Intervista a Thomas Nagel.
Il sogno filosofico di Obama
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 21.11.2008)
Che effetto fa essere un pipistrello? Ma soprattutto, che diavolo c’entra questa domanda bizzarra con la filosofia, con Barack Obama e con le idee morali e politiche del mondo contemporaneo? C’entra, magari alla lontana, ma c’entra. Perché a porsela quella domanda, in un saggio accademico nel lontano 1974, fu un professore nato a Belgrado nel 1936, e via via divenuto uno dei massimi filosofi morali e politici contemporanei, docente prima a Princeton e poi alla New York University: Thomas Nagel. Erede negli Usa del grande John Rawls, pensatore scomparso e teorico della «società giusta», la società dove la libertà doveva essere davvero di tutti, e dove l’ineguaglianza si giustificava solo se aiutava i meno fortunati a progredire.
Qual è stata l’innovazione di Nagel rispetto al maestro? Eccola: occorre in etica tenere conto degli «stati limite soggettivi» («essere un pipistrello»), per potersi accordare con gli altri sul piano dell’etica civile. E da questa dialettica, tra differenza soggettiva e regole comuni sempre in fieri, scaturisce poi la giustizia - sociale, culturale e giuridica - che non è mai scritta una volta per tutte. Insomma, se per un verso l’andare oltre la propria condizione specifica, e la propria visione del mondo, è un presupposto necessario per la nascita del discorso morale, al contempo l’ossessione per l’«oggettività assoluta» rischia di negare le differenze individuali e la soggettività dei singoli. Paralizzando l’etica dentro dilemmi insolubili, che finiscono con renderla inutile per l’esistenza umana.
Per questo Nagel si è sempre battuto su due fronti: contro il moralismo conservatore e contro lo scetticismo decostruzionista, entrambi in gran voga negli Usa. E lo ha fatto in opere come La possibilità dell’altruismo, Questioni mortali, Soggettivo e Oggettivo, e anche in lavori più politici come Giustizia globale, uscito nel 2005 sulla rivista Philosohy and pubblic affairs.
Come avrete capito siamo in ambito «liberal» americano, sulla barricata opposta a quella dei neconservatori, duramente sconfitti dal primo presidente afro e americano alla Casa Bianca. E del resto Nagel si è molto impegnato per Obama e confida molto in una rivoluzione morale legata alle sue idee politiche. Per questo siamo andati a incontrarlo all’Hotel Plaza di Roma, alla vigilia della cerimonia per l’importante Premio Balzan per la filosofia morale, che gli verrà conferito questo pomeriggio da Napolitano all’Accademia dei Lincei. Sentiamo.
Professor Nagel, Margareth Thatcher diceva: non esiste la società ma solo individui. Dopo Barack Obama siamo entrati in un’era in cui questa idea è diventata un po’ più assurda?
«Mi è sempre parsa assurda questa idea. La Thatcher forse voleva dire che ogni azione politica o morale si giustifica solo in base all’interesse degli individui. Sbagliato, perché l’interesse pubblico riguarda la vita quotidiana di ciascuno e non se ne può proprio fare a meno. Come dimostra la crisi finanziaria Usa, nata dal privilegiamento esclusivo dell’interesse privato che ha generato il crack. Ora c’è uno spostamento culturale inevitabile. Dal libertarismo egoistico ad una società responsabile, dove il mercato resta cruciale per la crescita ma va regolato in base al bene comune».
Un ritorno in grande al New Deal di Franklin Delano Roosevelt?
«Credo di sì, a partire dalle politiche pubbliche per incoraggiare la crescita e i salari. E dalla sanità pubblica. Che verrà regolata non all’europea, sfortunatamente. Ma coinvolgendo lavoratori e imprese, specie queste ultime. E anche a partire dall’ambiente, altra occasione pubblica di rilancio economico, almeno nelle intenzioni di Obama».
Possiamo parlare di rivoluzione morale con Obama?
«La sua grande promessa va in tal senso. Non so però se un presidente da solo può creare una mutazione del genere. Al più può favorire un clima, e incoraggiare la persuasione che sia giusto e conveniente fare sacrifici, cambiare abitudini e stili di vita. Obama è venuto al momento giusto, come Lincoln e Roosevelt. Lui vuole un nuovo corso, anche ideale, dopo l’isolamento internazionale degli Usa e la catastrofe finanziaria».
Che tipo di religiosità è quella di Obama? Passeremo dal fondamentalismo neocon ad una sorta di profetismo democratico?
