Muti: la nostra identità si risveglia in musica
Il Maestro ha diretto ieri a Roma il “Nabucco” di Verdi
“Uso le note per aggregare persone, culture, religioni diverse”
Esportiamo il cortocircuito tra melodramma opera e nazione
di Sandro Cappelletto (La Stampa, 17.03.2011)
Sono nato a Napoli, il 28 luglio 1941, durante la guerra, da madre napoletanissima e padre pugliese. Mi riportarono subito a Molfetta, e mantengo dentro di me lo stesso amore per l’una e per l’altra patria: amo definirmi un apulo-campano». Così scrive di sé Riccardo Muti, all’inizio di «Prima la musica, poi le parole», la sua autobiografia. Meridionale, dunque; e fieramente. Poi il diploma al Conservatorio di Milano, le prime affermazioni al Maggio Musicale di Firenze, il lungo incarico alla guida dell’orchestra della Scala, in questi giorni la presenza a Roma per una serie di recite del Nabucco di Verdi, diretto ieri sera alla presenza del Presidente della Repubblica.
La carriera di un musicista non ha patria e lo sanno bene i cantanti, i direttori, gli strumentisti italiani che sono stati per secoli, e continuano a essere, infaticabili emigranti. Muti non fa eccezione: i successi a Filadelfia, il sodalizio con l’orchestra dei Filarmonici di Vienna, la presenza costante al festival di Salisburgo, il recente incarico a Chicago.
Tuttavia, in questi giorni sembra che attraverso di lui si sia di nuovo acceso il cortocircuito tra musica - più esattamente: il melodramma, l’opera in musica - e nazione. Una nazione affaticata, che trova motivi per dividersi, per precisare, per distinguere, anche in questo giorno di festa, e che sembra ritrovare una vernice comune negli entusiasmi che questa musica ancora accende. «Non c’è, né ci deve essere che una musica grata alle orecchie degli italiani nel 1848. La musica del cannone! Io non scriverei una nota per tutto l’oro del mondo: ne avrei un rimorso, consumare della carta da musica, che è buona per fare cartucce», scriveva Verdi il 21 aprile 1848, nella sua più celebre lettera patriottica. E meno male che non è stato di parola.
E un secolo dopo, commentava Massimo Mila: «Soltanto in Italia in rapporto di filiazione tra l’artista e la nazione procede in questa direzione e riguarda assai più lo spirito che i sensi».
Oggi, siamo allo stesso punto. Così, ogni recita - e sono tutte esaurite - di questo Nabucco romano diventa un sacrificio collettivo: un atto sacro, a fortissima temperatura emotiva. Dopo il Va’ pensiero - «che non può diventare inno nazionale perché esprime il dolore, il compianto di un popolo incatenato», precisa Muti - il Maestro chiede al pubblico di cantare e di unirsi al coro del Teatro dell’Opera di Roma. Superata ogni remora, ogni dubbio se concedere o non concedere il bis, quel coro sembra diventare un momento identitario, e condiviso: «Era già successo alla Scala: sapevo bene, in teoria, di non poter concedere il bis: il divieto faceva parte di quel codice scaligero che aveva dato al teatro negli anni Venti il suo meritato carisma e la funzione di modello agli occhi del mondo. Ma alla terza richiesta mi chiesi che fare: “Se non lo fai - dicevo fra me e me - deludi migliaia di persone, se lo fai spezzi una tradizione sacra”». La spezzò, rispettando la richiesta che partiva dall’emozione della sala gremita, e da se stesso.
«Continuo a combattere per un’Italia - che amo profondamente - e per un’Europa che denotano gravi segni di stanchezza, di smarrimento. Altre nazioni, tecnologicamente, culturalmente si stanno prendendo il futuro. Non vorrei che in questo futuro l’Europa e l’Italia rimanessero soltanto una specie di museo. Magari con la scritta “chiuso”»: un rischio concreto che Muti ha esplicitamente evocato l’altra sera, spezzando un’altra tradizione e parlando al pubblico durante lo spettacolo.
Ma un’identità musicale italiana capace di imporsi come codice linguistico internazionale è assai più antica di Verdi: «Mozart è stato il più grande operista italiano del Settecento. Certe sue creazioni, penso a Così fan tutte, ma non solo, non sarebbero state possibili senza la conoscenza dell’ opera italiana e in particolare napoletana di quel secolo». In questa direzione vanno le esecuzioni di compositori e titoli italiani usciti dal repertorio più frequentato, che Muti da alcuni anni costantemente ripropone, in un lavoro tenace, non episodico.
La musica ha un’altra caratteristica preziosa: unisce e non divide, in un mondo contemporaneo che vede ancora contrapposizioni feroci tra popoli, tra Stati. Questa la strategia di Le vie dell’amicizia, la manifestazione legata al festival di Ravenna, che ha fatto tappa in diverse città del Mediterraneo, del Medio oriente, del Nord Africa e, in Italia, a Trieste: «Trieste come città di confine, città ponte tra l’Italia, la Slovenia e la Croazia. Un concerto che ha avuto un significato sociale, ma anche politico: amicizia significa fratellanza, ricucire ciò che è stato strappato. Trieste, in memoria degli orrori avvenuti nella Risiera di San Sabba, il lager dove furono torturati, uccisi, avviati ai campi di sterminio migliaia di italiani, soprattutto ebrei; e degli orrori delle foibe istriane, che inghiottirono migliaia di altri sventurati».
Maestro, fa politica o musica? «Uso la musica anche per aggregare persone, culture, religioni, popoli diversi. Faccio musica, non politica. La mia politica è fare appello continuo e appassionato per la cultura. Ho sempre combattuto contro lottizzazioni, partigianerie». Per un’altra Italia, quella che festeggeremo nel 2161.