Rivalutare la pluralità ascoltando Carl Schmitt
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 28.08.2016)
La pubblicazione dei Quaderni neri ha riportato al centro delle discussioni l’opportunità di leggere autori il cui legame con il nazismo è ormai un fatto assodato. Vale per Martin Heidegger e vale per Carl Schmitt, che a più riprese, e spesso in modo patetico (neppure ai gerarchi sfuggì il suo opportunismo), cercò di «assumere intellettualmente il comando del movimento nazista» (Jaspers). Il giudizio sulla persona, in entrambi i casi, non può che essere negativo, ma in fondo importa poco. Ciò che conta sono le idee: perché continuare a occuparsi delle teorie di questi cattivi maestri?
Il paradosso di Schmitt, spiega Jean-François Kervégan nel libro Che fare di Carl Schmitt? (traduzione di Francesco Mancuso, Laterza, pp. 238, e 24), è che molte delle sue idee, pur compromesse con il regime nazista, offrono spunti di riflessione per affrontare i nostri problemi da angolature interessanti. Così è per la teoria dei «grandi spazi». Visto che i singoli Stati non sono più in grado di garantire l’ordine (e questa è forse l’osservazione più attuale: la crisi dello Stato nazione), è auspicabile una divisione del mondo in zone d’influenza controllate da grandi potenze.
Alla fine degli anni Trenta questa teoria serviva a giustificare l’espansionismo hitleriano. Ma nel dopoguerra non è stata proprio la divisione in due grandi blocchi la garanzia di un cinquantennio di relativa stabilità?
L’obiettivo, oggi, è ricostruire un nuovo ordine prescindendo da queste divisioni potenzialmente conflittuali, nel nome della pace e di un diritto universale condiviso. Un’idea stupenda, ma per Schmitt impossibile, perché non esiste un diritto puro, autonomo o neutrale. Il diritto trova il suo fondamento in un atto politico, e la politica presuppone sempre il perseguimento del proprio interesse contro quello degli altri: implica dunque una pluralità di agenti e il rischio del conflitto. Per questo la guerra ci sarà sempre e non ha senso stigmatizzarla: è parte della lotta politica. Il problema è piuttosto come contenerla e regolarla, lasciando cadere le distinzioni morali tra buoni e cattivi: non ci sono guerre giuste, ma ci deve essere un «giusto», vale a dire delle regole rispettate, nella guerra.
Così successe nell’età moderna ed è questo ciò a cui bisogna aspirare oggi per evitare di finire in una «guerra civile mondiale» senza limiti, in cui ciascuno si ritiene portatore di verità universali insindacabili. Che queste teorie fossero sfruttate in difesa della potenza nazista, impegnata in quegli stessi anni in una guerra di sterminio a Est, ha dell’incredibile. Ma come negare che queste analisi potrebbero servire a inquadrare i problemi di una globalizzazione sempre più fuori controllo? E magari potrebbero aiutare a definire un ruolo possibile per l’Europa sullo scenario mondiale.
Una delle tendenze più vistose dei nostri tempi è stato il tentativo di neutralizzare la dimensione politica delle relazioni umane, nella convinzione che il progresso economico o scientifico avrebbe offerto soluzioni nuove e definitive. Le proposte di Schmitt non sempre, anzi quasi mai, sono del tutto condivisibili. Ma le sue analisi ci ricordano che il «politico» è parte integrante della condizione umana, e su questo è difficile dargli torto.
Lo spiega bene Kervégan: «L’unificazione tecnica del mondo è un fatto acclarato: ma derivarne la necessità di una unificazione politica, o piuttosto di una unificazione nell’oltrepassamento del politico, del conflitto, del negativo, è una illusione», che rischia di lasciarci senza strumenti per comprendere ed eventualmente intervenire sulla realtà che ci circonda - una realtà che è e rimane plurale. Nei giorni della catastrofe siriana viene da pensare che forse non è ancora arrivato il momento di sbarazzarsi di Schmitt.