«Intanto Obama, come dimostra la sua biografia, è diventato un vero americano, nero e africano. Che ha instaurato un legame tra le due appartenenze e proprio attraverso la Chiesa. Non proprio un cosmopolita quindi, ma un americano che si richiama alle promesse originarie dell’America: integrazione, diritti, libertà. Più Luther King che Malcolm X, per intendersi. Ciò renderà la religione negli Usa meno divisiva e conflittuale. E anche più laica e secolare soprattutto nell’agenda bioetica, e diametralmente all’opposto di Bush Jr».
Il neocon Robert Kagan sostiene: gli Usa sono il paese più democratico e integrato. Dunque la Pax americana è in ogni caso la più giusta. Dov’è l’errore?
«È un punto di vista ideologico, che nasce dalla paura. Dalla mancanza di fiducia nel resto del mondo. E dalla diffidenza verso tanti paesi che erano i nostri alleati naturali. Una sindrome hobbesiana, fondata sulla caccia al nemico anche interno che ci minaccia e può inquinare la nostra convivenza. Non che certe paure siano del tutto infondate, ma possiamo fronteggiare le insidie ripristinando le nostre alleanze di sempre. Ripristinando insieme agli altri, e con l’Europa in primo luogo, un legame di fiducia. L’immagine di Obama perciò verrà associata sempre di più al multilateralismo».
Parliamo di filosofia, e di Utopia magari. A suo avviso la speranza kantiana della «Pace perpetua» potrà riacquistare una sua attualità, come criterio guida delle relazioni internazionali e contro l’idea hobbesiana della forza e della paura?
«Quella indicata da Immanuel Kant nel 1794 è un’idea molto importante e di lungo periodo. Idea regolativa e profetica, fondata su una straordinaria premonizione in Kant del futuro mondo globale. Significa che l’ordine mondiale appartiene a tutti e che l’affermarsi su scala planetaria di vere democrazie comporta la risoluzione consensuale dei conflitti e senza guerra. In base a un diritto condiviso. Una previsione in fondo corretta, oltre che auspicabile».
Tornerà di moda negli Usa la visione della «società giusta» e dell’ordine cosmopolitico giusto, legata a Kant e a John Rawls oltre che alla stagione dei diritti civili?
«Sono tematiche di sinistra che non hanno mai smesso di esercitare un certo influsso nella società americana. E che entro certi limiti influenzano anche le élite politiche progressiste negli Usa. Un influsso destinato senz’altro a crescere».
Le sottopongo tre parole chiave: «liberal», «left» (sinistra), «socialist». Con Obama diventerà più facile pronunciarle da voi?
«Liberal, cioè progressista non radicale, verrà certamente riabilitata. Socialist, non credo. Perché gli americani hanno sempre avuto in sospetto lo statalismo. Quanto a left o leftist, riguardano una minoranza negli Usa. La sinistra in senso europeo da noi è solo una frazione dello spettro politico: è la sinistra del Partito democratico. Semmai il problema è ancora la destra americana, essa sì robusta e identitariamente forte! Ecco, nelle nuove e più favorevoli condizioni, alla sinistra spetta il compito di neutralizzare la destra. Ma a condizione di allearsi stabilmente con il centro. Con i liberal e la middle class».
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Obama e la lotta per i diritti
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 21.11.2008)
Dalla cellule staminali alla chiusura di Guantanamo Barack ha già segnato una discontinuità Il neopresidente ha offerto una prospettiva diversa: la democrazia torna ad essere protagonista
L’annuncio di una serie di immediati provvedimenti di Barack Obama, per segnare già nelle prime dichiarazioni un radicale distacco dalla cultura dell’era Bush, induce (obbliga?) ad una discussione sul senso e le prospettive che assumono oggi le politiche dei diritti. So bene che, affrettandosi ad etichettare le mosse del nuovo Presidente degli Stati Uniti, si corre il rischio di cadere in quel chiacchiericcio provinciale che ha già prodotto le impagabili interpretazioni di chi ha indicato in Berlusconi e Bossi i precursori dell’innovazione prodotta dalle elezioni americane. Ma i segnali provenienti dagli Stati Uniti rimbalzano in tutto il mondo sì che, con la giusta misura, bisogna sempre prenderli sul serio.
Cellule staminali, aborto, Guantanamo sono parole familiari, che ci hanno abituato a vedere in esse addirittura il discrimine tra due mondi. Vengono pronunciate oggi per rendere subito evidente dove si vuole produrre una discontinuità. Chiudere il carcere di Guantanamo significa allontanarsi da una logica che, con l’argomento della difesa della democrazia, ha finito con il travolgere proprio i principi democratici, appannando l’immagine di un paese che ha sempre voluto identificarsi con le ragioni della libertà. Se questo annuncio significativo diverrà concreto, possiamo aspettarci anche un abbandono delle aggressive politiche di sicurezza che si sono volute imporre agli altri Stati, facendo divenire planetarie le leggi americane? Su questo punto l’Unione europea avrà qualcosa da dire se si libererà da una soggezione che l’ha indotta non solo ad accogliere eccessive pretese americane, ma anche a mimarne in maniera ingiustificata i modelli, incurante pure degli appelli ad una coerente difesa dei principi di libertà che arrivavano proprio da organizzazioni americane importanti come l’American Civil Rights Union.
