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LA COSTITUZIONE, LE REGOLE DEL GIOCO, E IL MENTITORE ISTITUZIONALE ...

ETICA, IMPRESA E POLITICA. Un accorato appello via stampa della figlia-cittadina, Barbara Berlusconi, al padre-presidente del Partito "Forza Italia" e premier del governo d’Italia, Silvio Berlusconi, a cambiare strada!!! Intervista di Luca Ubaldeschi - a cura di Federico La Sala

lunedì 22 settembre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] «La società sta riscoprendo l’etica economica perché sembra suscitare nuovi interessi, collettivi e diffusi. Sempre più governanti, giuristi, economisti, imprenditori, sindacalisti, impiegati, consumatori sentono l’esigenza che le società e i mercati siano regolati da valori comuni che contrastino atteggiamenti illegittimamente consentiti e pericolosamente individualisti. Quello che però non si riesce ancora a capire, e su cui verterà la discussione, è se l’etica ha un effettivo (...)

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> ETICA, IMPRESA E POLITICA. ---- Regolamentazione della finanza o superamento del capitalismo? Marx contrattacca - contro i I trombettieri della moralizzazione (di Lucien Sève).

domenica 14 dicembre 2008


-  Regolamentazione della finanza o superamento del capitalismo?
-  Marx contrattacca

-  di Lucien Sève *

-  Le Monde Diplomatique, Paris - dicembre 2008, 55° anno, n° 657
-  (traduzione dal francese di José F. Padova)

* filosofo, ha appena pubblicato il secondo volume di Penser avec Marx aujourd’hui (Pensare con Marx, oggi) intitolato L’Homme? (L’Uomo?), La Dispute, Paris.

Trascurati dai partiti socialisti europei come “lunatico vecchiume semplicistico” con il quale sarebbe urgente troncare, screditati all’università dove per lungo tempo furono insegnati come una base dell’analisi economica, i lavori di Karl Marx suscitano nuovamente interesse. Il filosofo tedesco non ha forse analizzato minuziosamente la meccanica del capitalismo i cui sussulti fanno perdere la bussola agli esperti? Mentre gli illusionisti pretendono di «moralizzare» la finanza, Marx si è dedicato a mettere a nudo i rapporti sociali.

Si era quasi riusciti a persuadercene: la storia era terminata, il capitalismo, con generale soddisfazione, costituiva la forma definitiva dell’organizzazione sociale, la «vittoria ideologica della destra», parola di primo ministro, era ormai attuata, soltanto alcuni incurabili rimuginatori agitavano ancora il trastullo di non si sa quale futuro.

Il formidabile terremoto finanziario dell’ottobre 2008 ha spazzato via d’un colpo solo questa costruzione mentale. A Londra il Daily Telegraph scrive: «Il 13 ottobre 2008 rimarrà nella storia come il giorno in cui il sistema capitalista britannico ha riconosciuto di aver fallito (1)». A New York i manifestanti brandiscono davanti a Wall Street cartelli con «Marx aveva ragione!». A Francoforte un editore annuncia che le vendite di Il Capitale sono triplicate. A Parigi una nota rivista esamina, in un fascicolo di trenta pagine, a proposito di colui che si diceva definitivamente morto, «le ragioni di una rinascita (2)». La storia si riapre...

Immergendosi in Marx più d’uno fa scoperte. Parole scritte un secolo e mezzo addietro vi sembrano parlare di noi con un’acutezza sorprendente. Esempio: «Dato che l’aristocrazia finanziaria dettava le leggi, dirigeva la gestione dello Stato, disponeva di tutti i poteri pubblici costituiti, dominava l’opinione pubblica di fatto e mediante la stampa, si riproducevano a tutti i livelli, dalla Corte fino al bar malfamato, la medesima prostituzione, lo stesso imbroglio spudorato, la medesima sete di arricchirsi non già mediante la produzione, ma con la sottrazione della ricchezza altrui (3)». Marx con questo descriveva lo stato delle cose in Francia alla vigilia della rivoluzione del 1848... Di che fare sognare.

Tuttavia, al di là di rassomiglianze avvincenti, le differenze epocali rendono ingannevole ogni trasposizione diretta. L’attualità, nuovamente evidente, di questa magistrale Critica dell’economia politica, in cui consiste Il Capitale di Marx, si pone molto più in profondità.

