore (a proposito di grande silenzio... ). Invece Asor Rosa preferisce cancellare o demonizzare il nemico.

Cosa emerge in questa intervista-congedo? La tesi vetero-operaista e vistosamente infondata che l’intellettuale nasce con il capitalismo; il rimpianto aristocratico delle vecchie élite del passato e della saldatura tra oligarchie e intellettuali; l’assurdo alibi che i comunisti restarono stalinisti a causa delle censure fasciste (i comunisti furono devoti a Stalin fino alla sua morte e oltre, diversi anni dopo la caduta del fascismo); l’asservimento totale della cultura al Pci, con storie di incredibile obbedienza al Partito: «Se Togliatti indicava una strada bisognava seguirla. Senza discussioni». E ancora: dopo alcune sue timide obiezioni un alto dirigente comunista tuonò: «Ci vogliono i campi di concentramento!». E obbligandolo a candidarsi, fu detto al Barone Prof. Asor Rosa: «In questo partito un iscritto non discute i deliberati della direzione. Ubbidisci e basta!». E l’illustre professore ubbidisce e «scatta sull’attenti come una recluta». Il bello è che Asor Rosa rimpiange quell’epoca: «Almeno un certo ordine c’era». L’ho sentito dire anche a vecchi fascisti.

Ma che credibilità potevano avere questi intellettuali così arroganti all’università e con chi non la pensa come loro e così servili e acriticamente ubbidienti con il Partito? A proposito del fascismo, Asor Rosa accetta di passare, come egli stesso dice, per «il più agguerrito neo-revisionista» arrivando a riabilitare il fascismo rispetto a Berlusconi. «Da tutti i punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo»; il fascismo, dice, era almeno dentro una tradizione nazionale, aveva un rapporto stretto con il risorgimento. Il berlusconismo no, svuota le idee dell’avversario e nega tutto, Resistenza inclusa, facendola propria. E vi risparmio la solita analisi sulla dittatura populistica o la democrazia totalitaria, che corrompe dentro e distrugge fuori. Torna antifascista quando dice che dietro il fascista più onesto c’era l’olocausto (che però quel fascista ignorava); ma dimentica di dire che dietro il partigiano comunista più onesto c’erano i gulag e un sistema totalitario che il fascismo solo si sognava... Obiezione elementare, ma vera.

Infine Asor Rosa si attacca ai prof, alla scuola, ai libri di testo ritenendoli - credo con ragione - l’ultima Stalingrado del comunismo e dintorni (lui dice «l’ultimo baluardo»). Ma non senza ammettere che il progetto comunista e sessantottino è fallito: «La quantità ha soffocato la qualità», fu cancellato il merito. Parole sagge dopo un magistero dissennato. Chiudendo il libro, torno al titolo e dico: ma gli intellettuali non sono stati ridotti al silenzio. Sì, siamo in una società di massa, volgare e mercantile, dove le idee e la cultura non contano, le merci prevalgono sui pensieri, gli intellettuali sbiadiscono. Però, quella poderosa corazzata che ha esercitato l’egemonia, dal ’68 in poi, quali opere memorabili ha prodotto negli ultimi trent’anni? Poco o nulla. Eppure aveva in mano il potere editoriale e culturale.

Ma non ricordo nessuna opera essenziale, nessun nuovo pensiero, nessuna grande fioritura. Tra le ultime opere notevoli, la dichiarazione di decesso del comunismo firmata da Lucio Colletti, comunista pentito, sul tramonto dell’ideologia. Poi il nulla. In filosofia, in letteratura, in cultura politica, in storia. Se qualcosa è emerso, oltre i ripescaggi del grande pensiero novecentesco, quasi tutto conservatore, reazionario e protofascista, è stato fuori e contro quell’egemonia della sinistra.

Da qui il sospetto che il grande silenzio degli intellettuali sia dovuto principalmente al fatto che non avevano più nulla da dire e quel poco che potevano dire, non hanno avuto il coraggio di dirlo. Ma gli intellettuali veri si misurano dalle opere, non dal potere che hanno. E obbediscono alla passione di verità, qualunque essa sia, non agli ordini del Partito. Perché poi, quando finisce il Partito, non sanno più cosa pensare e si limitano a inveire contro il primo Berlusconi che passa.


