I confini del segreto
di CARLO FEDERICO GROSSO (La Stampa, 5/11/2009)
Gli agenti Cia sono stati condannati a pene pesanti per il sequestro di Abu Omar. Pollari, Mancini e tre altri funzionari del Sismi sono stati, invece, dichiarati non giudicabili a causa del segreto di Stato che copre la documentazione relativa all’eventuale ruolo esercitato nella vicenda.
La ragione giuridica di questa decisione è individuabile nell’art. 202 codice di procedura penale, che stabilisce che «qualora per la definizione del processo risulti essenziale quanto è coperto dal segreto di Stato, il giudice dichiara non doversi procedere per l’esistenza del segreto». Più in generale si può rilevare che, nel nostro sistema giuridico, l’opposizione del segreto di Stato, confermata con atto motivato dal presidente del Consiglio, inibisce all’autorità giudiziaria l’acquisizione e l’utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte dal segreto; non è in ogni caso precluso all’autorità giudiziaria di procedere in base ad elementi autonomi e indipendenti dagli atti coperti dal segreto.
Ciò che è avvenuto nel processo a carico degli agenti Cia e dei responsabili dei servizi segreti italiani è, a questo punto, chiaro. Su determinati atti è stato opposto, e confermato dalla Presidenza del Consiglio, il segreto di Stato (come si ricorderà, il segreto era stato confermato da ben due Presidenti, ed era stato ulteriormente avallato dalla Corte Costituzionale, chiamata a decidere su di un conflitto di attribuzioni con il governo sollevato dalla Procura di Milano). Cionondimeno, la Procura ha ritenuto di potere comunque insistere nella prospettiva accusatoria, confidando nelle prove desumibili da elementi diversi dai documenti secretati. Il giudice ha ritenuto che per la definizione del processo tali documenti fossero invece essenziali.
Non conoscendo gli atti del processo, non sono in grado di dire se ha ragione il giudice o la Procura. Al di là delle valutazioni di merito, è comunque utile cogliere il significato della decisione assunta ieri a Milano ragionando sulle sue implicazioni. Al riguardo sono significative le reazioni alla sentenza manifestate dal principale imputato italiano e quelle dei suoi accusatori milanesi.
Pollari ha dichiarato di essere rammaricato dalla circostanza che, se il segreto fosse stato svelato, la sua innocenza sarebbe emersa con evidenza. La Procura ha commentato a sua volta che la sentenza dimostra che l’azione penale è stata esercitata legittimamente: non soltanto perché gli americani e gli agenti italiani processati per favoreggiamento sono stati condannati, ma anche perché Pollari e Mancini sono stati considerati non giudicabili a causa dell’essenzialità delle notizie coperte dal segreto, e non, invece, in ragione della loro estraneità ai fatti.
Ciò significa che, in ogni caso, conoscere e utilizzare gli atti coperti dal segreto di Stato sarebbe stato importante per risolvere in modo convincente il caso giudiziario in questione: nell’interesse degli imputati «non giudicati», nei cui confronti rimane comunque aperto il sospetto di avere partecipato all’azione illegale; nell’interesse della Procura, che avrebbe avuto diritto a una risposta giudiziale alle accuse formulate; soprattutto, nell’interesse della giustizia, perché l’oscurità mantenuta su di una vicenda di tanto rilievo umano e politico non può comunque soddisfare.
La questione relativa al caso Abu Omar ripropone d’altronde il tema generale dei confini del segreto di Stato in una società democratica, nella quale chiarezza e trasparenza dovrebbero essere considerati beni di importanza primaria. E’ vero che la ragion di Stato può imporre limiti e paletti a tutela della sicurezza nazionale. In quale misura, tuttavia, è consentito nascondere ai cittadini comportamenti e azioni di governo? Quanti e quali misteri d’Italia potrebbero essere finalmente svelati, da Ustica a Bologna, da Brescia alle altre stragi impunite, se il segreto sugli atti secretati fosse finalmente rimosso?
I Procuratori di Milano, nella loro requisitoria, non hanno esitato a proporre con forza il problema, affermando che la democrazia si fonda sulla salvaguardia dei principi irrinunciabili di civiltà anche nei momenti di emergenza e sostenendo che non possono essere consentiti accordi internazionali che concernano la commissione di reati. La sentenza che ha chiuso, in primo grado, il caso giudiziario, applicando il diritto vigente, su questo tema non ha potuto dare una risposta che, al di là del profilo strettamente giuridico, possa soddisfare.
In ogni caso ha risolto, questa volta in modo soddisfacente, una ulteriore questione: fino a che punto l’Italia sia disposta a tollerare azioni illegali condotte da agenti stranieri sul suo territorio. La condanna degli agenti americani costituisce, almeno su questo piano, una risposta che, finalmente, convince.