l’intervista
Il direttore dell’editrice Seuil, già inviato di «Le Monde»,
rilegge i temi forti dei giorni del Papa a Parigi.
«Ci insegna a riscoprire coraggio del futuro.
Accogliamo il suo invito a fuggire gli “idoli” e fare il bene insieme, credenti e non»
Guillebaud: «Le ragioni della fede? Non sono più tabù.
Ratzinger, maestro di speranza nella crisi della democrazia»
DI LORENZO FAZZINI (Avvenire, 14.09.2008)
L’ importanza del richiamo ad una «compenetrazione feconda» tra fede e ragione. E l’invito ad abbandonare gli idoli per «costruire il bene». Sono questi i passaggi delle giornate parigine di Benedetto XVI che Jean-Claude Guillebaud - direttore della casa editrice Seuil, già inviato del giornale Le Monde e autore del recente «Perché sono ridiventato cristiano» (Lindau) - coglie dalle parole del Papa come messaggi significativi per la società transalpina d’oggi.
Ieri Benedetto XVI ha rilanciato il tema del legame fra fede e ragione: «Mai Dio domanda all’uomo di fare sacrificio della sua ragione! Mai la ragione entra in contraddizione reale con la fede»...
Penso che uno dei messaggi più importanti che il Papa abbia dato finora in questo viaggio sia l’invito alla riconciliazione tra fede e ragione. Ha ribadito l’invito presente nella prima lettera di Pietro: essere capaci di rendere ragione della nostra speranza di credenti. La fede non è qualcosa che ci obbliga a mettere tra parentesi la nostra ragione; il credente deve invece sempre essere capace di dare un senso alla sua fede. Così si crea come una compenetrazione feconda tra fede e ragione.
A suo giudizio questo invito trova una Francia più sensibile rispetto a qualche anno fa, ad esempio all’epoca del Sessantotto?
Sì, lo constato nell’ambiente della cultura: ci sono intellettuali, anche non cattolici, più disponibili ad accogliere il valore della compenetrazione tra fede e ragione. Essere cristiani ed intellettuali è qualcosa che viene meglio accettato rispetto a qualche decennio fa. Un esempio: alcuni anni fa - prima che Ratzinger fosse eletto Papa - la rivista Esprit tradusse il celebre dialogo che egli ebbe con il filosofo tedesco Habermas. In Francia quel testo ebbe una grande eco, perché quell’incontro tra un grande teologo cattolico e uno dei più significativi filosofi atei attuali fu visto come un evento nuovo.
Facendo eco a san Paolo, Benedetto XVI ha invitato i francesi a fuggire «il culto degli idoli» e a «non smettere di fare il bene». Nota qualche realtà concreta in cui credenti e non credenti di Francia operano positivamente insieme per costruire questo bene?
Certamente. Vi è un insieme di gruppi e di associazioni, molto numerose ma che non ricevono attenzione dai mass media, e che incontro girando il Paese, in cui cristiani e non cristiani lavorano insieme nel campo della solidarietà e dell’aiuto ai poveri. E questo è sicuramente qualcosa di positivo.
Il Papa ha denunciato la tentazione di «idolatrare un passato che non esiste più» e «un futuro che non esiste ancora»...
Nella nostra società viviamo in un presente perpetuo, in cui assistiamo sia alla perdita dell’ancoraggio alla tradizione sia della capacità di progettare. Invece, come ha detto Benedetto XVI nella sua enciclica sulla speranza - la Spe salvi del 2007 - è proprio questa virtù che spinge l’uomo ad impegnarsi per il meglio. La nostra epoca vive in un «oblio perpetuo» che dimentica la propria genealogia, l’importanza dei genitori, il valore della pedagogia: vogliamo essere autonomi dal passato. Rispetto al futuro c’è un sentimento diffuso e pericoloso che vede le cose di domani, anche l’economia e la tecnologia, come ineluttabili. E ciò fa sorgere la crisi della democrazia. Non abbiamo più la forza di fare progetti; la gente, quando pensa al futuro, ha più paura che speranza. Il segno algebrico del domani diventa il negativo.
E di fronte a questa situazione quale apporto vede nelle parole del Pontefice?
Egli ha dato una buona risposta a questa crisi perché, da fine intellettuale, ha ripetuto il messaggio che già fu di Giovanni Paolo II: non abbiate paura del domani. Il futuro è quello che decidiamo di costruire insieme: la fatalità è un dio falso.