-  GLI INTELLETTUALI NELLA CIVILTÀ MONTANTE
-  PUNTO E A CAPO

di Ida Dominijanni (il manifesto, 08.10.2009)

Che ne è dell’intellettuale novecentesco nell’era dei massmedia e nell’evo di Berlusconi, quando si rompe il rapporto fra politica e cultura e il capitalismo postfordista cancella operai e borghesia. «Il grande silenzio», intervista ad Alberto Asor Rosa curata per Laterza da Simonetta Fiori

«Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d’Italia. Più del fascismo? Inclino a pensarlo». Così Alberto Asor Rosa il 4 giugno 2008 su questo giornale, non senza scandalo. Quel giudizio e le sue ragioni ricompaiono ora ne Il grande silenzio, la sua lunga intervista sugli intellettuali che Simonetta Fiori ha raccolto per Laterza (giocando, va subito detto, un ruolo tutt’altro che secondario nell’andamento del discorso). Ai tre criteri di misura che in quell’articolo motivavano quel giudizio - senso dell’unità nazionale, rapporto fra cittadini e istituzioni e fra presente e tradizione - se ne aggiunge dunque un altro, lo stato in cui versa la questione degli intellettuali nell’«evo berlusconiano», stato che a sua volta riporta all’analisi della «civiltà montante» massmediatica e globalizzata in cui viviamo. La diagnosi del presente è l’approdo e non l’inizio dell’intervista, che per tre quarti procede lungo un asse di ricostruzione storica della questione nella vita della Repubblica; ma è lecito partire da qui, credo, e poi andare a ritroso, perché Asor Rosa è l’incarnazione della funzione intellettuale incardinata sul rapporto fra politica e cultura che nel libro mette a fuoco, e dunque è il problema tutto politico del «che fare oggi» che lo muove e lo tormenta, pur mentre di quella funzione dell’intellettuale politico decreta l’estinzione. Che fare dunque oggi, e com’è fatta la «civiltà montante»? A fronte della nitidezza della panoramica sul passato, qui lo sguardo si fa più esitante, e perciò più stimolante. Non per quello che riguarda il giudizio politico su Berlusconi, che è nettissimo: «il prodotto finale di una lunga decadenza del sistema liberaldemocratico», che persegue, facendo tabula rasa della storia nazionale dal Risorgimento alla Resistenza alla Costituzione, «un assetto politico-istituzionale di tipo monocratico», forte della «devastante anomalia» che unisce in lui «il padrone dell’immaginario collettivo e il dominus della cosa pubblica». L’esitazione riguarda piuttosto l’epoca che al berlusconismo fa da cornice, la «civiltà montante», appunto, dei massmedia. Della quale, dice Asor, «mi rendo conto di essere portato a cogliere più gli aspetti negativi che quelli positivi», e tuttavia «il grande dilemma è se il nuovo Moloch porti con sé valenze positive che il vecchio sguardo non è in grado di cogliere».

