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Il Figlio dell`uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, intenda!

TRAPIANTI... E STRIDORE DI DENTI. VITA, MORTE, E INFERNO: UNA DISCUSSIONE LUCIFERINA TRA L’ OSSERVATORE E IL VATICANO. Chiuso il Libro con Wojtyla, la notte è scesa sulla gerarchia della Chiesa Cattolico-romana - a cura di Federico La Sala

mercoledì 3 settembre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Il Pontificio consiglio prosegue: "Non è cambiato niente nella dottrina su questo punto. Donare gli organi è una cosa buonissima e la Chiesa lo ha sempre sostenuto. Certo la questione è delicata perchè come si sa gli organi devono avere ancora dei segni di vita per essere espiantati" [...]

Il Pontificio consiglio replica al giornale ufficiale della Santa Sede
Un editoriale di ieri dubitava della validità della morte celebrale
Il Vaticano (...)

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> TRAPIANTI... E STRIDORE DI DENTI. VITA, MORTE, E INFERNO: UNA DISCUSSIONE LUCIFERINA TRA L’ OSSERVATORE E IL VATICANO. ---- I padroni della vita (si Adriano Prosperi).

giovedì 4 settembre 2008

la Repubblica, 04.09.2008

La tribuna dei teocon

di Umberto Veronesi

L’ultimo no a Eluana Englaro dalla Regione Lombardia contraddice la sentenza della magistratura, e l’editoriale dell’Osservatore Romano che avanza dubbi sulla morte cerebrale, riaprono il drammatico confronto su chi decide del nostro ultimo respiro.

A quanto pare, la Santa Sede che ne è la proprietaria lascia al direttore di turno la responsabilità delle sue scelte, né più né meno di quel che accade normalmente nella grande stampa di informazione. Del resto, nella nostra epoca di crisi delle ideologie è già accaduto di veder sbiadire in altri quotidiani le certezze precostituite di verità offerte come chiavi di lettura dei fatti del giorno. Ma sarebbe bene che le autorità vaticane lo spiegassero con chiarezza. Se il direttore di quel quotidiano decide di ospitare e di dare risalto all’opinione di chi, forte di una sua rispettabile convinzione religiosa più che di una specifica autorità in materia, revoca in dubbio il criterio fondamentale su cui opera la medicina dei trapianti, non per questo i medici, gli anestesisti e gli infermieri cattolici debbono correre a fare obbiezione di coscienza. È così?

Come ha ricordato su Repubblica il professor Ignazio Marino, la cosa è importante per chi ha la vita appesa al filo di un trapianto di organi. È qui che si svolgono quotidianamente drammi silenziosi e si combattono battaglie in difesa non della vita in generale - come quelle sulle questioni dell’aborto e dell’eutanasia - ma di precise esistenze individuali.

C’è, poi, un problema più generale di scelte della Chiesa che si è clamorosamente profilato in questo ultimo episodio ma che avevamo già intravisto nella precedente questione dei giudizi di Famiglia cristiana sulla politica del governo attuale: la contraddizione sempre più evidente tra l’alleanza strumentale della Chiesa con le truppe di sfondamento dei "teocon" nella battaglia coi valori della democrazia laica e quella che costituisce la sostanza civile e storica di tanta presenza cattolica nel nostro mondo. Bisognerà seguire con attenzione questa vicenda, aspetto inedito della situazione per certi aspetti grottesca dell’Italia politica attuale: un paese dove l’opposizione di sinistra è semplicemente scomparsa e valori della solidarietà sociale si affidano direttamente all’ispirazione dei singoli e al fiume sotterraneo del volontariato.

Tuttavia l’episodio mostra indirettamente l’urgenza di un problema che richiede l’attenzione del potere legislativo: quello del testamento biologico. Materia delicata, delicatissima. Il testamento è stato e resta un documento importante per quanto riguarda le disposizioni sui beni di fortuna: intere categorie professionali vivono in grazia di quel documento, per interpretarlo, contestarlo, attuarlo. L’esperienza quotidiana e la letteratura d’ogni paese insegnano che i testamenti si fanno e si disfano, che le ultime volontà possono sempre diventare le penultime. L’incertezza degli umori, la variabilità degli stati d’animo e degli affetti dominano nell’operazione del disporre dei propri beni.

Anche la vita è un bene: un bene supremo, si dice. Per tutti, si pretende. E questo non è vero. "A me la vita è male": parole di Giacomo Leopardi. Così vere e così suggestive che nemmeno il censore d’ufficio della Sacra Congregazione dell’Indice se la sentì di condannare quel suddito degli Stati Pontifici che aveva così radicalmente divorziato dalla religione obbligatoria. Quanti oggi nel mondo sottoscriverebbero quelle parole? meglio non saperlo. Ma in cambio gli ottimisti per professione, i credenti nel valore obbligatorio della vita anche a dispetto dei sentimenti e delle volontà dei viventi abbassino almeno la voce. Un fatto è certo: l’avanzata della legge tocca oggi l’ultimo dei beni disponibili, la vita L’inarrestabile processo di giuridicizzazione di ogni aspetto dell’esistenza bussa a questa ultima porta. Bisognerà che ci si decida ad aprirla.

