ANTROPOLOGIA E FENOMENOLOGIA DELL’ESPERIENZA (POSSIBILE):
CON KANT (DANTE, PROUST, E HUSSERL), ALLA RICERCA DELL’ IO "ASSENTE".
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"L’ESPERIENZA IMPOSSIBILE
di Irene Calabrò (FataMorgana Web, 15 luglio 2024)
In uno dei testi che compongono Idea della prosa, Giorgio Agamben trova il modo di esprimere l’inesprimibile, un’«esperienza decisiva che, per chi l’abbia avuta, si dice sia così difficile da raccontare», che «non è nemmeno un’esperienza» (2013, p. 15): è «il punto in cui tocchiamo i limiti del linguaggio» (ibidem); il punto in cui tocchiamo la nostra materia.
Cosa significa per uno scrittore o per una scrittrice toccare la materia della parola? Significa forse, seguendo Agamben, fare un’esperienza indicibile; un’esperienza impossibile da raccontare, e che, tuttavia, è la materia che dà forma a qualsiasi scrittura, a qualsiasi racconto. Forse il racconto, che è la messa in forma dell’esperienza, può essere formato solo da chi abbia esperito l’impossibilità di raccontare; che abbia, cioè, fatto esperienza di un’impossibilità di fare esperienza. Che sia stato in un luogo e in un tempo in cui non può, però, dire di esserci stato - quello che Agamben, altrove, definisce un «vuoto centrale, una sospensione o uno scarto», un foglio bianco: «Come se al centro di tutto quello che ho provato a vivere e a scrivere ci fosse un istante, anche solo un quarto di secondo, perfettamente vuoto, perfettamente invivibile» (Agamben 2022, p. 65).
Che ci sia un istante invivibile, significa, innanzitutto, che in un tempo e in luogo imprecisabili, qualcuno non ha potuto fare esperienza di ciò che tuttavia stava esperendo; uno scarto, in cui l’io che cerca di ricordare non può dire di essere stato quell’io che ha vissuto quello che ha vissuto. In effetti, la condizione di possibilità principale che permette di fare esperienza, in un determinato spazio e in un determinato tempo, è la possibilità di dire io. Ma non è proprio rispetto al passato che l’io si trova, spesso, necessariamente, costretto a dubitare della sua presenza passata? Al termine della postfazione al suo testo Patologie (Quodlibet, 2024), Antonella Moscati ragiona proprio su questo vortice di tensioni: c’è un’incalcolabile frazione di tempo che separa le percezioni, le sensazioni, il vissuto dalla memoria che ne abbiamo, ossia dal momento di «registrazione contemporanea o quasi contemporanea di ciò che viviamo» (Moscati 2024, p. 96), separazione che aumenta col passare del tempo, e che è «all’origine di ciò che consideriamo un io umano» (ibidem).
Patologie è composto da due testi, Patologie e Agt. Il primo è «una narrazione semicomica» di una materia, le malattie, che per Moscati è una «materia [...] sempre dolorosa» (ivi, p. 93), di cui si trova traccia in altre sue narrazioni, come in Deliri (2009) o in Una quasi eternità (2022). Quel racconto, in cui Moscati rimaneggia la tara della sua famiglia, ossia la paura delle malattie mortali (ivi, p. 9), è una commedia che è contraria alle sue «disposizioni abituali» narrative (ivi, p. 93), che invece si riconoscono nel secondo racconto, Agt, in cui narra di un episodio di amnesia globale transitoria, che non ha «proprio niente di comico», e che è scritto nella forma più consona a Moscati, ossia «quella che cerca di ritagliare uno spazio fra teoria e narrazione, fra filosofia e vissuto» (ibidem). Benché Patologie e Agt siano allora diametralmente opposti, sono messi insieme perché appaiono «come le due facce di una stessa medaglia, due modi opposti per interrogarsi sulla stessa cosa: come nasce il ricordo, chi è che ricorda, quando, come e se possiamo dire che un ricordo è vero» (ivi, pp. 93-94).