Da dove viene in realtà l’ampiezza della crisi presente? Leggendo ciò che se ne scrive in prevalenza, si dovrebbe porre in discussione la volatilità di prodotti finanziari sofisticati, l’incapacità del mercato dei capitali di regolarsi da sé, il livello infimo della moralità di chi tratta denaro... In breve, lacune del solo sistema che regge ciò che, in contrasto con l’ «economia reale», si definisce «economia virtuale» - come se non si fosse appena misurato quanto essa pure reale lo sia.

Eppure la crisi iniziale dei subprime è proprio nata dalla crescente mancanza di denaro di milioni di nuclei famigliari americani a fronte del loro indebitamento di candidati alla proprietà. Cosa questa che obbliga ad ammettere che in fin dei conti il dramma del «virtuale» ha le sue radici proprio nel «reale». E il «reale», nel caso specifico, è l’insieme su piano mondiale dei poteri d’acquisto popolari. Sotto l’esplosione della bolla speculativa formata dal rigonfiarsi della finanza vi è l’incetta universale da parte del capitale della ricchezza creata dal lavoro e, sotto questa distorsione in cui la parte spettante ai salari è diminuita di più di dieci punti percentuali, colossale diminuzione, in nome del dogma neoliberista vi è per i lavoratori un quarto di secolo di austerità.

I trombettieri della moralizzazione

Mancanza di regolamentazione finanziaria, di responsabilità nella gestione, di moralità della Borsa? Certamente. Ma la riflessione senza tabù spinge ad andare molto più lontano: a mettere in discussione il dogma gelosamente protetto di un sistema di per sé al disopra di ogni sospetto, a meditare su quella spiegazione ultima delle cose che Marx chiama «legge generale dell’accumulazione capitalista». Egli dimostra che là dove le condizioni sociali della produzione sono proprietà privata della classe capitalista, «tutti i mezzi che mirano a sviluppare la produzione si invertono in mezzi di dominio e di sfruttamento di chi produce», sacrificato all’accaparramento di ricchezza da parte dei possidenti, accumulazione che si nutre di sé stessa e tende quindi a diventare folle. «L’accumulo di ricchezza a un polo» ha come necessario rovescio un’ «accumulazione proporzionale di miseria» all’altro polo, dal che rinascono inesorabilmente gli inizi di crisi commerciali e bancarie violente (4). È proprio di noi che si tratta.

La crisi è esplosa nel settore del credito, ma la sua potenza devastante si è formata in quello della produzione, con la ripartizione senza sosta sempre più disuguale dei valori aggiunti fra lavoro e capitale, sconvolgimento questo che un sindacalismo navigante in acque basse non ha potuto impedire e che è stato accompagnato da una sinistra socialdemocratica nella quale si tratta Marx come un cane ormai crepato. Si concepiscono allora quelle che possono valere come soluzioni della crisi - «moralizzazione» del capitale, «meccanismo di regolazione» della finanza - strombazzate da politici, amministratori, ideologi che ancora ieri fustigavano il benché minimo dubbio sulla giustezza del «tutto liberista».

«Moralizzazione» del capitale? Parola d’ordine che merita il premio per l’umorismo macabro. Se effettivamente vi è un ordine di considerazioni che volatilizza qualsiasi regime di sacrosanta libera concorrenza è proprio la considerazione morale: l’efficacia del suo cinismo vince ogni volta in modo tanto sicuro quanto è vero che la moneta cattiva scaccia quella buona. La preoccupazione «etica» è pubblicità.

Marx risolveva la questione in poche righe della prefazione al Capitale: «Non dipingo in alcun modo di rosa il personaggio del capitalista o del proprietario terriero», ma «meno di ogni altra la mia prospettiva, nella quale lo sviluppo della società in quanto formazione economica è inteso come un processo di storia naturale, potrebbe rendere l’individuo responsabile di rapporti dei quali egli rimane socialmente un prodotto (5)»... Ecco perché non basterà certamente distribuire qualche sberla per «rifondare» un sistema nel quale il profitto resta l’unico criterio.