Certo, qui si aprirà la lotta fra chi chiede una legge e chi non la vuole. Fino a non molto fa, la linea divisoria passava tra i credenti in un Dio provvidente e benevolo, erogatore di un’altra vita e chi non condivideva quella fede. Ai non credenti l’invito degli uomini della religione è stato fatto rovesciando l’atto di nascita della civiltà moderna e chiedendo di accettare in mancanza di meglio una regola di vita fondata sull’esistenza di Dio: come ipotesi, come scommessa. Ma da quella scommessa metafisica che piaceva a Pascal la struttura di potere che il clero cattolico ha costruito su fondamenta di diritto romano ha ricavato la conseguenza di imporre anche ai cittadini di uno Stato moderno la sudditanza alla loro legge. Da qui gli inviti alla disobbedienza alle leggi dello Stato, la difesa delle cosiddette obiezioni di coscienza di medici e farmacisti.

E tuttavia anche per la religione cattolica bisognerà avere presenti i lati positivi dell’opera sua e dell’influsso che esercita specialmente in Italia dove è radicata capillarmente e svolge compiti fondamentali di assistenza e di protezione: anche di cultura e di presenza civile, supplendo a istituzioni assenti e portando parole coraggiose e ricche di echi, come ha mostrato di saper fare di recente Famiglia cristiana. La resistenza alle sbrigative soluzioni legali di problemi delicatissimi di vita e di morte merita sicuramente attenzione. Anche per il "testamento biologico", come già per la legge sull’aborto terapeutico, si tratta di averne ben presenti i limiti.

Come ogni altro bene, più di ogni altro bene, la vita subisce le fluttuazioni del mercato ed è esposta alla legge della domanda e dell’offerta. Anche alla legge della propensione al rischio del padrone di quel bene: da giovani si è pronti a regalarlo o a disfarsene con levità di spirito, da vecchi lo si risparmia.

L’avarizia del vecchio che resiste alla natura con tutti i mezzi è stata raccontata in uno tra i più belli dei racconti di Cechov, "Una storia noiosa". Quando resta poco del giorno, ogni istante diventa prezioso; quando si sa che è il nostro turno di andarcene, si spia con ansia ogni goccia d’olio nella lampada. Se ne ricava una banalissima conclusione: che un testamento vale per il momento in cui lo si detta anche se è pensato per decidere qualcosa che avverrà in futuro. È molto probabile che l’ultimo fremito di vita del malato terminale sarà di rimpianto e di attaccamento estremo a quello che in piena salute aveva chiesto di essere aiutato ad abbandonare. Tenendo conto di questo, la legge non potrà andare oltre la sua funzione che è quella di essere fatta per gli individui: dunque per tutelarne i diritti, non per sottometterli ad altra e superiore potestà. Se questo è chiaro, allora si può certamente trovare una formula giuridica adeguata. Che vi si arrivi è necessario, anzi è gran tempo che lo si faccia. Lo impone la necessità di tutelare ciascuno di noi dalla prepotenza di regole che privano l’individuo della disponibilità di ciò che solo è suo, il tempo di vivere e di morire.

Nessuna delega incontrollata a terzi, nessun diritto di mettere le mani sui nostri corpi ancora viventi giocando con le parole di una legge. Ma anche la fine di quegli osceni clamori che abbiamo tante volte ascoltato sui casi di chi lucidamente chiedeva di essere aiutato a concludere una vita intollerabile. E soprattutto si dovrà incoraggiare lo sviluppo di quelle forme di assistenza che esistono per rendere meno intollerabili le malattie che tolgono memoria e conoscenza, che rendono l’essere umano una minaccia per sé e per chi vive con lui; cure palliative, incremento dei luoghi dove si possa terminare in modo umano una vita che se ne va e andare incontro a una morte annunciata. Tutto questo significa spostare l’attenzione alla carenza vera dell’Italia: le istituzioni dell’assistenza. È alla medicina come sistema di tecniche e di culture che si rivolge oggi chi ha realmente bisogno di tutelare vita e morte sue e di chi da lui dipende. Gli altri parlano e gridano da pulpiti vistosi.

I medici sanno, operano, fanno le cose che possono e sanno fare. Ma con quali mezzi? E combattendo con quali pregiudizi, propri e altrui? In quali contesti? Perché è evidente che altro è l’ospedale locale altra è la grande clinica privata, altro è il Sud e altro il Nord del mondo, non della sola Italia, visto che i soli confini che l’emigrazione in cerca di ospedali oggi conosce sono quelli della ricchezza individuale e del mondo intero. Così come ogni altra forma di emigrazione.


la Repubblica 4.9.08

I padroni della vita

di Adriano Prosperi

"A ciascuno il suo": il motto dell’Osservatore Romano significa forse che ognuno può scegliere quello che preferisce nell’offerta di notizie e commenti del giornale vaticano? Così si direbbe, a giudicare dalla pubblicazione di un articolo che mette in discussione il criterio della morte cerebrale.

