RETROSCENA
Stato, mafia e quel patto mai firmato
Lo scenario riaperto dalla testimonianza di Luciano Violante
di GUIDO RUOTOLO (La Stampa, 25/7/2009)
ROMA La «testimonianza» di Luciano Violante, arrivata dopo ben diciassette anni, offre implicitamente una conferma alla «trattativa», intavolata nell’estate-autunno del 1992, dal Ros dei carabinieri e Vito Ciancimino, per tentare di bloccare l’offensiva stragista ed eversiva di Cosa nostra. Violante, che dal settembre di quell’anno aveva assunto la presidenza dell’Antimafia, incontrò l’allora colonnello Mario Mori, che gli chiese se fosse disposto a incontrare Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo condannato per associazione mafiosa.
Gli incontri tra Mori e Violante avvennero presumibilmente tra ottobre e novembre di quell’anno. Il figlio dell’ex sindaco, Massimo Ciancimino, ha messo a verbale ai pm palermitani che il colonnello Mori disse a suo padre che l’allora ministro dell’Interno, Nicola Mancino, era informato della trattativa. Non solo, ma ha aggiunto: «Mio padre voleva che del “patto” fosse informato Luciano Violante».
Il patto, ovvero la trattativa. Violante venerdì è sceso a Palermo, per testimoniare. Rivelando che effettivamente il colonnello Mori gli chiese la sua disponibilità a incontrare Vito Ciancimino. E lui declinò l’invito. Ma se Mori si rivolse a un esponente della minoranza politica che aveva appena ottenuto la presidenza dell’Antimafia, evidentemente aveva ottenuto la copertura anche dal governo in carica.
C’è un passaggio delle motivazioni della sentenza di primo grado per le stragi di Firenze, Roma e Milano (1993) che vale la pena riprendere, a proposito delle trattative Mori-Ciancimino: «L’iniziativa del Ros aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione».
Insomma, al di là delle giustificazioni di Mori e del capitano De Donno - prendere tempo, costringere Cosa nostra a svelare quali obiettivi si poneva con l’attacco eversivo allo Stato - il risultato fu quello di implicitamente alimentare la spirale stragista. Scrivono sempre i giudici di Firenze: «Non si comprende come sia potuto accadere che lo Stato, “in ginocchio” nel 1992, si sia potuto presentare a Cosa nostra per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18 ottobre del ‘92, si sia trasformato in confidente dei carabinieri».
Ma quante furono le trattative tra uomini dello Stato e ambasciatori di Cosa nostra? «Una, due, tre, forse quattro», ha spiegato alla Stampa il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia. C’è quella che intavola Giovanni Brusca, l’uomo che spinse il pulsante di Capaci, attraverso Antonino Gioé, con Paolo Bellini, ovvero con i carabinieri.
Bellini, un trafficante d’opere d’arte, un ex estremista di destra che Gioé conobbe in carcere e che ritenne essere un uomo degli apparati dello Stato per il semplice fatto che era detenuto sotto falso nome (Da Silva). L’oggetto della trattativa non erano le stragi: in cambio del ritrovamento di opere d’arte rubate, Brusca chiedeva per il padre un diverso trattamento carcerario. E il killer di Capaci ottenne da Riina il via libera ad andare avanti.
Probabilmente c’è poi una terza trattativa che va avanti con Totò Riina ormai in carcere (fu arrestato il 15 gennaio del 1993). E che dovrebbe avere avuto come interlocutore Bernardo Provenzano. Lo racconta il pentito Giuffré, che chiama in causa Marcello Dell’Utri. E che accenna anche a un canale agrigentino della trattativa.