Patologie è un racconto dettagliato della maniera in cui quella tara di famiglia - la paura delle malattie, tutte (o quasi) mortali - prendeva forma: dalla considerazione delle malattie da parte del padre, un «dermosifilopatico» che credeva che «potessero guarire solo le malattie che, come la tonsillite, la sifilide e la scabbia, si vedevano a occhio nudo» (ivi, p. 14), alle pratiche quasi religiose che aiutavano a gestire l’ansia di contrarre malattie, come la lettura del «Roversi», la «bibbia medica» che Moscati e le sue sorelle leggevano anche prima di addormentarsi: «Di certo meno commovente di Piccole donne o Pattini d’argento, ma molto più istruttivo intorno a tutte quelle nozioni che ci sarebbero servite nella nostra carriera di medico non medico» (ivi, p. 33). Fino ad arrivare a immaginare una soluzione per non vivere più nella perenne proiezione di possibili malattie mortali: «Fuggir via dai nostri corpi»; sentirsi «parti infinitesimali, atomi, anzi fotoni, quarks, quanti o addirittura neutrini» (ivi, p. 61); trasferirsi in una dimensione che supera anche la distinzione tra vita e morte, «perché in quell’infinita materia fisica e metafisica morire non è nemmeno come galleggiare e respirare al ritmo e al passo delle brezze e delle onde marine, ma solo come scomparire o comparire nell’aritmia del soffio di venti poderosi, nei movimenti delle onde e delle tempeste cosmiche, delle turbolenze che spazzano le giganti rosse disperdendo le sabbie stellari» (ivi, p. 62).
Agt, invece, è un chiaro momento di riflessione filosofica, dove l’accumulo di ricordi del primo testo sparisce per fare spazio a un buco nella memoria: un episodio accaduto in una mattina di fine maggio al mare, dove Moscati fa esperienza di un’assenza di sé, quindi propriamente, di un’esperienza impossibile. «Agt è acronimo di Amnesia globale transitoria, dove globale sta per retrograda e anterograda, oblio cioè di quanto è accaduto prima e di tutto quanto accade o sta accadendo durante l’episodio di amnesia» (ivi, p. 65).
Moscati riflette sulla sua impossibilità di ricordare quell’episodio, perché nell’Agt «non c’è nessuno che registri alcunché, perché io mi assento, io scompaio» (ivi, p. 67). «L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni» è la frase della Critica della ragion pura di Kant a cui Moscati pensa nel momento in cui, subito dopo l’attacco di Agt, recupera «la memoria, quella cosciente, quella che rileva scrupolosamente tutte le nostre percezioni nel momento in cui ci accadono, attestandone così l’esistenza» (ibidem).
Ed è il ritornello del racconto: in quella frase di Kant, si condensa la possibilità dell’io di registrare coscientemente le rappresentazioni, ossia «tutto ciò che si presenta volontariamente o involontariamente alla mente» (ivi, p. 69), e che permette di dire a un io di aver propriamente esperito. In quella mattina al mare, però, benché fosse sveglia e in grado di dare le sue generalità, la sua coscienza si è eclissata, come se qualcuno l’avesse sostituita: «Al mio posto, allora chi c’era? Chi è quell’ombra antica, quel residuo incolore, cieco e sordo, che pur senza aver perso i sensi ne è completamente privo, perché sentire è sempre anche sapere di sentire, forse persino per i neonati» (ivi, p. 71). È possibile considerare un’esperienza quel momento in cui l’io scompare e al suo posto sembra che qualcun altro viva, parli, si muova, guardi senza coscienza alcuna, ossia senza lasciare traccia del vissuto? Quel momento in cui, spiega Moscati con Leibniz, forse sì, si percepisce, ma ciecamente, ossia senza appercepirsi, senza vedere che si sta percependo (ivi, pp. 74-75). Sarà, forse, un’esperienza davvero materica, che si libera di qualsiasi rappresentazione delle rappresentazioni? Che rapporto intrattiene, in quel caso, il pensiero con la memoria, con la registrazione contemporanea della cosa che si sta esperendo? E dove va a finire quell’“io penso” senza cui non si può neppure scrivere? O forse è proprio quella regione impensabile che, diviene, poi, la materia stessa della scrittura?
