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Sul filo del messaggio evangelico, di Gioacchino da Fiore, Francesco d’Assisi e Dante Alighieri....

PAVEL FLORENSKIJ. LE PORTE REGALI - ICONOSTASI. Una recensione di Michele Dolz di una nuova e più completa versione dell’opera del pensatore russo - a cura di Federico La Sala

domenica 27 luglio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Giuseppina Giuliano appronta una nuova versione in base alla ricostruzione integrale del testo russo di Iconostasi
pubblicato nel 1994. Sì, perché quest’opera, che l’autore non vide mai stampata, è un singolare puzzle di vari testi, a loro volta soggetti a una non facile storia critica. Per la prima volta in Italia, quindi, quel che si può ritenere il vero e completo scritto di Florenskij. Non solo: le ultime edizioni critiche russe delle altre
opere del pensatore permettono di (...)

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> PAVEL FLORENSKIJ. LE PORTE REGALI - ICONOSTASI. --- L’icona russa e l’unità spirituale europea. Una coscienza oggi ferita dai venti di guerra (di Henri Focillon)

mercoledì 30 marzo 2022

Idee. L’icona russa e l’unità spirituale europea

In un saggio del 1931 lo storico Focillon delinea nell’arte un orizzonte cristiano che lega il Vecchio Continente dall’Atlantico agli Urali. Una coscienza oggi ferita dai venti di guerra

di Henri Focillon (Avvenire, martedì 29 marzo 2022)

      • La “Theotokos di Vladimir” o “Vergine della tenerezza”, XII secolo - Mosca, Galleria Tret’jakov

Anche l’editoria può contribuire alla pace dell’Europa «dall’Atlantico agli Urali» con segni che facciano comprendere che una fratellanza spirituale, di antica matrice cristiana, lega l’Europa dell’Ovest a quella dell’Est, mentre infuriano venti di guerra che negano una storia plurisecolare tuttora viva. Per difendere questa unità contro ciò che la distrugge, le edizioni Medusa sul loro sito internet hanno reso disponibile il testo che nel 1931 lo storico dell’arte francese Henri Focillon firmò come prefazione a un importante volume sull’icona russa scritto da Paul Muratoff e intitolato Trentacinque Primitivi russi, che documentava la collezione di Jacques Zolotnitzky, mercante d’arte e gioielli russo, che ebbe gallerie a Kiev, Parigi e New York. Anticipiamo qui alcuni brani del testo di Focillon, che si può scaricare gratuitamente dal sito della casa editrice.

Può essere concesso a uno storico dell’arte occidentale esprimere il suo sentimento sulle belle icone della collezione Zolotnizky? Ci sembrano provenire da età lontane, da quei confini dell’Oriente e dell’Asia dove il movimento del pensiero obbedisce a cadenze misteriose, dove lo spirito interpreta lo spazio, il tempo, la forma, la fede, secondo misure che non sono le nostre. Appaiono come tesori di una religione d’altri tempi, nella quale riconosciamo scene e figure, mescolate a strani sogni trasposti in un universo favoloso. Subito le amiamo perché ci mostrano l’altra faccia dell’uomo e di Dio, e perché guidata da loro la nostra fantasticheria è trasportata in un altro clima della vita. Ma questo, potremmo dire, non è che un aspetto della loro qualità poetica. Rappresentano il passato di una grande arte estremamente importante da conoscere e che non possiamo studiare nei nostri musei. Senza di esso è impossibile conoscere tutto lo sviluppo dell’arte cristiana, con quella significativa molteplicità di aspetti che, da tutti i punti della sua espansione, l’associa con forza alla vita storica. Cominciamo a intravedere il senso che bisogna dare all’attività creatrice della cristianità d’Oriente. I risultati delle nostre prime osservazioni si sono naturalmente presentati sotto la forma che normalmente prendono gli studi comparativi: l’analisi delle influenze.