Non si tratta di essere indifferenti all’aspetto morale delle cose. Anzi, al contrario. Ma, preso sul serio, il problema è di tutt’altro ordine che non la delinquenza di dirigenti farabutti, l’incoscienza di trader impazziti o perfino l’indecenza dei paracadute dorati. Ciò che il capitalismo ha d’indifendibile sotto questo aspetto, al di là di ogni comportamento individuale, è il suo stesso principio: l’attività umana che crea le ricchezze vi ha lo status di merce e vi è quindi trattata non come fine in sé stessa, ma come semplice mezzo. Non vi è bisogno di aver letto Kant per vedervi la sorgente permanente dell’amoralità del sistema.

Se si vuole moralizzare sul serio la vita economica occorre prendersela veramente con ciò che la rende immorale. Questo passa di certo - divertente riscoperta, questa, da parte di più di un liberista - attraverso la ricostruzione delle regolamentazioni statali. Tuttavia a questo scopo fare fondamento sul puntello sarkozysta dello scudo fiscale per i ricchi e della privatizzazione della Posta passa i confini dell’ingenuità. Dal momento che si pretende di affrontare la questione della regolamentazione è imperativo ritornare ai rapporti sociali fondamentali - e qui, di nuovo, Marx ci offre un’analisi di imprescindibile attualità: quella dell’alienazione.

Nel suo senso primario, elaborato in testi celebri della [sua] giovinezza (6), il concetto definisce quella maledizione che costringe chi riceve salario dal capitale a non produrre la ricchezza per altri se non producendo la sua propria indigenza materiale e morale: deve perdere la sua vita per guadagnarsela. La multiforme disumanità, della quale sono vittime in massa i salariati d’oggi (7), dall’esplosione delle patologie dei lavori a quella dei licenziamenti borsistici passando per quella dei bassi salari, illustra molto crudelmente la precisione che una tale analisi conserva.

Ma nei suoi lavori della maturità Marx attribuisce all’alienazione un significato ancora più vasto: poiché il capitale riproduce senza sosta la radicale separazione fra mezzi di produzione e produttori - fabbriche, uffici, laboratori non appartengono a coloro che vi lavorano -, le loro attività produttive e cognitive, non controllate collettivamente alla base, sono abbandonate all’anarchia del sistema della concorrenza, nel quale si trasformano in processi tecnologici, economici, politici, ideologici incontrollabili, gigantesche forze cieche che li soggiogano e li schiacciano.

Gli uomini non fanno la loro storia, è la loro storia che li fa. La crisi finanziaria dimostra in modo terrificante quell’alienazione, proprio come lo fanno la crisi ecologica e ciò che si deve definire la crisi antropologica, quella delle vite umane: nessuno ha voluto questa crisi, ma tutti la subiscono.

Da questo «spossessamento generale» portato alle estreme conseguenze dal capitalismo risorgono in modo irrefrenabile le rovinose assenze di regole concertate. Anche colui che si vanta di «regolare il capitalismo» è a colpo sicuro un ciarlatano politico. Regolare sul serio esigerà molto più dell’intervento statale, per quanto possa essere necessario, perché poi chi regolerà lo Stato? Occorre che riprendano possesso dei mezzi di produzione coloro che producono, materialmente e intellettualmente, riconosciuti infine per ciò che essi sono, e che non sono gli azionisti: i creatori della ricchezza sociale, che in quanto tali hanno un diritto irrecusabile di prendere parte alle decisioni della gestione, là dove si decide della loro stessa vita.

Di fronte a un sistema la cui flagrante incapacità di regolare sé stesso ci costa un prezzo esorbitante è necessario, seguendo Marx, avviare senza ritardi il superamento del capitalismo, lunga marcia verso un’altra organizzazione sociale nella quale gli umani, in nuove forme associative, controlleranno insieme le loro potenze sociali diventate folli. Tutto il resto è polvere negli occhi, quindi tragica disillusione promessa.

Si va ripetendo che Marx, forte nella critica, sarebbe privo di credibilità per quanto riguarda le soluzioni, perché il suo comunismo, «messo alla prova» all’Est, sarebbe radicalmente fallito. Questo come se il defunto socialismo di Stalin-Breznev avesse avuto qualcosa di veramente comune con l’intento comunista di Marx, del quale d’altra parte nessuno cerca di cogliere nuovamente il senso reale, agli antipodi di ciò che l’opinione corrente mette sotto il temine «comunismo». Di fatto, è in modo del tutto diverso che si abbozza sotto i nostri occhi ciò che potrà essere, in senso autenticamente marxista, il «superamento» del capitalismo nel XXI secolo (8).