Totalitarismo democratico Proviamo dunque ad addentrarci nel dilemma a partire dagli aspetti negativi: omologazione intellettuale, appiattimento dell’immaginario, prevalenza del criterio commerciale su quello culturale; metafisica dell’apparire contro l’essere; rappresentazione della realtà secondo il gradimento dell’audience; assolutizzazione della verità contro il giudizio critico, che invece «non si fonda su verità assolute ma sul senso del relativo»; epidemia dilagante di quella «peste del linguaggio» che Italo Calvino denunciava nelle sue indimenticabili Lezioni americane. Lucidamente Asor Rosa ne trae le conclusioni per i destini non solo dell’intellettuale - «la funzione intellettuale tradizionale, fondata su spirito critico, spiccata individualità, riconoscibilità pubblica, appare inesorabilmente destinata al tramonto» - ma della stessa democrazia: «E’ una fenomenologia non immune da inclinazioni totalitarie, nel senso che le sue conseguenze, seppure ottenute con mezzi radicalmente diversi, non sono dissimili dall’appiattimento voluto e praticato con strumenti coercitivi dal totalitarismo novecentesco: omogeneità di giudizio, conformismo di massa, uniformità dei consumi». La diagnosi è giustamente spietata, in linea con altri contributi (Tronti, Cacciari, Badiou, Rancière, Nancy) che sfidano il fondamentalismo della fede nella democrazia oggi imperante strappando all’homo democraticus la maschera di sovranità e autodeterminazione che ne copre dipendenze e manipolabilità. Ma Asor Rosa diffida delle sue tentazioni catastrofiste, e di fronte a queste derive del presente vorrebbe piuttosto ritrovare la capacità marxiana («sono forse l’unico al mondo che ha letto tutto Marx e tutto Dante, virgole comprese») di cogliere non solo la distruttività ma anche la carica innovatrice dell’ingranaggio capitalista, per capire come smontarlo e come sovvertirlo. Eccoci dunque al dilemma di poco fa: dove trovare nel Moloch della «civiltà montante» le valenze positive su cui fare leva per il «che fare»? Lasciamo sospesa la domanda e procediamo all’indietro, sulle tracce di quella figura dell’intellettuale novecentesco che oggi rischia l’estinzione come , scherza Asor, i dinosauri che pretendevano di restare uguali a se stessi in presenza di un mutamento ciclopico del clima e dell’ambiente. Con ogni evidenza, nel ritratto che Asor Rosa ne traccia, l’intellettuale novecentesco è figura del rapporto fra politica e cultura. Di un rapporto non organico - Asor conferma qui la sua distanza da Gramsci - bensì critico, ma comunque strettissimo e imprescindibile. Fuori da questa posizione schierata, partigiana e militante, quella figura svanisce o nell’isolamento individualista dell’uomo di cultura o nell’opportunismo degli «apoti», quelli che oggi come nell’Italia prefascista e fascista non si schierano né di qua né di là, avallando di fatto il potere costituito. Invece, «da Max Weber fino a Bobbio l’intellettuale è quello specialista che traduce le proprie competenze in un discorso di carattere generale, e lo usa come strumento per cambiare le istituzioni, la politica, la società, talvolta l’antropologia circostante». Presente sia a destra che a sinistra, a destra l’intellettuale viene cancellato dal totalitarismo fascista e nazista, mentre a sinistra sopravvive in forme eretiche al totalitarismo comunista. La sua storia è intimamente intrecciata quindi con la storia della sinistra. Di questo inteccio Asor Rosa fornisce un resoconto completo e convincente, ripercorrendone tutti gli snodi princiali: il trauma del ’56 e la crepa che aprì nell’ortodossia comunista, il riformisnmo del primo centrosinistra, il ciclone degli anni Sessanta («il deprezzamento del ’68-’69 fa parte integrante del clima degradato di questi nostri giorni»), la stagione del consenso intellettuale più vasto, ancorché tutt’altro che compatto, al Pci berlingueriano fra il ’72 e il ’78, il «dramma» del ’77 (organizzare la visita di Lama alla Sapienza fu «un clamoroso errore»), il terrorismo e l’assassinio di Moro, la «mutazione morfogenetica» del Psi craxiano in macchina di potere, infine la svolta del Pci nell’89. L’impronta spiccatamente autobiografica aggiunge verità al racconto, punta su alcuni momenti peculiari (l’esperienza delle riviste operaiste negli anni Sessanta, quella di Laboratorio politico negli Ottanta), ne chiarisce altri (la rottura fra Asor, allora direttore di Rinascita, e Occhetto, non tanto sul che cosa quanto sul come della svolta: «La verità è che mi sentii tradito. L’operazione di Occhetto, inattesa e fulminea, improvvisata ed estemporanea, era passata come un ciclone sul lavoro culturale condotto in quegli anni insieme»), invita a un confronto con vissuti e giudizi diversi su altri momenti ancora (il ’77, ad esempio). Ma più che insistere sulla storia dei decenni passati, è sul suo esito che il libro ci sospinge, e ci inchioda. Sull’esito - il «più del fascismo» da cui siamo partiti, e al suo cospetto «il grande silenzio» degli intellettuali italiani o di ciò che ne resta - gravano tre processi incrociati. In primo luogo l’impoverimento della politica, dagli anni Ottanta sempre più autoreferenziale e incapace di ascoltare l’apporto di specialismi e voci critiche. In secondo luogo il cambiamento della composizione di classe della società: se l’intellettuale novecentesco si definisce nel suo rapporto con la borghesia o, dove questo spostamento si è dato o è stato tentato, con la classe operaia, un rapporto dello stesso tipo non pare ad Asor ripetibile nel panorama sociale senza classi del postfordismo. In terzo luogo, la furia di cancellazione delle radici storiche e delle tradizioni politiche che imperversa - coltivata da ondate successive di revisionismo - su tutta la scena pubblica italiana: a destra, dove vige «l’ideologia onnivora del presente» di Berlusconi, ma anche a sinistra, dove dopo l’89 hanno trionfato o una autocritica liquidatoria della tradizione (tanto più zelante proprio negli intellettuali che le erano stati più organici) o una sua riaffermazione acritica.

