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"DIO NON E’ CATTOLICO" (Carlo Maria Martini). E L’AMORE (Deus CHARITAS est) NON E’ MAMMONA (Benedetto XVI, "Deus CARITAS est", 2006)!!!

IL PADRE NOSTRO E’ AMORE NON MAMMONA. ROBERTA DE MONTICELLI URLA "BASTA" A MONS. GIUSEPPE BETORI, A BAGNASCO, E ALLA CHIESA CATTOLICA. L’abiura di una cristiana laica - a cura di Federico La Sala

lunedì 6 ottobre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] C’è ancora qualcuno che ancora pretenda sia degna del nome di morale una scelta fondata sull’autorità e non nell’intimità della propria coscienza? “Non siamo per il principio di autodeterminazione”, dichiara mons. Betori, e lo dichiara a nome della chiesa italiana. Ma si rende conto, Monsignore, di quello che dice? Amici, ve ne rendete conto? E’ possibile essere complici di questo nichilismo? Questa complicità sarebbe ormai - lo dico con dolore - infamia [...]
L’"UOMO (...)

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> IL PADRE NOSTRO E’ AMORE NON MAMMONA. ---- A chi l’esclusiva dei diritti umani? (di Roberta De Monticelli).

venerdì 4 marzo 2011

A chi l’esclusiva dei diritti umani?

di Roberta De Monticelli (Saturno, 4 marzo 2011)

Nel momento in cui ci interroghiamo sul senso e sul futuro delle rivoluzioni in Nordafrica, non c’è forse un testo migliore su cui meditare che la grandiosa Antologia mondiale della libertà, già disponibile on line in tre lingue sul sito dell’Unesco, alla cui versione italiana si sta in questi mesi lavorando. Cos’è, come nasce, questa raccolta di testi che coprono l’arco di due millenni, racchiusi in quasi seicento pagine?

È una splendida avventura del pensiero umano, e vale la pena di raccontare come nacque. Immaginate di trovarvi nel giardino della sede storica dell’Unesco, a Parigi. Là c’è un piccolo edificio di meditazione, cilindrico e vuoto. A rendere il senso di quello che prova chi vi sosti qualche istante non ci sono forse parole più adatte di queste: «Tutte le civiltà veramente creatrici hanno saputo... creare un posto vuoto riservato al soprannaturale puro ... tutto il resto era orientato verso questo vuoto». Le scrisse Simone Weil nelle sue Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione (1937). Teniamole in mente, perché sono quasi certamente all’origine invisibile di questa avventura.

Per l’origine visibile, dobbiamo di nuovo darci appuntamento a Parigi, ma nel 1968. Si festeggia il ventennale della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Jeanne Hersch - professoressa di filosofia a Ginevra, allieva di Jaspers, compagna di studi di Hannah Arendt e per un paio d’anni in carica all’Unesco, dove dirige la sezione di filosofia - decide di impegnare le risorse di quell’organizzazione in un audace esperimento storico ed etnografico. Chiede ai rappresentanti di tutti i Paesi di inviarle testi tratti dalle loro tradizioni, anteriori al 1948, «in cui si manifestasse, secondo loro, in qualunque forma, un senso dei diritti dell’uomo». Dai paesi più lontani, dalle epoche più remote, arrivavano a Parigi pensieri espressi in una babele di lingue, morte e vive: come offerte «con pietà conservate nei veli di parole d’altri tempi e altri luoghi». Così fu impostata una sorta di verifica sul campo della vexata quaestio: è o non è un concetto puramente «occidentale» quello dei «diritti dell’uomo»?

Peccato che molti continuino a ignorare questa preziosa documentazione, costituita dal libro sorprendente e magnifico di Jeanne Hersch, Le droit d’être un homme, la cui edizione francese porta il sottotitolo Anthologie mondiale de la liberté. Fu la base empirica della sua riflessione sul fondamento dei diritti umani, proseguita fino alla morte, nel 2000, ora disponibile anche in italiano a cura di Francesca De Vecchi (I diritti umani da un punto di vista filosofico, Mondadori). E qual è il risultato di questa riflessione, che passa attraverso le culture religiose dei popoli antichi e moderni, ma anche gli autori fondamentali del pensiero occidentale, da Montesquieu, Beccaria e Tocqueville fino a Maritain e Roosevelt? A differenza dei giuspositivisti come Norberto Bobbio, non si accontenta di ritenere la Dichiarazione espressione di un ethos fra gli altri, incapace di giustificazione universale; a differenza dei giusnaturalisti, constata che in natura la legge del più forte ha la meglio. Tuttavia, la prima questione che i diritti umani pongono è quella della loro ragion d’essere, del loro fondamento.

Qui il passaggio attraverso «le offerte» delle culture religiose e arcaiche si rivela non vano: è proprio là - ci dice Hersch, rovesciando tutti i luoghi comuni - che il fondamento si disvela. Questo è, in ogni cultura, l’esigenza degli esseri umani di essere riconosciuti in ciò che hanno di propriamente umano: la libertà, intesa nella sua radice “selvaggia”, assoluta. Essere liberi è essere capaci d’accettare volontariamente la morte, purché sia salvo ciò che è più importante della vita stessa. Come Antigone, o come Socrate. Non c’è libertà fuori da questo impegno assoluto, da questa pericolosa posta in gioco. Ecco perché è vano, spiega Hersch, il tentativo di ridurre il rispetto dei diritti umani al rigetto di ogni impegno verso l’assoluto, a una neutralità ragionevole e pragmatica.

Certo, un impegno verso l’assoluto è sempre pericoloso: attraverso l’integralismo, rischia di ispirare e giustificare le peggiori violazioni dei diritti umani. E allora? Ecco l’intuizione profonda: la possibilità di riconoscere che anche l’altro sta «di fronte all’assoluto» e che nessuno lo possiede è intrinseca a ogni religione in quanto apertura alla trascendenza. Ogni cultura teologica sa chel’idolatria è il più grande dei peccati: non è parlare «di fronte all’assoluto», ma in nome dell’assoluto, come se lo si possedesse. Occorre «conoscere Dio come ignoto». Jeanne Hersch ha scoperto la via che libera potenzialmente ogni cultura teologica dal rischio della teopolitica, e l’apre alla speranza cosmopolitica.


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