Ma qui ci fermano: volere un’altra società sarebbe un’utopia micidiale, perché non si cambia l’uomo. E l’ «uomo», il pensiero liberista sa chi è: un animale che ha essenzialmente quello che è non dal mondo umano ma dai suoi geni, un calcolatore mosso dal suo solo interesse d’individuo _ Homo œconomicus (9) -, con il quale non è quindi possibile se non una società di proprietari privati in concorrenza «libera e non falsata».

Ora anche questo pensiero ha fatto bancarotta. Sotto la spettacolare disfatta del liberalismo pratico si consuma con minor rumore il fallimento del liberalismo teorico e del suo Homo œconomicus. Fallimento doppio. Scientifico innanzitutto. Nel tempo in cui la biologia si distacca da un «tutto genetico» semplicistico, le ingenuità dell’idea di «natura umana» saltano all’occhio. Dove sono i geni, annunciati a suon di trombe, dell’intelligenza, della fedeltà o dell’omosessualità? Quale spirito colto può credere che la pedofilia, per esempio, sarebbe congenita?

E fallimento etico. Perché ciò che da lustri l’ideologia dell’individuo concorrenziale sponsorizza è una pedagogia disumanizzante del «diventa un killer», una liquidazione programmata delle solidarietà sociali non meno drammatica dello scioglimento dei ghiacci polari, una decivilizzazione a 360° da parte della follia del denaro facile. Che dovrebbe fare arrossire chi osi annunciare una «moralizzazione del capitalismo». Sotto il naufragio storico dove affonda e ci affonda la dittatura della finanza vi è quello del discorso liberista sull’ «uomo».

E qui vi è la più inaspettata attualità di Marx. Perché questo formidabile critico dell’economia è anche, allo stesso tempo, l’iniziatore di una vera rivoluzione nell’antropologia; dimensione incredibilmente misconosciuta del suo pensiero, che non è possibile esporre in venti righe.

Ma la sua sesta tesi su Feuerbach ce ne dice lo spirito in due frasi: «L’essenza umana non è un’astrazione inerente all’individuo preso a sé. Nella sua realtà, è l’insieme dei rapporti sociali». All’opposto di quanto immagina l’individualismo liberista, l’ «uomo» storicamente sviluppato è il mondo dell’uomo. Per esempio, lì e non nel genoma esiste il linguaggio. Lì prendono origine le nostre funzioni psichiche superiori, come ha superbamente dimostrato quel marxista a lungo sconosciuto che fu uno dei più grandi psicologi del XX secolo: Lev Vygotski, che ha così aperto la strada a una visione completamente diversa dell’individualità umana.

Marx è attuale e perfino più di quanto si pensi? Sì, se si vuole attualizzare l’immagine tradizionale che di lui troppo spesso ci si fa. The Daily Telegraph, Londra, 14 ottobre 2008

-  (1) Le Magazine littéraire, n° 479, Paris, ottobre 2008.
-  (2) Karl Marx, Les Luttes de classes en France, Editions sociales, Paris, 1984, p. 84-85; citato in Manière de voir, n° 99, «L’Internationale des riches», juin-juillet 2008.
-  (3) Karl Marx, Le Capital, tomo I, Editions sociales, 1983, ou Presses universitaires de France, Paris, 1993, p. 724.
-  (4) Le Capital, tomo 1, p. 6.
-  (5) «Le travail aliéné», Manuscrits de 1844, Flammarion, Paris, 1999.
-  (6) Lire Christophe Dejours, Travail, usure mentale, Bayard Paris, 2000; «Aliénation et clinique du travail», Actuel Marx, n°39, «Nouvelles aliénations», Paris, 2006.
-  (7) Dans Un futur présent, l’après-capitalisme, La Dispute, Paris, 2006, Jean Sève abbozza un quadro impressionante di questi inizi di superamento che si possono osservare in settori molto differenti.
-  (8) Leggere fra gli altri Tony Andréani, Un étre de raison. Critique de l’Homo œconomicus, Syllepse, Paris, 2000.


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