Di quell’episodio, Moscati riesce a mettere insieme per lo più una serie di domande sulla possibilità o meno di dire che l’io umano è tale anche quando sparisce, anche quando si dimentica di sé:
L’io penso che non registri le percezioni non ha memoria, non pensa, non è un io. Percepisce come un animale: in effetti, «gli animali non hanno io, ma hanno percezioni e memoria, forse anche una certa consapevolezza delle percezioni. Probabilmente anche per gli animali in ogni sentire c’è la percezione di sé che percepisce, ma, mancando loro la parola, quell’amalgama compatto di percezione appercettiva dal quale e nel quale ha inizio il pensiero non può mai sapersi e rammemorarsi come tale, venendo a coscienza saputa» (ivi, p. 77).
Alla fine di Deliri, Moscati racconta che una volta, a Trapani, qualcuno le spiegò che i tonni, «animali così grossi e possenti» restano «preda quasi senza reagire delle reti in cui cadono durante la mattanza» per un difetto di vista (Moscati 2009, p. 102): «I tonni vedono gli oggetti vicini molto ingranditi e sopravvalutano quindi la grandezza e la forza delle maglie della rete. Ritengono perciò che sia impossibile forzarle e si mettono a passeggiare lentamente forse per riflettere sul da farsi. Ed è proprio qui, in questo momento di pausa, d’indecisione o di scoraggiamento, che i pescatori affondano i loro arpioni» (ivi, p. 102). La morte dei tonni è destinata a ripetersi perché, come spiega Moscati, nessun tonno è mai tornato da “quell’esperienza di morte” per raccontare l’errore. Accade perché un tonno non può dire e raccontare quell’errore? Forse, però, alcune scritture e alcuni racconti fanno leva proprio su quell’impossibile, su una sorta di “esperienza di morte”: su un buco nell’esperienza; su un’assenza dell’io. Uno scarto nell’esperienza che, tuttavia, diviene la materia stessa della scrittura: una potenza di dire nel vuoto - al limite, una scrittura animale.
In fondo, qualsiasi scrittura, qualsiasi racconto che traggono la loro linfa da un momento del passato devono scontrarsi con un mero dato di fatto: chi scrive non è più nel momento e nel luogo di cui scrive. Poco importa, allora, se l’accaduto che si rimaneggia sia stato vissuto realmente o meno: una specie di in-archiviabile governa quelle “rappresentazioni”, perché il ricordo conservato solo nella mente sembra sfuggire a qualsiasi possibilità di riproduzione che permetta di ripeterlo in altri tempi e luoghi, imponendo a chi scrive di fare i conti con uno scarto nel vissuto, con un’esperienza di cui non è più possibile fare esperienza. Come se la scrittura avesse a che fare con l’irrappresentabile: la morte, ossia con l’esperienza impossibile per eccellenza. Anche in Patologie, in fondo, si fa leva su uno scarto: «Poiché probabilmente anche nel più sincero e abbagliante ricordare ci sono stati strappi impercettibili che abbiamo ricucito con maestria» (Moscati 2024, p. 95).
Patologie, dunque, sembra derivare da un vuoto; un vuoto che diviene la possibilità stessa della scrittura, laddove si mostra che la materia del racconto e delle riflessioni è l’esperienza, talvolta anche impercettibile, della sparizione dell’io.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2013.
Id., Quel che ho visto, udito, appreso..., Einaudi, Torino 2022.
A. Moscati, Deliri, nottetempo, Roma 2009.
Id., Una quasi eternità, Quodlibet, Macerata 2022.
NOTE: