Obama, il razzismo e l’italia
di Barbara Spinelli (La Stampa, 19.10.2008)
Non è la prima volta che gli italiani s’interrogano su propri difetti e chiusure, pur credendo d’essere un popolo per natura buono, aperto al forestiero e innocente. L’innocente spesso è attratto dal male - specie dai vizi contrari alle proprie virtù - perché certi mali li ha magari patiti, ma non vedendoli in sé non li conosce. È quel che succede oggi, con il moltiplicarsi di xenofobie e violenze. Dopo la caduta di Prodi i vizi si sono dilatati, e non solo a causa di dispositivi come le impronte digitali ai bambini rom o il reato di clandestinità, ma perché in concomitanza con quella caduta son svaniti d’un tratto un gran numero di tabù e inibizioni.
La volontà di creare classi separate per i bambini immigrati che non padroneggiano l’italiano, manifestata dalla Lega, nasce in questo clima, già torbido. Sul New York Times del 12 ottobre, Rachel Donadio osserva che la xenofobia è particolarmente forte in Italia, «trasformatasi solo di recente in Paese d’immigrazione». Ragionare sull’integrazione è difficile quando il multiculturalismo cessa di essere una possibilità diventando un fatto, e dai cieli dell’ideologia tocca atterrare sul pavimento del reale. Il razzismo è bestia strana: a volte esiste prescindendo dalle razze (l’antisemitismo senza ebrei in Est Europa o Asia), altre volte è diffuso pur essendo condiviso da pochi (il razzismo senza razzisti in America).
Tanto più importante è quello che accadrà negli Stati Uniti, il 4 novembre. Se Barack Obama dovesse vincere, molte cose cambierebbero nei Paesi europei tentati dalla chiusura allo straniero, non solo nella politica ma nel costume e nella conversazione cittadina. Per forza il ragionamento sulla mescolanza di culture incorporerebbe le scosse d’Oltreoceano.
Come nella finanza mondiale, anche queste scosse hanno le caratteristiche della tempesta perfetta, del perfect storm raccontato dallo scrittore Sebastian Junger. Così son chiamate le tempeste i cui effetti sono massimizzati dal concorrere imprevisto di circostanze diverse, che mutano non solo l’agire ma il pensare. Analoga tempesta potrebbe scompaginare le nostre società, qualora Obama vincesse.
Sono decenni che intellettuali e politici s’ingegnano a denunciare il politicamente corretto, che negli Anni 70 impedì di analizzare seriamente le differenze fra culture o generi, e addirittura negò tali differenze. Questa idealizzazione produsse un’ideologia contraria non meno astratta, fautrice del politicamente scorretto, che senza speciali patemi condona la xenofobia. Anche nel rapporto col diverso, come nella finanza, i paradigmi dominanti sono inciampati sulla realtà, fallendo.
Naturalmente il razzismo - come il fascismo - non è lo stesso di ieri. Mutano le parole, gli atti. Ma se un politico consapevole come Fini comincia ad allarmarsi, c’è da stare attenti. Il fondatore di An conosce bene il lato buio dell’innocenza italiana. Se dice, come giovedì alla sinagoga romana, che «razzismo e xenofobia sono una sorta di mostro che può risorgere in forme e modalità diverse»; se aggiunge che «in Italia ci sono troppe, troppe dimostrazioni di ignoranza, paura, avversione», e che questi fenomeni, «se non affrontati nei modi dovuti, possono diventare razzismo», vuol dire che qualcosa di marcio c’è.
Meglio chiamarlo xenofobia, perché il razzismo si concentra sulla natura genetica del diverso. Ma all’origine è sempre la diversità che incollerisce, e nascondersi dietro distinguo linguistici non aiuta. Perfino la religione può divenire un diversivo: il giornalista Nicholas Kristof sostiene che le voci su Obama musulmano sono in realtà surrogati della calunnia razziale (New York Times, 21 settembre). Non sarà razzismo quello che abbiamo davanti, ma di certo è il sentimento che l’antropologo Claude Lévi-Strauss descrisse nel ’52 e nel ’71 (Razza e Storia. Razza e cultura, Einaudi 2002): è paura dell’ibrido culturale. Questo sentimento, unito a ingredienti come l’ignoranza citata da Fini e alla diseguaglianza mondiale che accentua le migrazioni di popoli, sfocia in razzismi moderni spesso sottovalutati anche dai liberali.
Proprio perché sta trasformandosi, l’Italia deve fabbricarsi con urgenza un pensiero e una politica lungimiranti sulla società multiculturale. Isolare dalle classi i bambini stranieri, schedare i rom: sono mosse emotive non solo pericolose ma sterili, come la storia di molti Paesi europei insegna. Lo ricorda il linguista Tullio De Mauro: «Più le classi sono eterogenee, migliori sono i risultati degli alunni. Dei più bravi e dei peggiori» (Corriere della Sera, 17 ottobre). Chi lascia passare simili idee accetta che l’integrazione avvenga in tali modi: sbrigativi, brutali, e infruttuosi. Lévi-Strauss descrive le trappole di un’integrazione che accorpa il diverso odiando la varietà: «è in pericolo la civiltà», la sua capacità di preservarsi mutando. Il progresso avviene solo «quando si creano coalizioni di culture»: solo in tal caso, scrive, non si ha storia stazionaria, solitaria, ma storia cumulativa come nel Rinascimento o nel Neolitico. L’avversione al meticciato espressa da Marcello Pera, il 21 agosto 2005, fu un contributo non minore alla tempesta odierna: sinonimo di bastardo, il meticcio era sospettato di aprire le porte «all’immigrazione incontrollata», al declino demografico, «e così via, di allarme in allarme».
Il discorso sulla razza che Obama ha tenuto a Filadelfia il 18 marzo è decisivo anche per l’Italia che sta divenendo melting pot, crogiolo dove varie culture formano la nazione. L’editore Rizzoli ha avuto l’ottima idea di pubblicarlo, con una prefazione di Giancarlo Bosetti (Sulla razza, 2008). Conviene leggerlo, perché aiuterà a capire meglio presente e futuro. Ci si renderà conto che molto resta da fare, per eliminare non solo i pregiudizi dei bianchi ma anche dei neri. Ambedue sono chiamati a una rivoluzione mentale, da Obama. I bianchi devono scoprire che esiste ormai un razzismo senza razzisti, come spiegato da importanti sociologi (Eduardo Bonilla-Silva, Racism without Racists, 2003; Michael Brown, Whitewashing Race, 2005). Ma anche le minoranze nere, accecate da pregiudizi, devono trasformarsi.
Il fatto è che dal dopoguerra esiste una sorta di consenso progressista, a proposito delle minoranze, modellato sulla storia israeliana e sull’idea che ogni minoranza oppressa o discriminata, cominciando dai neri americani, ha da compiere un Esodo dalla schiavitù. L’Esodo è il nuovo mito planetario, e in genere si combina con il rigetto dell’assimilazione avvenuto nell’ebraismo europeo. Ambedue - mito e rigetto - vanno oggi rimeditati: la frammentazione identitaria non può divenire il modello d’ogni minoranza, pena l’impossibilità di quella coalizione delle culture cui accenna Lévi-Strauss quando invoca una storia cumulativa, non statica. L’assimilazione va rinominata, ma da essa occorrerà ripartire.
È come se Obama avesse appreso da Lévi-Strauss le insidie delle solitudini storiche che fossilizzano. Quando dice che l’Unione creata dai fondatori americani non è compiuta ma da compiere, quando ricorda al reverendo Wright della Chiesa Nera che «la società non ha nulla di statico» ma può cambiare, migliorare, smaschera gli stereotipi bianchi e anche la fuga dei neri nell’identità chiusa e nella disperazione. L’audacia della speranza è possibile perché le società vive non sono immobili. Vale anche per l’Italia.
L’uomo xenofobo ha le passioni tristi descritte da Spinoza: risentimento, paura che svuota il futuro, incapacità di sperare e perfino desiderare. Acchiappa salvagenti con gesti di naufrago, pensando che la vita sia un gioco a somma zero, in cui guadagniamo se l’altro perde. Una vittoria di Obama farebbe bene non solo all’America, e non perché sia un candidato nero o di sinistra. Perché confuterebbe la storia stazionaria in cui ogni civiltà stagna e perisce. ______________________________________________________________
Nel sito, si cfr. anche ELEZIONI USA. LA DEMOCRAZIA, LO SPIRITO DI FILADELFIA DI OBAMA, E L’INTEGRALISMO DELLE CHIESE INVISIBILI