La gente ha paura della propria morte, ma allo stesso tempo la vuole, o meglio vuole sapere che quando il momento verrà, se ne andrà in pace. Io sono d’accordo con il filosofo Hans Jonas, che, riflettendo sul problema della morte cerebrale, scrive: «Non è necessaria una ridefinizione della morte, ma forse soltanto una revisione del presunto dovere del medico di prolungare la vita ad ogni costo». Di fronte a un paziente che ha lesioni così gravi da non avere alcuna prospettiva di recupero, la domanda non è "il paziente è morto?" ma: "Che fare di lui?".

A questa domanda non si può certo rispondere con una definizione di morte ma con una definizione dell’uomo e di cos’è una vita «umana». In altre parole, il problema della nostra morte si è spostato dalla scienza (che ha il ruolo di definire i criteri per determinare la morte in base alle sue conoscenze) alla bioetica (che ha il compito di stabilire un equilibrio fra applicazione delle conoscenze della scienza e vita dell’uomo). La scienza continua a spostare i limiti della morte, ma al di là di questi confini non c’è la nostra esistenza naturale, in cui noi amiamo, ci emozioniamo, pensiamo, soffriamo; quella che noi medici difendiamo con tutte le nostre energie, la nostra intelligenza e il nostro amore.

C’è un limbo opaco e inquietante a metà fra la non-morte e la non-vita. Va ricordato che la bioetica è nata nel 1970 con Von Potter che, nel suo "Bioethics: a bridge to the future", sostiene che l’etica deve ispirarsi alla biologia dell’uomo e si dichiara preoccupato dello sviluppo di tecnologie che alterano gli equilibri dell’esistenza umana. Una tempesta si è abbattuta su questi equilibri con l’introduzione della vita artificiale, cioè quando a metà del secolo scorso sono state introdotte nei reparti di rianimazione delle macchine in grado di mantenere l’ossigenazione del sangue e il battito del cuore, anche se le funzioni cerebrali sono cessate.

Nasce così l’incubo della vita artificiale, come esito non voluto dei progressi della tecnologia. Per millenni l’uomo ha avuto paura di morire per le guerre, le malattie, le carestie, invece negli ultimi decenni ha iniziato a sviluppare una nuova paura che è ancora agli esordi del suo manifestarsi: la paura di vivere oltre il limite naturale della biologia. Molti si stanno rendendo conto della progressiva invasione della tecnologia nella vita umana fino a spostarne i confini all’infinito. Ha ragione l’Osservatore Romano: i principi del rapporto di Harvard che ha introdotto i criteri neurologici nella definizione di morte (da allora basata non solo sull’arresto cardiocircolatorio, ma anche sull’encefalogramma piatto), se non superati, sono in evoluzione. Troveremo altri criteri più sofisticati forse, e tecnologie ancora più potenti, ma dovremo allora rinunciare alla morte? È una prospettiva agghiacciante, che si associa all’immagine di un esercito crescente di corpi vegetanti chiusi nelle loro prigioni. Come fare allora a ritrovare la nostra morte? Ritorniamo a Hans Jonas e riflettiamo sul concetto di vita. La svolta alla definizione di vita è venuta a fine ’900, quando è stata identificata la vita biologica con il pensiero: se l’elettroencefalogramma è piatto, non c’è attività cerebrale e dunque non c’è vita. In Italia l’introduzione dei criteri neurologici per accertare la morte (sulla base dei parametri di Harvard) avvenne nel 1969 e nel 1970, con due decreti che poi vennero incorporati in una legge relativa al prelievo e al trapianto d’organo nel 1975.

Se i parametri di Harvard fossero superati e se effettivamente, dal punto di vista fisiopatologico, la morte cerebrale non provocasse la disintegrazione del corpo, ciò che non viene né superato né messo in discussione è l’irreversibilità dello stato che la morte cerebrale provoca. Per fare un esempio concreto pensiamo a Terry Schiavo, il caso americano che ha infiammato le cronache internazionali perché, dopo grandi polemiche, la sua vita artificiale fu interrotta. Ebbene, all’autopsia il cervello di Terry è risultato completamente devastato per cui è dimostrato che la ragazza non vedeva, non sentiva, non provava né fame né sete, né null’altro. La ricerca scientifica ci offre dei parametri certi, come appunto la morte cerebrale, oltre i quali la vita irreversibilmente non sarà mai più quella che noi conosciamo e chiamiamo vita. Dovrebbe spettare ad ognuno di noi decidere che fare.


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