Zone di resistenza Ma se è così, è dall’interno di questa stessa diagnosi che si possono trovare i punti di leva per il «che fare» che Asor Rosa lascia aperto. Lasciamo perdere l’appello a una qualche riforma o a un qualche risveglio della politica ufficiale, che il ceto politico attuale non sembra in grado di recepire, e guardiamo piuttosto alle «zone di resistenza» da cui lo stesso Asor invita a ripartire, indicandone una nella scuola pubblica e nell’università, a suo giudizio corrose ma non distrutte dalla decadenza degli ultimi decenni. In questa ricerca delle zone di resistenza può essere proprio il panorama sociale postfordista di cui Asor Rosa diffida a venirci in soccorso, se è vero com’è vero che uno dei suoi tratti distintivi è proprio la crescita esponenziale di una intellettualità diffusa, diversa per composizione sociale dall’intellettuale novecentesco, priva delle (e distante dalle) sue forme di mediazione politica nonché linguistica, e tuttavia non riducibile all’omologazione conformista prevalente nella «civiltà montante». Non per caso, del resto, il neo-operaismo di oggi vede nel lavoro intellettuale postfordista potenzialità analoghe a quelle che l’operaismo degli anni Sessanta vedeva nella classe operaia di fabbrica. E non per caso è nelle pieghe dell’ingranaggio multimediale, dentro e contro di esso, che si combatte ogni giorno e ogni minuto quella battaglia sul senso e l’interpretazione del presente un tempo affidata - ma anche delegata - alle grandi ideologie.

Vero è invece che anche questa battaglia minuta, diffusa e quotidiana rischia di farsi fagocitare dall’«ideologia onnivora del presente» che non è solo un tratto del berlusconismo, ma è inerente alla forma stessa della razionalità massmediale della nostra epoca. E vero è dunque che anche questa battaglia si gioverebbe assai di quel recupero del senso della storia a cui Asor Rosa ci richiama. In questa direzione, il dialogo fra lui e Simonetta Fiori ha un valore esemplare. In fondo, quello che Asor si propone con la sua diagnosi dell’estinzione dell’intellettuale novecentesco è l’elaborazione di un lutto: l’ennesima a sinistra, potremmo chiosare malinconicamente, se non fosse che per una volta qui non è la tonalità malinconica né quella nostalgica a prevalere, e l’intenzione non è di crogiolarsi nella perdita ma di mettere un punto a capo per ripartire. Sapendo però che alle spalle non c’è un usato da liquidare ai saldi, ma un grande patrimonio di cui farsi eredi. E infatti, malgrado la sua denuncia sulla pochezza dei tempi in corso, Il grande silenzio riesce a farci sentire a fine lettura non più deprivati, ma più ricchi di chi ci ha preceduti.


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