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DOLLARO, POLITICA, E RELIGIONE. IN GOD WE TRUST....

ELEZIONI USA. McCain sorpassa Obama e già canta la sua canzone: "Yes We Can"!!! Il sogno americano è finito? - a cura di pfls

Per commentare la decisione di Bush, salvare con i soldi del Tesoro i due giganti dei mutui, McCain e Obama hanno usato più o meno le stesse parole: la Casa Bianca ha fatto bene.
lunedì 8 settembre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Se la media (calcolata dal sito RealClearPolitics) vede ancora Obama in leggerissimo vantaggio (46 contro 45,2) gli ultimi due in ordine di tempo sono devastanti per il candidato democratico: il Gallup Poll Daily Tracking dà a McCain un vantaggio di tre punti (48 a 45), quello di Zogby dà il ticket repubblicano in testa con il 49,7 dei voti contro il 45, 9 di Obama-Biden [...]

Il candidato repubblicano sembra riuscito a far (...)

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> ELEZIONI USA. McCain sorpassa Obama e già canta la sua canzone: "Yes We Can"!!! Il sogno americano è finito --- Le trappole del pensiero positivo (di BARBARA SPINELLI).

domenica 28 settembre 2008

Le trappole del pensiero positivo

di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 28/9/2008)

La vera questione dell’infermità americana, che in questi giorni s’accampa davanti ai nostri occhi, è stata affrontata solo in parte dai due candidati alla presidenza che venerdì si sono scontrati in un primo duello televisivo a Oxford nel Mississippi. È un’infermità che ormai va oltre incompetenze e misfatti di Bush. Che mette in forse il potere globale dell’America, militare e non militare. Che svela i mali della sua economia, scossa alle radici dallo squasso finanziario. Che colpisce il dollaro, moneta ancor oggi potente nel mondo ma senza responsabilità. Sono inferme anche le sue guerre, che stentano a finire e non erano tutte necessarie. Il risultato è una potenza che ha sempre meno potere, ed è come cieca a questa perdita di prestigio, di influenza, e di faccia.

Si è parlato molto di bolle, a proposito delle catastrofi a Wall Street. Le bolle si creano quando l’azione di un individuo o una banca o una nazione poggia su illusioni invece che sulla realtà, e tutto oggi negli Usa richiama l’immagine della bolla in via d’esplosione: perfino la campagna di Barack Obama e John McCain. Nel prossimi giorni sapremo l’effetto del loro dibattito sugli elettori.

Ma sin d’ora appare chiaro che ambedue stanno fischiettando nel buio, senza dire che fa veramente buio: hanno parole appropriate e presidenziali sulla crisi finanziaria, ma nulla li induce a rivedere programmi che per forza dovranno cambiare. La bolla del sogno ti dà il senso di avere un potere che non hai, ti risparmia il dire vero. La bolla ti fa pensare-positivo quando non c’è niente di positivo in giro. Obama è più severo sugli anni di Bush, ma anch’egli è contagiato dall’illusionismo perché non dice quanto i contribuenti pagheranno il salvataggio di Wall Street. McCain, sprezzante, l’ha ripetutamente accusato d’essere un neofita che «non capisce nulla» - ripetersi è efficace - ma il massimo illusionista è lui. Ambedue danno l’impressione di non misurare il maelstrom in cui l’America si trova.

La più grande bolla nel dibattito è la guerra in Iraq, iniziata da Bush dopo l’11 settembre. McCain l’ha abilmente usata, mettendola al centro e isolandola da quel che accade attorno a Baghdad - ogni bolla per natura s’imbozzola - e per questa via è sembrato confermare una verità antica: in economia i repubblicani non saranno più i primi, ma sulla sicurezza sono ancora considerati superiori, specie in tempi di crisi e panico. McCain ha tentato di mantener viva questa credenza negando che la guerra sia un disastro, e affermando anzi che l’America dopo tanto errare sta addirittura vincendola, grazie all’aumento di truppe e al cambio di strategia decisi all’inizio del 2007. Il generale Petraeus è incensato come deus ex machina che ha permesso la clamorosa svolta, e Obama viene accusato non solo di disfattismo ma di incompetenza e scarsa conoscenza.