Nettissima sarebbe la discontinuità legata all’abbandono delle politiche "ideologicamente offensive" di Bush che hanno vietato il finanziamento federale delle ricerche sulle cellule staminali embrionali e delle organizzazioni internazionali che aiutano le donne ad abortire legalmente. Qui, infatti, hanno pesato in modo determinante i confessionalismi religiosi e, una volta che Obama avesse ripristinato i finanziamenti pubblici, la distanza con la politica ufficiale del Vaticano diverrebbe clamorosa (e assumerebbe ben diverso significato la stessa versione della religiosità di Obama, sulla quale si sono esercitati con grande disinvoltura diversi commentatori). Su questi temi, peraltro, il sostegno dell’opinione pubblica è ben visibile, testimoniato dalla sconfitta in tre Stati dei referendum contro l’aborto e dal successo in un altro di un referendum sul suicidio assistito. E’ lecito sperare che anche in Italia sia possibile tornare con pacatezza sul tema della ricerca sulle staminali, liberandosi anche qui delle pesantezze ideologiche e mettendo magari a frutto contributi come quello recentissimo di Armando Massarenti (Staminalia, Guanda, Parma 2008)?
Le discontinuità non si esauriscono con i casi appena ricordati, ma riguardano altre importanti materie, dalla tutela dell’ambiente alla sanità, dall’istruzione ai diritti dei minori (vi fu un veto di Bush su una legge che li riguardava). Ed è importante sottolineare che la rottura con il passato può essere rapida e immediata perché la maggior parte dei provvedimenti da cambiare ha la sua fonte in "executive orders" di Bush, atti presidenziali che non hanno bisogno dell’approvazione del Congresso. Usando la stessa tecnica, Obama potrebbe effettuare in pochissimo tempo una spettacolare ripulitura del sistema giuridico americano.
Ma, al di là delle pur importantissime questioni specifiche, è significativo il modo in cui viene concepita l’intera strategia d’avvio della nuova presidenza. L’economia presenta il suo conto, pesantissimo. E tuttavia questa indubbia priorità non ha indotto nella classica tentazione della politica dei due tempi: prima i provvedimenti economici e poi i diritti civili. "Erst kommt das Fresse, dann kommt die Moral", prima la pancia e poi la morale, si canta alla fine del primo atto dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Una politica che vuol essere moderna non si risolve tutta nell’uso delle nuove tecnologie, pur così importanti nel successo di Obama. Ha il suo baricentro nella capacità di tenere insieme economia e diritti, individuo e società. I diritti non sono un lusso o un’appendice, di cui ci si può occupare solo a pancia piena, una volta soddisfatti i bisogni economici e di sicurezza, anche perché è proprio la logica dei diritti e delle libertà a definire, in un sistema democratico, le caratteristiche delle politiche economiche e d’ordine pubblico. Ai molti americani, giovani e non, disimpegnati e lontani dalla politica Obama non ha offerto solo il fascino di You Tube, ma una prospettiva diversa, dove appunto la democrazia e i diritti tornano ad essere protagonisti e hanno bisogno di persone che diano loro voce. Una prospettiva non lontana da quella aperta in Europa soprattutto da Zapatero; che attraverso la vicenda americana si conferma, si consolida, ci dice che le politiche dei diritti hanno bisogno di radicalità; e che dovrebbe indurre qualcuno, anche dalle nostre parti, ad abbandonare schematismi e pigrizie.
Non sarà una passeggiata, quella del nuovo Presidente degli Stati Uniti, anche se la sua elezione offre una importantissima garanzia: la Corte Suprema, strumento essenziale per le politiche dei diritti, non subirà un ulteriore "impacchettamento" conservatore. Ma soprattutto il risultato del referendum californiano contro i matrimoni gay apre un delicatissimo fronte politico e giuridico. Quale sarà la linea di Obama, che pure ha esplicitamente ricordato gli omosessuali nel suo discorso di ringraziamento? Come hanno sottolineato i giuristi più attenti, quel referendum incide in forme improprie sul principio di eguaglianza e mette in discussione i diritti già acquisiti dalle diciottomila coppie che hanno utilizzato il nuovo istituto. Tempi impegnativi si sono aperti, e in essi la lotta per i diritti giocherà un ruolo essenziale.