Il vescovo in armi nel Congo insanguinato
di Daniele Mastrogiacomo (la Repubblica, 11 dicembre 2012)
Sette ore di viaggio nella più grande foresta equatoriale africana. Su una strada di terra rossa, avvolti dalla giungla, tra dossi di pietre, buche che sembrano crateri e un fiume di fango. Per raggiungere il centro operativo dell’M23, i duemila soldati ribelli che guidati dal vescovo Runiga Rugerero hanno conquistato il cuore della regione più ricca di materie prime dell’intero Congo e che hanno messo in subbuglio gli interessi di decine di Paesi occidentali e di altrettante imprese multinazionali, bisogna inoltrarsi nel Rutshuru: un territorio che il governo centrale di Kinshasa ha di fatto abbandonato. Dopo decine di colline e altrettante pianure raggiungiamo Bunagana, sede del quartiere generale del “Movimento 23 marzo”, un piccolo villaggio al confine con l’Uganda, dove vive arroccato l’ex monsignore di Goma: racchiuso tra dolci colline coltivate a tè, avvolto da boschi di banani, tappeti di felci, distese di palme da ananas, domina dall’alto l’immenso parco naturale di Virunga. «Se mi verrà a trovare», ci ha proposto il vescovo, «conoscerà la nostra terra, capirà chi siamo e perché lottiamo». Ma prima bisogna uscire da Goma, la capitale del Nord Kivu. Lasciare questo inferno di centomila disperati dove da 20 anni le Nazioni Unite, con la missione Monuc, assieme a un centinaio di ong si affannano per una rinascita impossibile.
La strada non esiste. Come tutte le strade del Congo. Il vecchio manto d’asfalto, tracciato ai tempi dell’ex Zaire da Mobutu per affrancarsi le lontani regioni dell’Est, è stato mangiato da migliaia di camion e dalle piogge torrenziali. Piove anche adesso. Cascate di acqua sferzano uomini, donne e bambini piegati sotto il peso di sacchi, fasci di canne da zucchero, cataste di legna e di erba. I più fortunati hanno una bicicletta; i più forti la tipica carriola congolese in legno che rischia di rovesciarsi a ogni dosso perché sommersa dal carico. Donne, uomini e bambini, hanno ceste colme di frutta, manioca, patate e carote che portano sul capo con un equilibrio elegante e naturale. Nessuno si lamenta. Tutti sono coinvolti in questo sforzo collettivo: in Africa si partecipa al lavoro familiare fin da piccoli. Non è raro vedere bambini di pochi anni carichi di bidoni d’acqua che devono raccogliere ogni giorno a chilometri di distanza. Trascinano il loro carico con una cinta passata sulla fronte, seguiti a distanza dai genitori.
La folla arriva dalle campagne per vendere i prodotti al mercato. Ma deve prima affrontare i posti di blocco controllati dalla polizia e dall’esercito ufficiali. Veri centri del taglieggio. Soldi in cambio del passaggio. Erano spariti. Per dieci giorni: il tempo della permanenza dei soldati dell’M23. Dopo il ritiro dei ribelli e il ritorno dell’esercito regolare delle Fardc, tutto è tornato come sempre. Agenti e soldati gridano, bloccano le auto, chiedono i documenti, frugano tra i sacchi. Chi può paga, gli altri si rassegnano. Cedono cibo, vestiti, oggetti. C’è di nuovo grande tensione. I modi bruschi dei militari trasudano vendetta. Il 20 novembre scorso, dopo una breve e intensa battaglia in cui ci sono stati 90 morti, i soldati lealisti hanno dovuto ripiegare sotto l’offensiva dei ribelli, lasciare Goma e fuggire nel sud del Kivu. È stata una vera umiliazione. Adesso si rifanno del lungo digiuno: razziano quello che possono. Il Congo è fatto così: la corruzione, dilagante, sistematica, impunita, affonda il più ricco paese del pianeta. A vantaggio dei clan al potere che sfruttano la debolezza politica e di immagine del presidente Joseph Kabila. Isolati, pagati male e raramente, i soldati delle Fardc contano sul fucile e la divisa per riaffermare il loro potere. E sopravvivere.