È il momento in cui il candidato repubblicano è apparso forte, e quello democratico più che ragionevole ma come intimorito: più volte Obama ha sostenuto che il rivale aveva «assolutamente ragione», non sull’origine della guerra ma sui suoi presenti progressi. Chi ha ascoltato McCain avrà forse pensato: «Ecco un candidato che pensa positivo», che non rivanga il passato e ha un tono presidenziale che intimidisce. La realtà non sta così, la guerra in Iraq è un successo solo se si resta nel bozzolo dell’immaginazione. Ma come scrive Samantha Power sul New York Review of Books citando Clinton: «Gli americani preferiscono chi appare forte pur sbagliando, a chi appare debole pur avendo ragione». Il pensare-positivo, come quella che vien chiamata cultura del fare, spesso seduce l’elettore anche se col reale ha un rapporto ben diafano. Seduce con la potenza della parola, del carattere, di un’esaltazione del fare a scapito del pensare il presente come il passato. In Italia non è diverso.

Obama ha replicato con intelligenza al trionfalismo di McCain sull’Iraq, ma era sulla difensiva, e non ha trovato la formula che descrivesse il declino mondiale dell’America. Ha giustamente ricordato gli enormi costi di una guerra che non solo è stata inutile e mortifera, ma ha ostacolato la lotta al terrorismo, lasciando sguarnito l’Afghanistan. Ha giustamente denunciato l’assenza di una diplomazia che dissuada l’avversario tramite negoziati anche duri, e non solo tramite rotture belliche. Ha giustamente rammentato che la guerra irachena è cominciata con faciloneria euforica nel 2003, e non nel 2007 con Petraeus che ripara o limita i danni. Ma si è guardato dal denunciare le derive dell’eccezionalismo (l’America ha un destino manifesto quasi messianico, è faro di luce nel mondo) e dall’individuare nell’eccezionalismo i germi di un nazionalismo imperiale oggi in frantumi. L’aprioristico pensare-positivo presuppone un’opinione positiva su se stessi di cui i politici americani si liberano con difficoltà.

Eppure proprio questo aprioristico pensare-positivo alimenta le tante bolle di illusioni che stanno esplodendo: lo spiega bene Barbara Ehrenreich sul New York Times del 24 settembre. Il pensare positivo sul mercato che spontaneamente si riequilibra. Il pensare positivo sulla diminuzione della violenza in Iraq, che occulta disastri: strategicamente la guerra è perdente, perché ha creato insicurezza mondiale, ha permesso l’ascesa iraniana, ha creato un pantano in Afghanistan, ha consumato l’influenza Usa, ha dato a Putin il senso di poter agire impunemente perché l’America oggi ha solo la forza del grido. Ed ha aumentato gli attentati nel mondo: del 600 per cento se si includono Afghanistan e Iraq, del 35 senza Afghanistan e Iraq.

Il pensare-positivo è un vantaggio, in politica. Ma spesso non s’accompagna a un pensiero su se stessi egualmente tenace. Abbiamo così in America una strana miscela: ottimista nell’immediato, selettivamente pessimista sul passato, ma non realista. L’ottimismo cieco si nutre di immaginazione: basta volere fortemente una cosa, e la cosa anche se finta è. Il pessimismo strumentalizza la storia, manipolandone le lezioni. La grande disputa contro chi negozia col nemico (l’appeasement degli Anni 30) è basata su una visione singolare del ’900: un secolo tutt’altro che uniforme, che ha coronato di successo la guerra totale contro Hitler ma anche il negoziato con l’Urss e il contenimento. È il containment che infine ha vinto, non il rollback di repubblicani come John Foster Dulles che volevano «scacciare indietro» Mosca.

Oggi siamo di nuovo a quel punto, come se il ’900 avesse insegnato poco. Tutto il pensiero neo-conservatore si fonda su una sorta di espiazione del containment, di riscoperta del rollback di Dulles. Con l’avversario si negozierà, ma non prima di aver ottenuto tutto da esso: cosa ragionevolmente contestata da Obama. McCain vive nella bolla ma è un leader e anche un anticonformista (ad esempio su tortura e Guantanamo). Obama ha buoni argomenti, ma non osa infilare spilli troppo aguzzi nella bolla e si porta dietro le debolezze dei democratici, spesso tentati di cambiar tema quando si parla di sicurezza. Entrambi sono alle prese con l’infermità americana e i suoi mostri: la paura, il bisogno esistenziale del nemico. Eppure la storia americana non è fatta di mostri: «L’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura», diceva Roosevelt. Non bisogna aver «paure disordinate», raccomandava Carter a proposito dell’Urss. E di recente Richard Armitage, ex vicesegretario di Stato di Bush: «Dopo l’11 settembre, la sola cosa che abbiamo esportato nel mondo è stata la nostra paura».

Difficile dire se gli americani soccomberanno o resisteranno alla politica della paura. Se riscopriranno il principio di realtà, che è poi quello che fa dire a Petraeus: la mia azione è al di là del pessimismo e ottimismo. Se cominceranno a vedere se stessi, e solo dopo aver guardato se stessi il mondo.


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