      • [ Foto] Lo storico dell’arte francese Henri Focillon

Quantomeno abbiamo imparato che l’Oriente e l’Occidente cristiani non erano due mondi simmetricamente opposti da ciascun lato dell’albero della vita o del pireo, ma uniti attraverso scambi in cui certi caratteri comuni delle loro arti potevano spiegarsi sia dal gioco delle relazioni reciproche, sia dalla comunità delle origini. (...) Ci fu un tempo nel quale la definizione dello stile bizantino s’imponeva attraverso una specie di unità massiccia, così come il termine Primitivismo comprendeva indistintamente le epoche e i maestri più diversi dell’antica pittura italiana. Non possiamo ignorare come, a Costantinopoli stessa, si avvicendano e si oppongano correnti contrarie e come, nelle regioni dell’Impero, si siano sviluppati, fin da un’epoca lontana, ambienti originari ai quali l’arte della capitale è debitrice di certe sfumature essenziali, secondo i tempi e le circostanze, e da dove alcune delle sue formule furono a loro volta importate. Così che, malgrado l’autorità del centro politico, non sarebbe corretto considerare l’arte bizantina come un blocco omogeneo, così come racchiudere tutte le varietà dell’arte occidentale medioevale attorno a un’unica definizione. Non diversamente per l’arte russa.

Dagli inizi, dall’epoca della vecchia Russia kieviana, si è posta la domanda di sapere se bisognasse cercarne le origini esclusivamente a Bisanzio, o se bisognasse far intervenire contributi caucasici, e, per il periodo successivo, dominato dallo splendore di Novgorod, se una scuola italo-cretese non vi avesse operato, come a Mistra, una fusione tra l’arte italiana e la tradizione bizantina. Ma, come ha sottolineato Louis Réau, nella sua bella Histoire de l’art russe, la qualità umana e la forza di espansione della pittura bizantina sotto i Paleologhi rendono inutile il ricorso a esempi veneziani o toscani. In tutto il bacino del Mediterraneo, così come nelle regioni sottomesse alla sua influenza, si produce nel XIV secolo, sotto forme diverse e unite tra loro, uno stesso movimento di rinascenza che interessa non solo Bisanzio, ma la Serbia, l’Italia, la Spagna orientale, di cui si trovano anche migliori testimonianze in Valachia così come nelle terre russe. In una forte città risparmiata dai Tartari, arricchita dai suoi commerci e dai suoi rapporti con l’Hanse, prosperava una scuola le cui opere già mostrano con chiarezza ciò che la Russia accoglie e ciò che essa crea dal suo proprio fondo.

La pittura novgorodiana subisce il dominio di questo ritorno alla tradizione ellenistica che costituisce, attraverso le sue variazioni, l’eterna nostalgia dell’arte bizantina. Ma concede a sé stessa un quadro inedito inventando l’iconostasi. Non è uno sfavillio d’oro, un mantello superfluo, è un ordine architettonico nel quale prendono posto le immagini, nel quale esse si piegano, almeno in una certa misura, a queste leggi di convenienza e di adattamento formale senza le quali sarebbe difficile definire il loro stile. (...) L’icona ridotta alla sua proiezione più pura, più spoglia, raggiunge una specie di arida bellezza. Queste grandi figure astratte sono come ritratti nell’eternità. Ma non ci s’inganni, hanno un valore di studio. L’unica prova di cui abbiamo bisogno sono questi lievi tratti d’inchiostro rosso che, su molte tra loro, suggeriscono con tanta sensibilità la modellazione della legatura delle dita e, più ancora, questo disegno di piega spigolosa in cui il drappeggio è ridotto con scienza secolare al suo schema geometrico, vestigia di una procedura che ha ossessionato il pensiero del medioevo, di cui troviamo altre tracce in Occidente e che sopravvive in terra russa al suo declino nei nostri paesi...

(traduzione di Riccardo De Benedetti)


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