Tra Kinshasa e Goma ci sono 1500 chilometri di foresta, malaria, dissenteria. Niente strade, niente ferrovie. Solo il vecchio fiume Congo, il “cuore di tenebra” del capitano Joseph Conrad, unisce due terre così diverse e così lontane. Con i suoi pericoli, le sue tribù aggressive nei confronti del mundele, l’uomo bianco da sempre alla ricerca di avorio e di caucciù e oggi di diamanti. Fino all’oro, al rame, al coltan, tanto utile per i nostri pc e telefonini. E al petrolio, scoperto proprio qui, nel nord del Kivu.
Gli uomini dell’M23 hanno lasciato Goma ma restano piazzati a due chilometri di distanza. Le pressioni dei paesi vicini, Ruanda e Uganda in testa, e le condanne internazionali li hanno convinti a recedere. La ritirata non è stata una sconfitta; al contrario: è una vittoria. Politica, soprattutto. Era la condizione per negoziare. Si sa che nelle guerre di guerriglia si negozia quando si vince. Quando si perde si viene bombardati e travolti. I ribelli, che si fanno chiamare anche “Armata rivoluzionaria congolese”, hanno accettato. Siedono da domenica al tavolo delle trattative aperte in Uganda, in un paese neutro, davanti agli osservatori internazionali. Lo stesso ha fatto Joseph Kabila. E questo equivale a un riconoscimento politico dell’M23 da parte del governo centrale di Kinshasa: un interlocutore ufficiale, ben diverso dalla ventina di milizie (tra Maï Maï, Nyatura, Fdc e gli estremisti hutu del Fdlr) che agisce nella regione, tra violenze e saccheggi, provocando ondate di profughi.
Le rivendicazioni sono semplici: pari diritti di tutti i soldati delle Forze armate della Repubblica democratica del Congo. Con tanto di grado, salario, anzianità. Rientro dei rifugiati, distribuzione delle ricchezze in tutte le regioni del paese. Questi duemila militari sono e si sentono congolesi. Qui sono nati e qui vogliono restare. Ma la loro origine etnica ruandese, a maggioranza tutsi, finisce per farli discriminare tra le fila dell’esercito di Kinshasa. Le scelte degli imperi coloniali non reggono ai mutamenti della storia. Fu il Belgio di re Baldovino I a sfruttare negli Anni ‘50 l’esplosione demografica del Ruanda per assoldare nuova forza lavoro da usare nelle fabbriche del Kivu. Dopo mezzo secolo sono 800mila: un terzo dell’intera popolazione congolese.
Le ambizioni ruandesi e ugandesi sulla regione sono evidenti. Ma nel caso dei ribelli dell’M23 emergono motivazioni più profonde. La discriminazione etnica sostenuta dagli imperi coloniali, con tanto di carta di identità su cui veniva indicato il proprio ceppo di appartenenza, fino al genocidio in Ruanda di un milione di tutsi e moderati hutu nel 1994 agitano fantasmi e paure. Sentimenti che gli accordi del 23 marzo 2009, tra il Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp) del generale Laurent Nkunda e il governo di Joseph Kabila, avevano placato.
Le milizie venivano smantellate, tutti i ribelli sarebbero stati integrati nell’esercito nazionale, il Kivu avrebbe avuto gli aiuti e il giusto peso nelle decisioni centrali. Ma gli accordi - da cui prende il nome M23 - non sono mai stati applicati. Il Kivu è ambito da molti.
Così, mantenere un Congo instabile fa comodo a tutti. Avere nel Kivu un nuovo interlocutore come l’M23 altera equilibri e punti di riferimento. Significa rimettere in discussione gli accordi raggiunti a Kinshasa. Significa perdere le esclusive e le tangenti già versate. I ribelli lo sanno. Chiedono trasparenza e la distribuzione delle ricchezze in tutto il paese. Hanno bisogno di uno Stato, di istituzioni, di legalità. Nei cartelli che punteggiano la zona, oltre alla avvertenze sanitarie, alla condanna delle violenze sessuali, alle campagne contro l’Aids, si incita a combattere la corruzione.
Non vediamo bambini soldato, né raccogliamo denunce di donne violentate. Le razzie segnalate a più riprese da ong e Nazioni Unite sono altre: mezzi dell’amministrazione e armi abbandonati a Goma dall’esercito in fuga. Li vediamo con i nostri occhi. Jeep e camion con l’insegna della polizia congolese sfrecciano lungo le strade che collegano le decine di villaggi della regione. Li usano i ribelli, divise da soldati e poliziotti con lo stemma dell’M23 sulla manica, per controllare la regione del Rutshuru e difendere la popolazione dalle milizie di banditi. Fanno quello che il governo centrale di Kinshasa non ha mai fatto. Pronti a conquistare nuovo territorio se il tavolo dei negoziati salterà. Come già rischia di avvenire.
“Mancano scuole e strade ci battiamo per questo”
intervista a Runiga Rugerero
a cura di Daniele Mastrogiacomo (la Repubblica, 11 dicembre 2012)
«Noi chiediamo solo rispetto. Come congolesi e come uomini che lottano per la dignità, lo sviluppo, la giustizia», ci dice l’ex vescovo di Goma Jean-Marie Runiga Rugerero, oggi presidente e guida spirituale dell’M23. Un vescovo cattolico che si sente un po’ italiano. «Da piccolo», ci confida con orgoglio e nostalgia, «sono stato adottato da una donna di Salerno. La sento spesso e so che mi ama».
Cosa prevedevano gli accordi del 23 marzo 2009?
«Il riconoscimento dei gradi dei soldati, il ritorno dei rifugiati nei luoghi di origine, la creazione di una unità di riconciliazione in Congo». Perché sono stati disattesi? «Le elezioni del 2011 hanno reso più difficile la situazione. La democrazia è stata presa in ostaggio».
Adesso vi siete ritirati da Goma. Cosa farete?
«Abbiamo aderito alla richiesta della Comunità internazionale. Era la condizione per avviare il dialogo con il governo».
Il governo di Kabila cosa ha risposto?
«Oggi abbiamo iniziato e subito interrotto le trattative a Kampala. Il governo di Joseph Kabila continua a lanciare accuse infondate. Noi chiediamo verità e dialogo. Siamo stanchi di tutte queste guerre. Vogliamo affrontare i veri problemi del paese».
Quali, per esempio?
«In Congo non ci sono scuole, strade, ospedali. Per raggiungere Kinshasa bisogna prendere l’aereo. Le strade sono piene di ragazzi che non possono studiare. Perché il governo non costruisce scuole e non paga gli insegnanti. Chiede ai genitori di farlo. Tutto questo è assurdo, deve terminare».
Diversi rapporti trasmessi all’Onu accusano Uganda e Ruanda di sostenervi.
«Il problema è solo congolese. Kinshasa ha tutto l’interesse a dirottare all’esterno l’attenzione di una realtà interna».
Un uomo di Chiesa alla guida di un movimento armato. Come concilia i due ruoli?
«Sono tra i congolesi che amano il proprio paese, il loro popolo e che amano Dio. David prima di diventare re di Israele si è battuto con i filistei, Giuseppe è stato primo ministro in Egitto. Tutti conoscono la nostra integrità morale. Essere alla guida dell’M23 non cambierà il mio impegno come pastore della Chiesa. La comunità internazionale è invitata a venire in Congo. Giudicherà da sola chi vuole distruggere il nostro paese».